Tutti i “fuck you!” di Barney Greenway in Italia

Il 26/08/2019, di .

In: .

Tutti i “fuck you!” di Barney Greenway in Italia

Potete pensare tutto quello che volete dei Napalm Death, musicalmente parlando, ma una cosa è certa: la formula che hanno contribuito a forgiare e da cui si sono più volte distaccati non è un semplice genere musicale, per quanto innovativo o dirompente sia. La band di Birmingham viene dall’anarco / punk, da quella che per l’epoca era la frangia di rottura più “estrema” in circolazione, e da cui Shane Embury e soci sono partiti per allargarne le maglie e creare il grindcore. Nulla sarebbe stato più come prima.
Per lo stesso principio, un concerto dei Napalm Death è “cibo per la mente”, come si diceva una volta. Che siate d’accordo o no con le esternazioni di Mark “Barney” Greenway, non si può dire che non abbia alle spalle sufficiente militanza in determinati ambienti affinché le sue opinioni non appaiano quelle di un opinionista improvvisato, un po’ come quelli a cui siamo abituati al di qua delle Alpi.
Ed è così che, nella recente calata italiana dei Napalm Death, improvvisamente ci siamo accorti di questo distinto signore dall’accento delle West Midlands e dall’aplomb incredibilmente affine a quello di Roger Moore, proprio nel momento in cui, dopo un discorso articolato sull’importanza dei rapporti umani, dell’accoglienza e del senso di umanità, se ne è uscito con un riassuntivo e stringato “Matteo Salvini, fuck you!”, corredato da un gesto eloquente che neanche Yanis Varoufakis e accolto da un boato (liberatorio?) dalla folla e da qualche grugnito di disapprovazione dalla frangia dei defender per cui “la-politica-fuori-dalla-musica” e “quell’aquila-che-ho-tatuata-è-un-semplice-tributo-alla-grandezza-di-Roma”. “Piazze piene, urne vuote”, diceva qualcuno; “la sinistra riparta da Barney”, direbbe qualcun altro, dimentico del fatto che il simpatico nome di matrice anglosassone da noi richiama per prima cosa il beone amico di Homer Simpson.
Mr. Greenway è molto di più, non è una semplice ingerenza albionica nei fatti italiani (che poi, di grattacapi ne hanno a sufficienza anche i procugini inglesi, dovremmo saperlo…); è la critica alle istituzioni ecclesiastiche e ai dettami ultrareligiosi che introduce la storica ‘Suffer the children’, la capacità di evocare scenari distopici di società appiattite sull’uniformità di pensiero e di azione prima della violentissima ‘Standardization’, ed è soprattutto il degno erede di Jello Biafra, pronto a bacchettare i nazi punks nell’omonima cover dei Dead Kennedys spesso inclusa nella scaletta dei britannici, come proprio come faceva il padre putativo sui palchi della California una quarantina di anni orsono. E a proposito di cover, qualcuno ricorderà quella dei nostri Raw Power inclusa nel seminale EP ‘Leaders not Followers’: ‘Politicians’, appunto. Così, tra i suoni vocalici tipici dell’area di Birmingham, così refrattari al Great Vowel Shift da apparire ostici all’ascoltatore, e tra parole dissacranti espresse con l’irresistibile stile di Oltremanica, i Napalm Death ci hanno regalato, sia al Frantic che all’Agglutination, un’ennesima dimostrazione di come si possa fare “rumore politico” con la stessa convinzione di quando si sono mossi i primi passi in una scena nuova e tutta da scrivere.
Con l’immancabile sarcasmo nei confronti dei cugini americani: incuriosito dal risuonare della classica bestemmia che dal Veneto si è diffusa in tutta Italia, Barney Greenway ne ha chiesto la traduzione. Ecco dunque che, lungi dall’evocare immagini di simpatici maialini, il pubblico ha convintamente risposto “Goddamn’ it!”, memore di Tex Willer e Kit Carson. La risposta del frontman non si è fatta attendere: “I’m sorry, that’s American English: I just can’t repeat it!”.

Foto di SIMONE RE

Leggi di più su: Napalm Death.