‘Difficult To Cure’: i quarant’anni dell’inguaribile febbre americana dei Rainbow

Il 03/02/2021, di .

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‘Difficult To Cure’: i quarant’anni dell’inguaribile febbre americana dei Rainbow

L’inizio degli anni Ottanta trovò decisamente la bussola dell’aeronave Rainbow orientata a Ovest, verso le sonorità a stelle e strisce. Se un simile stravolgimento era stato il motivo primario per l’abbandono di Ronnie James Dio qualche anno prima, la presenza di Bonnet e soprattutto quella di Cozy Powell avevano reso ‘Down To Earth’ un disco di successo ma ancora parzialmente legato alle radici albioniche. Non così per il successivo ‘Difficult To Cure’, che vide Ritchie Blackmore virare decisamente verso un sound americano, ottimizzando le formule fino ad allora sperimentate e portandole in qualche modo all’eccesso.
Confermati i fidi Roger Glover e Don Airey, reclutato Joe Lynn Turner dai Fandango e collocato Bobby Rondinelli dietro le pelli che furono di Powell, il Man In Black iniziò l’ennesima scalata al mercato americano, un’impresa che lo aveva visto in prima linea sin dai tempi del successo di ‘Hush’ più di dieci anni prima. Certo, erano altri tempi: il 1968 era ormai passato remoto, il 1981 furoreggiava e le nove tracce presenti su ‘Difficult To Cure’ strizzavano l’occhio a quel pubblico che parlava lo stesso idioma dell’ennesimo talento vocale reclutato dal Nostro, e che negli anni diverrà un’istituzione del mondo dell’hard rock melodico. Intenti americani, armamenti europei: ancora una volta viene scelta una composizione di Russ Ballard per lanciare una hit single, e il risultato è ancora più clamoroso del predecessore ‘Since You Been Gone’, dato che l’opener ‘I Surrender’ schizza al terzo posto della classifica britannica e rientra tra i primi venti di quella Mainstream Rock negli USA, sintetizzando bene la nuova formula proposta dai Rainbow con un sound semplificato che non rinuncia a quelle suggestioni ricercate provenienti dal suo glorioso passato. Un concetto ancor più approfondito nella successiva ‘Spotlight Kid’, scheggia proto/power di chiara matrice Purple che non a caso scalzerà ‘Kill The King’ dalla posizione di opener dei concerti, forte di un duello tra la chitarra di Blackmore e le tastiere di Don Airey che è sicuramente il punto più alto del disco. Certo, siamo dinanzi a un album in cui la ricercatezza artistica è spesso sacrificata sull’altare dell’airplay e della nuova passione di Blackmore, i Foreigner: il risultato sono una serie di brani sottotono rispetto al recente passato, sia quando il piglio è smaccatamente ruffiano (‘No Release’), sia quando il modello hard rock aleggia nell’ombra (‘Can’t Happen Here’), tanto che paradossalmente è la spudoratissima versione di ‘Magic’ a regalarci un retrogusto retrò a suo modo piacevole.
Come sempre, comunque, si scrive Rainbow e si legge Ritchie Blackmore, con il mastermind che ci regala uno dei suoi strumentali malinconici con ‘Vielleicht das nachster Zeit (Maybe Next Time)’, il cui titolo fu poi corretto con ‘Vielleicht das nächste Mal’ nelle successive edizioni (sebbene la traduzione esatta di “magari la prossima volta” sia ‘Vielleicht beim nächsten Mal’…); inoltre, la rivisitazione dell’Inno alla Gioia di Beethoven nella title track ci restituisce un Airey in grande spolvero, degno erede dell’operato di Jon Lord, quasi ad anticipare lo svolgersi degli eventi che lo vedrà sedere dietro i tasti di avorio dei Deep Purple in futuro. Una versione pacchiana quanto vogliamo, ma talmente di successo da essere riproposta nel tour di reunion dei Deep Purple di qualche anno dopo, e soprattutto con una coda che dispiega il tipico humour britannico del leader con la scelta di piazzare una risata di Oliver Hardy in loop poco dopo un gran finale che fa il verso alle grandi chiusure sinfoniche di riferimento.
In definitiva, un disco dal valore discontinuo, ma fondamentale per capire lo spirito del tempo anche attraverso scelte artistiche che oggi possono apparire discutibili, ma che all’epoca erano prassi consolidata.

Hammer Fact:

– Dopo averne concesso l’utilizzo agli Head East un anno prima, Russ Ballard girerà ‘I Surrender’ agli astri nascenti della NWOBHM Praying Mantis affinché potessero rilasciarne una propria versione. A registrazioni quasi complete giunse la notizia dell’interesse per la track da parte dei Rainbow, tanto che i fratelli Troy dovettero cedere: “ubi maior, minor cessat” o “I surrender”, se preferite…

– L’iconica copertina di ‘Difficult To Cure’ era stata originariamente realizzata dalla Hipgnosis per ‘Never Say Die!’ dei Black Sabbath, che però alla fine optarono per la versione con i due aviatori che tutti conosciamo. Venne dunque utilizzata dai celebri art designers ben tre anni dopo; ironicamente, Don Airey figura in entrambi i dischi, avendo registrato le tastiere per i Black Sabbath come session musician.

Line-Up:
Joe Lynn Turner: vocals
Ritchie Blackmore: guitars
Roger Glover: bass
Don Airey: keyboards
Bobby Rondinelli: drums

Image credit: R.Galbraith

Tracklist:
01. I Surrender
02. Spotlight Kid
03. No Release
04. Magic
05. Vielleicht Das Nachster Zeit (Maybe Next Time)
06. Can’t Happen Here
07. Freedom Fighter
08. Midtown Tunnel Vision
09. Difficult To Cure (Beethoven’s Ninth)

Ascolta il disco su Spotify

Image credit: R.Galbraith

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