Rocket Engines Burning Fuel So Fast – I cinquant’anni di ‘Master Of Reality’

Il 21/07/2021, di .

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Rocket Engines Burning Fuel So Fast – I cinquant’anni di ‘Master Of Reality’

“Ah, gli anni Settanta…”: una di quelle frasi fatte che abbiamo ripetuto e ci siamo sentiti ripetere fino allo sfinimento negli anni a venire. Eppure, al di là dei continui revival legati all’estetica, la mitizzazione di quel periodo passa attraverso la forma – questo è certo – ma anche tanta, tanta sostanza e genialità, nella fattispecie. E possiamo inserire a buon diritto in quell’ondata di genialità quello che è stato il periodo d’oro dei Black Sabbath, quei sei dischi che hanno contribuito a modellare l’estetica, le tematiche e soprattutto i suoni di uno o più generi musicali.
All’alba del 1971 i quattro di Birmingham erano sulla cresta dell’onda: due dischi sfornati a gran velocità nel corso dell’anno precedente e un singolo di enorme successo quale era stato ‘Paranoid’, il pezzo nato quasi per caso e che contribuì non poco al traino dell’omonimo, secondo album. Si trattava di andare avanti e non adagiarsi sugli allori, data anche l’illustre concorrenza dei giganti contemporanei a Iommi e soci. Ecco dunque il fatidico terzo album, ‘Master Of Reality’, poco meno di trentacinque minuti declinati in otto tracce (undici nella versione americana, che come di consueto specifica gli interludi). Un pezzo di Storia dell’hard’n’heavy, un disco di un’importanza stratosferica i cui tratti distintivi sono stati forgiati da una scelta compiuta da Iommi in persona, quella di ribassare la propria accordatura di un tono e mezzo per agevolare l’uso delle protesi alla mano destra nel premere i tasti. Come spesso accade, da una contingenza apparentemente casuale nasce un filone inarrestabile, dato che l’effetto su colossi come ‘Children of The Grave’ o ‘Into The Void’ è impareggiabile, rappresentando al contempo un importante precedente per le evoluzioni a venire. Se le succitate, assieme all’opener ‘Sweet Leaf’, al tripudio di pentatoniche del riffing di ‘After Forever’ e all’incedere incalzante di ‘Lord Of This World’, rappresentano l’ulteriore appesantimento del suono giustificato dalla fuga dal successo facile di ‘Paranoid’ e dai riflettori di Top Of The Pops, è al contempo l’amore del lider maximo Iommi per il progressive ad affiorare tra i solchi (è il caso di dirlo): i delicati interludi ‘Embryo’ e ‘Orchid’ (imprescindibili dalle song a cui fungono da intro) e soprattutto la riflessiva ‘Solitude’ in cui il Nostro si reinventa polistrumentista, aggiungendo colori inusuali a una traccia rarefatta che prepara l’ascoltatore alla mastodontica cavalcata finale.
Nel mezzo, melodie intramontabili che però non strizzano mai l’occhio all’easy listening: non un ritornello, come lo intendiamo e lo intendevamo persino all’epoca. Piuttosto, dove andrebbe il ritornello troviamo un riff tratto dalla personale Enciclopedia di Tony Iommi, una fonte di ispirazione che avrebbe praticamente portato avanti generi interi nei decenni a venire.
Non è esagerato dire che gli episodi “sperimentali” che spuntano in mezzo a un nugolo di classici fondamentali per ciò che ascoltiamo tutti i giorni rendono gli stessi ancora più pesanti e incredibilmente freschi, anche alle orecchie dell’ascoltatore di cinquant’anni dopo. E poi, tutto è un’icona su ‘Master Of Reality’: le ritmiche fantasiose di Ward/Butler e i testi scritti da quest’ultimo e interpretati dall’alienazione vocale di Ozzy Osbourne, che vanno dall’accorata ‘After Forever’, che smentisce le accuse di satanismo non perdendo al contempo l’occasione di prendersela con bigotti e perbenisti, fino all’incubo post/nucleare descritto sulle citate ‘Into The Void’ e ‘Children Of The Grave’, quest’ultima presente praticamente nella setlist di tutte le future incarnazioni del Sabba Nero. E ancora, i colori dell’artwork – viola e nero, già evocativi di loro – sono l’inconfondibile vessillo di chiunque voglia rifarsi a quell’estetica musicale; per non parlare della produzione, così lontana dai suoni laccati che avrebbero dilagato in futuro e che fu uno dei motivi dell’oscuramento vissuto dal disco e dalla band stessa nel pieno degli anni ’80 (le riviste specializzate scrivevano che, a confronto con ‘Master Of Reality’, ‘Show No Mercy’ suonava come ‘The Final Countdown’…) ma dell’incredibile recupero avvenuto all’alba dei ’90, grazie all’ondata grunge, stoner e non solo. Infine, a parlare è l’enorme quantità di cover illustri raccolte sia sui due volumi di ‘Nativity In Black’ che su ‘Masters Of Misery’ targato Earache, un tributo doveroso che va dalla grassa ‘After Forever’ dei Biohazard (godetevi Graziadei e Seinfeld che saltellano e urlano al fianco di Bill Ward nel videoclip) alla violentissima ‘Lord Of This World’ dei Brutal Truth (Kevin Sharp ha una “firma d’autore” inconfondibile) alle atmosfere di ‘Solitude’ dei Cathedral fino alla marcia dei caterpillar a nome Monster Magnet e Soundgarden, con due versioni distinte ma altrettanto imperdibili di ‘Into The Void’: la cosa incredibile è che i brani stessi sembrano cuciti alla perfezione sui generi futuri!
Insomma, un disco che ridefinisce e allarga a dismisura i confini di un genere che non è ancora nato, ma che già mostra la sua eccezionale vitalità; una colonna portante dei Magnifici Sei dei Sabbath!

Hammer Fact:

– Il colpo di tosse che apre il disco è la registrazione di una boccata di marijuana andata di traverso a Tony Iommi; probabilmente non c’era modo migliore per introdurre un pezzo che è un’ode alla Dolce Foglia come ‘Sweet Leaf’, ma il titolo stesso deriva dalla marca di sigarette irlandesi Sweet Aftons, pubblicizzate come “The Sweetest Leaf You Can Buy”!

– Secondo un adagio molto in voga tra i chitarristi, “se un riff che tiri fuori è bello, l’ha già scritto Tony Iommi”: agli sabbathiani che ascoltano i Litfiba non sarà infatti sfuggita l’assonanza tra ‘Suona fratello’ e ‘Solitude’ (che fa un po’ il paio con quella tra il riff di apertura di ‘Dimi il nome’ e ‘The Mob Rules’), ma in questo caso il riff portante di chitarra ha origini ancora più antiche, essendo già presente su ‘Gold And Silver’ del disco di debutto dei Quicksilver Messenger Service. Un giro perfetto per le improvvisazioni, e infatti impiegato a profusione persino dai Motorpsycho nella versione dal vivo della loro ‘Mountain’; un pezzo, neanche a dirlo, sabbathiano fino al midollo.

– Seguendo la tradizione che vuole le versioni americane infarcite di sottotitoli (‘Bassically’ e ‘Luke’s Wall’ erano i precedenti più illustri, presenti rispettivamente sul primo e sul secondo album), anche ‘Master Of Reality’ ne presenta tre in più per il mercato di Oltreoceano, corrispondenti ad altrettante tracce (come già detto): ‘The Haunting’ (il riverbero messo in coda a ‘Children Of The Grave’), ‘Step Up’ e ‘Deathmask’ (rispettivamente i riff iniziali di ‘Lord Of This World’ e ‘Into The Void’). In più, ad After Forever è aggiunta la dicitura crimsoniana “including The Elegy”.

Line-Up:
Ozzy Osbourne: vocals
Tony Iommi: guitar, synthesizer, flute, piano
Geezer Butler: bass
Bill Ward: drums

Tracklist:
01. Sweet Leaf
02. After Forever
03. Embryo
04. Children Of The Grave
05. Orchid
06. Lord Of This World
07. Solitude
08. Into The Void

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