Dream Theater – Vent’anni di turbolenza interna

Il 29/01/2022, di .

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Dream Theater – Vent’anni di turbolenza interna

Sono passati vent’anni esatti dal 29 gennaio del 2002, data della pubblicazione di ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’. Possiamo considerare questo album un punto di svolta nella carriera dei Dream Theater? Probabilmente sì, perché sono molte le vicende che hanno portato alla pubblicazione del primo “vero” doppio disco nella lunga storia del gruppo americano. Sesto album in studio, ‘Six Degrees’ segue di soli tre anni quello che dai più viene considerato l’apice della carriera della band: ‘Metropolis Part 2 – Scenes From A Memory’. Successivamente al tour di supporto al mastodontico ‘Scenes’, a cui fa seguito la pubblicazione di un sontuoso triplo live che porta con sé una storia particolare (che potete leggere qui), i Dream Theater si ritrovano per mettere sul tavolo nuove idee che di lì a poco sarebbero confluite nel nuovo album. Siamo circa a metà dell’anno 2000 e Mike Portnoy è reduce da un lungo percorso di riabilitazione dovuto all’abuso di alcol e sostanze stupefacenti. Come ammesso dallo stesso batterista il consumo di alcolici e cocaina era ormai diventato una vera e propria totale dipendenza, tale da non poterne fare a meno neppure durante i live arrivando a bere o sniffare anche nelle pause tra un brano e l’altro, nonostante le sue performances sul palco non ne risentissero affatto. Ciò viene confermato anche da John Petrucci, il quale dichiara di non essersi mai accorto di quanto la dipendenza del compagno fosse tanto grave.
La presa di coscienza della propria condizione e la consapevolezza del fatto che la dipendenza avesse intaccato la stabilità dell’uomo prima ancora che quella del musicista ha spinto Portnoy a chiedere aiuto all’associazione Alcolisti Anonimi e attraverso il programma dei dodici passi riuscire a liberarsi della propria dipendenza. Quell’importante esperienza finirà per essere riversata nel testo del primo brano scritto appositamente per il nuovo album. ‘The Glass Prison’ (il titolo è tutto un programma) sarà la traccia di apertura di ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’ nonché la prima di quella che prenderà il nome di ‘Twelve Steps Suite’, una lunga composizione formata da cinque brani, il primo dei quali ‘The Glass Prison’, seguito da altri pubblicati nei successivi quattro album fino a ‘Black Clouds And Silver Linings’ del 2009. Portnoy, all’epoca affermò che l’album sarebbe stato “il lavoro più oscuro mai registrato dal gruppo” (‘Train Of Thought’ del 2003 lo sarebbe stato ancora di più). Musicalmente ‘The Glass Prison’ si presenta come una lunga cavalcata di quasi quattordici minuti in cui la doppia cassa e l’intreccio degli strumenti, in primis chitarra e tastiera, appare più elaborato che in passato. Il gusto per la melodia non manca di certo, ma l’impatto devastante del brano, rapportato alle sonorità dell’album precedente, è quello che colpisce maggiormente. ‘Blind Faith’ è più breve rispetto all’opening track, circa dieci minuti, e punta maggiormente verso una forma melodica nello stile più classico della band, ma nel refrain apre a soluzioni meno ariose e di impatto. ‘Misunderstood’ e la successiva ‘The Great Debate’ sono invece costruite in modo simile, una introduzione strumentale di alcuni minuti ed una parte centrale spinta all’estremo.
Su ‘Misunderstood’ sono evidenti le influenze derivate dal metal di fine anni Novanta e alcune reminiscenze di ‘Awake’ del 1994, mentre su ‘The Great Debate’ la struttura centrale ritorna a sfiorare il prog metal tipico dei Dream Theater del passato, ma con soluzioni estremizzate, ritmiche intricate e rincorse tra chitarra, basso e tastiere da lasciare senza fiato, del resto i Nostri della tecnica ne hanno sempre fatto un vanto. Ricordo una recensione dell’album che recitava più o meno così: “ascoltate i virtuosismi di Rudess e Portnoy e poi appendete gli strumenti al muro”. Infine, entrambi i brani chiudono con una lunga coda strumentale di ampio respiro, come fossimo stati catturati da un turbine di note e una volta liberati tirassimo finalmente un sospiro di sollievo. La conclusiva ‘Disappear’, ballad dal forte impatto emozionale costruita su un crescendo ipnotico, è in grado di rapire l’ascoltatore e posizionata in chiusura del primo dei due dischi ha la funzione di dare ariosità all’insieme, compito perfettamente riuscito nonostante gli imponenti e devastanti brani in scaletta, non solo musicalmente, ma anche per la corposità delle liriche e degli argomenti trattati. ‘Disappear’, con il suo delicato incedere, anticipa i contenuti del secondo disco.
Per quanto riguarda le liriche ‘The Glass Prison’, come detto, tratta del tema dell’alcolismo; ‘Blind Faith’ del rapporto tra l’uomo e la religione, con un importante interrogativo esistenziale: perché l’individuo all’interno dell’odierna società tende a relegarsi in una sorta di autoisolamento e ha perduto quasi completamente il senso di comunità? ‘Misunderstood’ esamina la figura di Gesù e la mette in parallelo con le insicurezze dell’uomo comune e quelle che lo stesso Gesù, in quanto individuo, deve avere avuto nella sua breve esistenza. Una forte metafora tra il Divino e l’individuo comune capace di accendere una forte riflessione su se stessi, ma non solo. ‘Misunderstood’ sembra rivolgersi alla figura del personaggio famoso (probabilmente una Rock Star) che a luci spente, lontano dal proprio pubblico, si ritrova solo con se stesso. Un testo molto intimo che va a scavare nel profondo dell’animo umano come fosse un confronto dell’uomo con le proprie fragilità interiori. ‘The Great Debate’ tratta invece un argomento molto discusso in quegli anni, l’utilizzo delle cellule staminali per la cura delle malattie e la rigenerazione degli organi, senza però prendere alcuna posizione in merito. Il brano tenta di fare il punto sulla questione in modo neutrale e per questo nei minuti introduttivi e nella parte finale della traccia si possono ascoltare diverse voci, differenziate per canale destro e sinistro, di dichiarazioni ufficiali da parte di esperti in materia. Per comprendere ogni singola parte è necessario ascoltare più volte il brano lavorando sul bilanciamento dei canali per separare le registrazioni. Infine, in ‘Disappear’ una coppia di giovani riceve la devastante notizia di una malattia allo stadio terminale che colpisce uno dei due.
La trattazione della perdita improvvisa di una persona cara e di come la vita possa cambiare drasticamente da un momento all’altro è un argomento ricorrente nelle liriche delle canzoni, ma in questo caso la drammaticità del testo va di pari passo all’intensità della musica, intensa e ricca di pathos. Il secondo disco stravolge completamente le carte in tavola. Intanto c’è da dire che la band non aveva in mente una direzione precisa da seguire per la composizione dell’intero album, per cui anche le normali sedute in studio parevano in alcuni casi essere un’incognita, un viaggio verso qualcosa di inatteso, come spesso accade alle band quando si approcciano alla composizione di nuovo materiale. Nel loro caso specifico, il secondo disco è da considerarsi a tutti gli effetti un concept dentro al concept. ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’ – il brano – è infatti una lunga suite di quarantadue minuti divisa in otto movimenti che riprende le opere progressive del passato, con una ‘Overture’ strumentale nella quale passa in rassegna tutto l’impianto melodico che ritroveremo nei successivi movimenti della suite, dai momenti più marcatamente melodici di ‘About To Crash’, ‘Goodnight Kiss’ e ‘Solitary Shell’, alle dure e corpose ‘War Inside My Head’ e ‘The Test That Stumped Them All’, fino al finale intitolato per l’occasione ‘Losing Time/Grand Finale’ in cui la band si presenta, come già per l’Overture, con uno stile musicale dinamico e sinfonico che richiama complesse opere orchestrali, il tutto ovviamente ridimensionato e con una marcata impronta dreamtheateriana. Nel complesso la suite è ben strutturata e colpisce per la fluidità dei singoli movimenti e per la facilità con la quale si lascia ascoltare ed apprezzare.
In mezzo a questa mole di materiale sono evidenti alcuni riferimenti ai grandi classici del passato, cosa che i Dream Theater non hanno mai mancato di mostrare nei loro album e che mostreranno nelle future releases, come avremo occasione di scoprire. Nello specifico, all’inizio di ‘The Glass Prison’ possiamo ascoltare il rumore della pioggia e il rintocco di una campana che è visibilmente ispirata ai Black Sabbath dell’omonimo brano tratto dal primo album della band e ripresa dagli AC/DC in ‘Hells Bells’ dal capolavoro ‘Back In Black’, oltre che da moltissimi altri nella storia del rock e del metal. È chiaro poi il riferimento ai Rush con il movimento conclusivo della suite di ‘Six Degrees’ chiamato per l’occasione ‘Gran Finale’, come la sezione conclusiva della suite dell’album ‘2112’ della band canadese. Anche la struttura dell’intera suite ricorda quella dei Rush, con una Overture e divisioni per singole sezioni, se pure ‘Six Degrees’ risulta essere lunga circa il doppio. E ancora, una notevole somiglianza tra ‘Solitary Shell’ e la famosa ‘Soulsbury Hill’ tratta dall’esordio solista di Peter Gabriel è innegabile, ma i Dream Theater hanno sempre dichiarato di non avere mai plagiato i loro beniamini, quanto piuttosto averne tratto ispirazione ed averla riversata nelle proprie composizioni e in questo album, più che in altri, pare che si tratti di una scelta specifica.
Quale sia la verità poco importa, a noi è sufficiente avere tra le mani un album ambizioso e mastodontico per quanto impegnativo ed approfittare del suo ventesimo compleanno per scoprirlo, per riscoprirlo e in questo caso se possibile apprezzarne sfumature non percepite nei precedenti ascolti. Di certo ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’ non è un album facile né un‘opera in grado di mettere d’accordo i fan della prima ora; molti lo ritengono un passo falso mentre altri un importante punto di svolta per quello che sarà il futuro del gruppo, almeno fino all’improvvisa dipartita di Mike Portnoy e l’ingresso di Mike Mangini alla batteria.

Hammer Fact:
-Inizialmente alcuni membri della band, per quello che sarebbe diventato ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’, avevano in mente di intraprendere tutt’altra direzione stilistica. Prima di cominciare la fase di scrittura dei brani, John Petrucci, Mike Portnoy e Jordan Rudess pensavano a sonorità che potessero esplorare e quindi rappresentare stili e tradizioni di diversi paesi, tra i quali anche ritmi africani. Idea nata per caso durante gli spostamenti aerei per il tour di supporto all’album ‘Scenes From A Memory’ ma presto accantonata a causa della curiosa coincidenza legata all’album di Steve Vai, uscito proprio in quel periodo, incentrato su uno stile di scrittura che tentava di rielaborare in chiave rock stili musicali provenienti da differenti paesi del mondo. Per questo motivo la band decise di cambiare completamente rotta in favore del doppio album che oggi conosciamo.
-Il brano ‘The Great Debate’ avrebbe dovuto intitolarsi ‘Conflict At Ground Zero’, ma l’attacco alle Twin Towers dell’undici settembre 2001 cambiò tutto. Il sito nel quale sorgeva il World Trade Center venne infatti ribattezzato dai media ‘Ground Zero’ (termine originariamente riferito all’area desertica del New Mexico nella quale venivano effettuati i primi test nucleari nel 1945), pertanto i Dream Theater pensarono fosse un titolo inappropriato in quel drammatico momento. Da notare come curiosamente la stampa dell’epoca, soprattutto statunitense, avesse direttamente collegato il brano ‘The Great Debate’ all’attentato, a causa del fatto che al suo interno appare più volte la frase Conflict At Ground Zero, e molte delle interviste del tempo vertevano spesso su quell’aspetto equivoco che per la band stava diventando pesante da sopportare.
-Alla fine di agosto del 2001 l’album era quasi pronto, in attesa che James La Brie si recasse a New York per le sessioni di registrazione delle parti vocali della titletrack. I tragici eventi dell’undici settembre fecero slittare se pure di poco l’uscita dell’album al gennaio dell’anno successivo.

Line-Up:

James La Brie: Vocals
John Petrucci: Guitars
John Myung: Bass
Jordan Rudess: Keyboards
Mike Portnoy: Drums

Tracklist
Cd1:

01. ‘The Glass Prison’
02. ‘Blind Faith’
03. ‘Misunderstood’
04. ‘The Great Debate’
05. ‘Disappear’

Cd2:

01. ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’
I. Overtoure
II. About to crash
III. War Inside My Head
IV. The Test That Stumped Them All
V. Goodnight Kiss
VI. Solitary Shell
VII. About To Crash (reprise)
VIII. Losing Time/Gran Finale

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