Devil’s Grip, the Iron Fist – l’ultimo assalto del trio storico dei Motorhead

Il 17/04/2022, di .

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Devil’s Grip, the Iron Fist – l’ultimo assalto del trio storico dei Motorhead

Lo dico sempre, lo ripeto incessantemente: la Storia del Rock tende a seguire determinati schemi immediatamente osservabili, con poche eccezioni. Ad esempio, sembra proprio un destino ineluttabile che i dischi in studio collocati come successori di album dal vivo epocali siano in qualche modo “minori”, o almeno vengano percepiti come tali. È successo a ‘Who Do We Think We Are’ dei Deep Purple (e vorrei ben dire!), a ‘Come an’ Get It’ dei Whitesnake (nonostante una serie di pezzi da novanta come ‘Don’t break my heart again’ e ‘Wine, Women an’ Song’); è successo persino a ‘Somewhere in Time’ degli Irons, criminalmente trascurato dai suoi stessi autori e dal management (quando si trattò di decidere se registrarne o no le date dal vivo), nonostante sia un capolavoro imprescindibile, perfetto dalla prima all’ultima nota, con l’unica “colpa” di essere il frutto di un periodo di burnout successivo (appunto) al tour de force che produsse ‘Live After Death’.
Certo, le eccezioni non mancano: non è successo a ‘Physical Graffiti’, né a ‘Bark At The Moon’ e tantomeno a ‘No Rest for the Wicked’, ma sono e restano eccezioni, comunque neanche lontanamente paragonabili a quelli che furono gli esiti di ‘Iron Fist’ nell’anno di grazia 1982.
Intendiamoci, non sto affatto spalando letame su quello che resta comunque un “tipico” disco dei Motorhead, appartenente per di più alla formazione “classica” dei Three Amigos, di cui costituisce allo stesso tempo l’epitaffio definitivo; probabilmente nella percezione generale il problema è che si tratta del follow-up di una pietra miliare come ‘No Sleep ‘til Hammersmith’, un’analisi condivisa (neanche a dirlo) dallo stesso Mr. Kilmister. Fu infatti proprio lui a chiedere retoricamente come sarebbe stato mai possibile bissare il successo di un album dal vivo schizzato immediatamente ai primi posti delle classifiche, e farlo con un disco che lui stesso percepiva come sotto gli standard a cui erano fino ad allora avvezzi.
Se poi pensate che il “problema” di ‘Iron Fist’ sia il sound, non siete neanche qui troppo lontani dalla soluzione: doveva essere prodotto da Vic Maile, reduce dagli scintillanti ‘Ace of Spades’ e relativo capolavoro dal vivo, Fast e Philty mal digerirono alcune sue scelte nella resa della batteria, tanto da metterlo alla porta e affidare al primo i comandi dietro alla consolle. Ecco, è evidente che “Fast” Eddie Clarke sia stato un chitarrista epocale, ma se il suo lavoro come tecnico non resta negli annali un motivo ci sarà. Eppure, siamo davanti a un album che parte benissimo, con uno dei miei pezzi preferiti dei Motorhead, quella title track che si colloca immediatamente come prosecuzione diretta di ‘Ace of Spades’ (che a sua volta era la “nuova” ‘Overkill’, quindi la saga continua a tutti gli effetti). Tuttavia, l’unico altro classico universalmente riconosciuto tratto da questo disco è la successiva ‘Heart of Stone’, mentre la maggior parte delle tracce incluse (dodici, nella versione originale) si colloca su rassicuranti coordinate punk/rock’n’roll che non raggiungono quasi mai i fasti dei primi due episodi: ‘I’m the Doctor’ è guidata dall’inconfondibile tocco nervoso di Taylor, e la furia punkeggiante declinata in vario modo di ‘Go To Hell’ e ‘Loser’ sono un esempio dei pattern che troveremo tra i solchi di ‘Iron Fist’. Dobbiamo attendere ‘America’ per trovare un episodio a suo modo memorabile, diretto erede di quell’epica urbana di cui era permeata ‘Metropolis’. Certo, quando poi parte il riff di ‘Shut it Down’ e pensi che sia davvero l’ultima volta che sentiremo Clarke alla sei corde con loro, il sospiro è inevitabile. Sospiro che nel caso di Lemmy fu di sollievo, dato che la convivenza con il futuro leader dei Fastway si era fatta sempre più difficile, tanto da spingere quest’ultimo ad abbandonare la band a metà tour, venendo rimpiazzato da Brian Robertson su indicazione di Phil Taylor, fan della prima ora dei Thin Lizzy. Il resto è (ancora una volta) Storia: la pietra dello scandalo di ‘Another Perfect Day’ (altra gemma fortunatamente riscoperta di recente), il tour che ne conseguì, il punto fermo messo con ‘No Remorse’ e la rinascita a quattro con ‘Orgasmatron’. Del tour di ‘Iron Fist’ resta la testimonianza di un concerto registrato a Toronto per un home video, il primo tour in cui veniva abbandonato il “bombardiere” per sostituirlo con un pugno che nelle intenzione degli addetti doveva aprirsi nel corso delle esibizioni. Peccato che le cronache riferiscano di un pronunciata sollevamento del dito medio, apparentemente casuale…

Hammer Fact:
– “Devil’s Grip, the Iron Fist”, recita la title track; “Iron fists won’t do no good against the evil eyes / of seven holy Hell preachers, don’t you even try”, rispondevano goliardicamente i Mercyful Fate su ‘Satan’s Fall’. Non male per un pezzo che da solo (o quasi) regge tutto il disco: coverizzato da svariati gruppi, tra cui spiccano i Sodom, che su ‘Persecution Mania avrebbero impresso a fuoco il proprio marchio di thrash teutonico (per poi inserire anche ‘Ace of Spades’ come bonus di ‘Epitome of Torture’, svariati anni dopo); qualcuno poi ricorderà che gli amburghesi Gentry presero a chiamarsi Iron Fist più o meno nel periodo in cui Piet Sielk venne sostituito da Michael Weikath, dando così vita alla formazione che poco dopo sarebbe esplosa agli onori della cronaca metallica con il nome di Helloween…
– Come spesso accade per i dischi dei Motorhead, sono disponibili sul mercato svariate ristampe con succose bonus dal vivo e in studio. Né è esempio la versione polacca a cura della Metal Mind Productions, su cui troviamo a fine tracklist la versione alternativa di ‘Heart of Stone’, che si chiama ‘Lemmy goes to the Pub’! Ovviamente, il testo è dissacrante esattamente come lo si può immaginare…

Line-Up:
Ian “Lemmy” Kilmister: vocals, bass guitar
“Fast” Eddie Clarke: guitars
Phil “Philthy Animal” Taylor: drums

Tracklist:
01. Iron Fist
02. Heart of Stone
03. I’m the Doctor
04. Go to Hell
05. Loser
06. Sex & Outrage
07. America
08. Shut It Down
09. Speedfreak
10. (Don’t Let ‘Em) Grind Ya Down
11. (Don’t Need) Religion
12. Bang to Rights

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