Questa chitarra ha pochi secondi di vita

Il 16/01/2023, di .

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Questa chitarra ha pochi secondi di vita

Genio e sregolatezza, buio e luce, inferno e paradiso, è questo che cerchiamo nel rock.

Guardiamo con occhi sognanti il nostro idolo sul palco, lo veneriamo come un Dio mentre recita la parte del diavolo. Il mondo dei concerti rock e metal è sempre stato caratterizzato da una fortissima componente scenica, già negli anni ’60 gli americani Coven, capitanati dalla bionda cantante Jinx Dawson, durante i loro concerti imbastivano un vero e proprio show occulto con tanto di roadie crocefisso alle spalle della batteria. Negli anni ’70 Gene Simmons dei Kiss sputava sangue mentre suonava avvolto nel suo mantello nero, il decennio successivo Tommy Lee dei Motley Crue eseguiva il suo assolo di batteria mentre una pedana mobile lo faceva volteggiare nel cielo come una farfalla gonfia di Jack Daniel’s.

Ma da dove arrivano queste dimostrazioni di “trasgressione”? Cosa c’era prima degli show pirotecnici dei Rammstein e dei carri armati dei Sabaton?

Qual è stata la prima “Vulgar Display Of Power”, tanto per citare i Pantera, nel mondo del rock?  Probabilmente la prima immagine che ci viene in mente come simbolo di ribellione associata al mondo della musica è quella di un consumato rocker che distrugge il suo strumento sul palco, in pratica la copertina di ‘London Calling’ dei The Clash.

L’atto della rottura di uno strumento, oggi tornato sulla bocca di tutti dopo che i Maneskin si sono prodigati in un chiacchieratissimo “guitar smashing” alla fine di una loro esibizione a Las Vegas, è uno dei gesti più simbolici e forti a cui si possa assistere ad un’esibizione.

Non è sempre un bello spettacolo, anzi, quando si tratta di una violenza fine a sé stessa (maggior parte dei casi) è piuttosto patetico ed irritante ma sarebbe sbagliato credere che dietro a questi gesti alle volte non si nasconda la reale volontà di comunicare qualcosa.

Per un musicista il proprio strumento è l’estensione di sé stesso, il tramite con cui riesce ad esternare la sua sfera interiore, un ponte fra il tangibile e l’intangibile e vedere Kurt Cobain distruggere la propria chitarra urlando a pieni polmoni “Death is what I am, go to hell, go to jail” non può lasciare indifferenti.

Come ho detto non è sempre un bello spettacolo, prendiamo per esempio la ormai trita e ritrita scenetta di Janick Gers degli Iron Maiden che verso fine set inizia a far volare la sua stratocaster come se fosse un aeroplanino di carta. Senz’altro ormai i fans se lo aspettano, di certo è una sua caratteristica, lui è “quello che lancia la chitarra” ma quella è pura coreografia, non c’è alcun messaggio dietro quel “maltrattamento”, nessun bisogno di comunicare nulla.

Però, se nel caso del chitarrista degli Iron Maiden si tratta di pura goliardia possiamo dire lo stesso di Kurt Cobain? Possiamo affermare con certezza che anche per lui, un ventisettenne morto suicida, quello fosse solo show e non un modo per sublimare il proprio potere autodistruttivo? No, non possiamo, perché tutto ha una sua storia e tutto merita di essere compreso.

Ecco i 5 guitar smash più famosi di sempre.

Pete Townsend – The Who:

Questa band non ha certo bisogno di presentazioni, gli show di questi quattro pazzi inglesi sono sempre stati caratterizzati da una potenza fuori dal comune fin dagli anni ‘60. Senza mai eccedere con gli effetti speciali e prediligendo un palco più “pulito” rispetto ad artisti alla Alice Cooper o Kiss gli Who hanno sempre basato le proprie esibizioni sulla loro energia primitiva ed animale. L’immenso talento nella composizione ed esecuzione e le personalità tonanti di Roger Daltrey, Keith Moon e Pete Townsend, in contrapposizione alla pacatezza di John “Thunderfingers” Entwistle hanno dato vita a show memorabili e settato gli standard su come dovrebbe stare sul palco una band, proprio al chitarrista è attribuita la paternità del “guitar smashing”.

La leggenda narra che sia successo la prima volta nel 1964 durante uno show della band al Railway Hotel di Harrow in Inghilterra. Sembra che durante un cambio strumento alla fine di un pezzo Pete abbia calcolato male l’altezza del soffitto e lo abbia urtato con il manico della sua Rickenbacker spezzandolo. La frustrazione per aver rotto la chitarra ed il fastidio nel notare la freddezza del pubblico davanti alla sua personale tragedia lo fecero agire d’istinto e decise di terminare la sua povera sei corde fracassandola sul palco, cosa che mandò in visibilio Keith Moon che lo imitò sfasciando la sua batteria e creando così il mito dei The Who, i distruttori di strumenti.

Billie Joe Armstron – Green Day:

Probabilmente non la band preferita dai lettori di Metal Hammer ma è innegabile che negli oltre trent’anni di carriera questo power trio punk-rock abbia dimostrato di saper scrivere grandissimi pezzi e di essere in grado di regalare al pubblico shows emozionanti e sopra le righe, come la loro esibizione a Woodstock del ’94 quando i tre Californiani furono bersagliati da palle di fango e mentre Trè Cool e Mike Dirnt continuavano a suonare come se nulla fosse Billie Joe iniziò a rispondere al fuoco ed abbandonò il palco solo dopo aver incitato le migliaia di persone di fronte a lui ad urlare all’ unisono “Shut the fuck up”.

Uno dei loro momenti di “stage rage” più famosi però, è quello avvenuto sul palco dell’ IHeartRadio Music Festival del 2012 in cui i Green Day si videro tagliare l’esibizione di venti minuti per favorire gli show di Rihanna ed Usher che avrebbero dovuto suonare dopo di loro.

Alla vista del monitor di fronte al palco che recitava “1 Minute”Billie Joe perse completamente (e giustamente) le staffe gridando: “Ci date un fottuto minuto per andarcene? Guardate quel fottuto cartello! Un minuto! Lasciate che vi dica una cosa, sono in giro con questa band dal 1988 e mi state dando un fottuto minuto? Mi state prendendo in giro! Non sono il fottuto Justin Bieber figli di puttana! Dev’essere uno scherzo, ho un minuto. Oh no ora non ho più tempo! Lasciate che vi mostri cosa vuol dire avere un minuto!”

Al che prese a fracassare la sua chitarra, seguito da Mike Dirnt che fece lo stesso con il suo basso e lasciò il palco mostrando il dito medio e lanciando il microfono.

Jimi Hendrix:

Eroe di generazioni intere di chitarristi in tutto il mondo, un innovatore, oggi considerato un’icona afroamericana anche se durante i primi anni della propria carriera dovette affrontare sia il razzismo della società bianca statunitense degli anni Sessanta, che non vedeva di buon occhio un musicista “nero” con discendenze cherokee, sia la diffidenza delle persone di colore che lo accusavano di essersi “venduto ai bianchi”, tanto che alcune radio specializzate in musica “afroamericana” si rifiutavano di passare le sue canzoni.

L’aver vissuto parte della sua infanzia nella riserva indiana di Vancouver, a contatto con i Cherokee, da cui discendeva sua nonna diede a Jimi una forte vena simbolica che influenzò potentemente la sua musica. Esempio lampante del simbolismo nelle esibizioni di Hendrix è lo storico inno americano “The Star-Spangled Banner” suonato a Woodstock nel 1969. Il pezzo inizia con il tema dell’inno per poi trasformarsi in un tripudio di distorsioni, percussioni e “caos controllato”. Potrebbe sembrare nulla di strano, se non fosse che nel ’69 gli Stati Uniti si trovassero nel bel mezzo della guerra in Vietnam e che solo l’anno prima i soldati americani in territorio nemico avessero raggiunto la cifra di cinquecentomila e che i costi della guerra avessero toccato i 77 miliardi l’anno.

Il fatto poi che quella versione straziata dell’inno fosse eseguita da un musicista di colore a Woodstock, il festival dell’amore libero, il cui pubblico era costituito quasi esclusivamente da hippie pacifisti la dice lunga sul messaggio intrinseco dell’esecuzione.

Un’altra scena iconica che viene alla mente quando si parla di Jimi Hendrix riguarda un “guitar smashing”, forse uno dei più famosi di sempre, quello avvenuto al Monterey Pop Festival del 1967, quando dopo aver eseguito la cover di “Wild Thing” dei Troggs Jimi si inginocchiò, prese della benzina per accendini e diede fuoco alla sua Stratocaster. Successivamente dichiarò: “La volta in cui ho bruciato la mia chitarra fu come un sacrificio. Si sacrificano le cose che si amano. Io amo la mia chitarra.”

Ritchie Blackmoore – Deep Purple:

Non è un segreto che il fondatore dei Deep Purple abbia sempre avuto un carattere particolare e che nel corso della sua carriera gli episodi di tensione che lo hanno visto protagonista siano innumerevoli. Durante i suoi anni con i Purple era in costante guerra con il resto della band, in particolare con Ian Gillan che ad oggi, nonostante dica di aver sotterrato l’ascia di guerra e di essere andato avanti afferma che non tornerebbe mai a collaborare con Blackmore e che il suo abbandono dei Deep Purple fu, per la band, come il diradarsi di nubi dal cielo.

Il poco simpatico ma fenomenale chitarrista, nel 1974 mise in scena uno dei più iconici atti di distruzione che si siano mai visti su un palco. L’occasione fu quella del “California Jam 1974”, un festival in cui si esibirono Deep Purple, Eart Wind & Fire, Black Sabbath, Eagles e Emerson Lake and Palmer (robetta da niente), a cui Blackmore non voleva partecipare perché convinto che ormai i Deep Purple, all’epoca lanciatissimi dal disco “Burn”, non fossero più una band adatta ai festival ma vista la loro caratura dovessero tenere tour esclusivamente da headliners. Il management riuscì a convincerlo a patto che sul contratto fosse inserita una clausola che diceva che i Deep Purple non sarebbero saliti sul palco fino a quando non fosse tramontato il sole.

Quando lo staff del festival andò a chiamare Blackmore per dirgli di salire sul palco, con il sole ancora ben alto nel cielo lui si rifiutò chiudendosi nel camerino e causando uno stop nelle esibizioni di più di due ore. Una volta on stage, durante un assolo spaccò tre chitarre, danneggiò una telecamera, diede fuoco ai suoi amplificatori e causò un incendio che rischiò di divampare su tutto il palco. Non sto esagerando, basta guardare il video qui sotto, dieci minuti di pura devastazione.

Quentin Tarantino + Kurt Russell – “The Hateful Eight”

Cosa c’entrano Quentin Tarantino e Kurt Russell in un articolo sulla distruzione di strumenti musicali? Beh, c’entrano eccome. Tutti sappiamo chi è Quentin Tarantino, l’uomo che ha preso la violenza, l’ha esagerata, l’ha messa su pellicola e ci ha costruito una delle più invidiabili carriere di Hollywood. Sappiamo anche chi è Kurt Russell, ovvero la persona la cui immagine dovrebbe essere inserita nei dizionari alla voce “vero uomo”, dai, è Jena Plissken.

Durante le riprese di “The Hateful Eight”, film di Quentin Tarantino del 2015 che vanta nel cast attori del calibro di Tim Roth, Samuel L. Jackson e Kurt Russell è avvenuto uno degli “incidenti” più economicamente disastrosi che siano mai capitati ad uno strumento musicale.

Nel film c’è una scena in cui Jennifer Jason Leigh, che interpreta una ricercata catturata da Russell, suona una chitarra acustica. La cosa innervosisce il nostro caro Jena Plissken (che nel film in realtà si chiama John Ruth), che gliela toglie dalle mani e la spacca contro una colonna. Una scena anche fin troppo pacata se pensiamo ai bagni di sangue a cui ci ha abituato il regista, se non fosse che quella chitarra era una Martin originale del 1870, un pezzo unico prestata alla produzione dal Martin Guitar 1833 Shop & Museum di Nazareth, in Pennsylvania.

La chitarra avrebbe dovuto essere sostituita con una copia prima della scena ma per un errore di comunicazione fra lo staff e Russell, l’attore, convinto di aver in mano lo strumento sacrificabile non esitò a fracassarlo contro la colonna. La reazione della Leigh, che invece sapeva che quella in scena era la chitarra originale e a cui la produzione aveva detto di averne la massima cura, fu talmente genuina e naturale da essere lasciata nella pellicola nonostante si veda chiaramente che cerchi con lo sguardo qualcuno dietro le telecamere.

Il valore monetario della chitarra era inestimabile, qualche sito riporta la cifra di 400 mila dollari e il danno subito dal museo fu talmente grande che da quel momento Dick Boak, il direttore, decise di non far più uscire i propri strumenti per nessun motivo.