Decades of Aggression: settembre 2024 – parte 1

Il 10/10/2024, di .

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Decades of Aggression: settembre 2024 – parte 1

Wake me up when September ends, cantava il terzo Fortebraccio più noto della Storia (quarto, se contiamo il Re di Norvegia che irrompe nell’ultima scena dell’Amleto). Eh, mi sta che stavolta la sveglia è suonata in ritardo, se sto ultimando solo ora l’almanacco del mese. A parziale ma non esauriente scusante c’è l’elevatissima mole di capolavori che compie gli anni tondi in questo settembre 2024, e chissà quanti altri ne ho dimenticati. Ecco perché per una volta vale la pena dividere le uscite di Decades of Aggression in due parti: la prima con gli “splendidi quarantenni” del decennio altresì dominato dagli yuppies, la seconda con tutti gli altri. Pertanto, fuoco alle polveri…

L’articolo del sempre puntuale (almeno lui) Gianfranco Monese su ‘Powerslave’ degli Iron Maiden non vi sarà di certo sfuggito, dato il polverone sollevato dalla sua (ancora una volta!) puntuale analisi. Vi dirò… avrei voluto metter su una ‘Losfer Words’ o una ‘Flash of the Blade’, due dei gioiellini nascosti della discografia di Harris e soci, ma per una volta mi allineerò al collega, sparando a tutto volume ‘Aces High’. Il motivo? Non dimenticherò mai il trittico selezionato da Headbangers Ball in occasione dell’assunzione di Blaze Bayley e dell’inizio della “traversata nel deserto” dei nostri eroi: ‘Aces High’ degli Iron Maiden, ‘I like it hot’ dei Wolfsbane e ‘Tears of the Dragon’ dell’allora figliol prodigo Bruce Dickinson. Che nostalgia, eh?

C’è in effetti una cosa che non vi ho detto di ‘Powerslave’. Sembra un concetto strano, ma ha una sua logica: sebbene io sia perennemente indeciso su quale disco vada collocato sul podio dei Maiden (a volta è lui, a volte è ‘Killers’, o ancora ‘The Number of the Beast’ o addirittura ‘Somewhere in Time’), sono fermamente convinto che sia un album che entra di diritto sul podio dei migliori dischi heavy metal di tutti i tempi. Tra i primi tre, sostanzialmente. A condividere l’ambito scettro, oltre a ‘Master Of Puppets’ dei Metallica, c’è per me un disco uscito una manciata di giorni dopo di ‘Powerslave’, ‘Don’t Break the Oath’ dei Mercyful Fate. Uscito un anno dopo l’incredibile debutto sulla lunga distanza ‘Melissa’, ‘Don’t Break the Oath’ mostra un quintetto in splendida forma eppure sull’insospettabile orlo dello scioglimento: sarà per quello che i nove pezzi qui presenti hanno il profumo della tempesta perfetta, della bruma mattutina o della nebbia serale, le atmosfere orrifiche eppure concretissime della lezione di Tipton e Downing sulle chitarre gemelle portata all’ennesima potenza, nonché l’aria da sermone malefico in agguato a ogni piè sospinto. Merito del falsetto di King Diamond, delle fitte trame chitarristiche di Hank Shermann e Michael Denner, ma anche della dinamicissima sezione ritmica di Timi Hansen Grabber e Kim Ruzz, capace di gettare un ponte tra la tradizione del decennio precedente e le istanze dell’imminente futuro. Tra l’arcinota ‘Come to the Sabbath’, la delicatissima ‘To One Far Away’, l’intro di wah wah di ‘Night of the Unborn’ dalle cui labbra pendeva evidentemente il buon Kirk Hammett e il malvagio sermone di ‘The Oath’ c’è veramente da trovare pane per i propri denti a ogni solco, ma è nel trittico di attacco che la band dà il meglio di sé, rispolverando riff micidiali disseminati nei propri preziosi demotapes: ‘A Dangerous Meeting’, ‘Nightmare’ e ‘Desecration of Souls’ sono di diritto nel manuale di come realizzare il perfetto disco metal, quello che in fin dei conti è ‘Don’t Break the Oath’. Al netto di un sound di chitarra magari discutibile ma irresistibile, al netto del rovesciamento di headliner durante il tour con i Manowar, al netto della sbandata di Shermann che proporrà un parziale cambio di sonorità per quello che avrebbe dovuto esserne il successore, portando al primo scioglimento del gruppo: da una parte Shermann, ammorbidito con i suoi Fate, dall’altra Diamond, Denner e Hansen con il neonato progetto King Diamond. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia; a proposito, Ruzz non tornerà mai più in formazione nelle reunion successive: voci lo volevano postino a Copenhagen…

Nello stesso giorno di uscita del secondo disco dei Mercyful Fate una band americana debuttava sulla lunga distanza, un anno dopo l’uscita di un promettente EP omonimo. La band erano i Queensrÿche e il disco era l’ancora relativamente acerbo ma amatissimo ‘The Warning’, che li proiettò in tour assieme a pezzi da 90 del calibro di Kiss, Iron Maiden, Dio e Accept. I futuri campioni del power/prog a stelle e strisce sciorinavano qui uno US metal a tinte fosche che aveva discrete frecce al suo arco, tra cui la title track e ‘Take Hold of the Flame’, non mancando di includere episodi sferraglianti come ‘N M 156’ e ‘Before the Storm’, offrendo uno spiraglio delle future commistioni prog con ‘No Sanctuary’ e pagando il giusto tributo alla tradizione anni ’70 negli assoli di ‘Child of Fire’. Il futuro porterà loro ad esplorare ancora più a fondo le partiture progressive con il successivo ‘Rage for Order’ prima di approdare al vero capolavoro, quel fatidico ‘Operation: Mindcrime’ che Bruce Dickinson dichiarò clamorosamente di preferire al “proprio” ‘Seventh Son Of A Seventh Son’…

Con le unghie e con i denti: è il caso di dirlo, i Dokken si giocavano il tutto per tutto con questo ‘Tooth and Nail’, dopo che il bel debut ‘Breaking the Chains’ non aveva fatto breccia nei cuori americani pur nel passaggio dalla Carrere all’Elektra. Vi sarò sincero: da un lato apprezzo particolarmente il debut, dall’altro considero il terzo disco ‘Under Lock and Key’ uno di quei lavori perfetti dalla prima all’ultima nota, ma dinanzi alla coppia ‘Without Warning’ / ‘Tooth and Nail’ alzo le mani e non posso che riconoscere la maestria di George Lynch nel tracciare il proprio solco nella storia della sei corde degli anni ’80. Certo, non mancano i singoloni da classifica come ‘Just Got Lucky’ e ‘Alone Again’, ma fidatevi: i Dokken sono anche e soprattutto la title track, ‘Into the Fire’ e ‘Turn on the Action’, così come saranno caratterizzati da ‘Til the Livin’ End’ e da ‘Lightnin’ Strikes Again’ nel disco successivo. Hard rock roccioso con il vizietto dello speed, guidato dal Gran Maestro Lynch!

Siamo nel 1984 e… i Kiss sono ancora con noi! Sì, lo so che l’incipit fa pensare a Kenshiro o ai Warlord, ma è vero che stiamo entrando nel periodo più controverso della band newyorkese. Eravamo fermi a ‘Lick It Up’ e allo smascheramento definitivo, quando Simmons e Stanley decidono che ne hanno abbastanza di Vinnie Vincent e prendono al suo posto lo sfortunato Mark St. John, la cui artrite gli impedisce di andare in tour dopo la registrazione di ‘Animalize’. Fuori anche lui (va detto che con gli altri tre la scintilla era tutt’altro che scoccata), e dentro quello di cui Gene Simmons dirà a ragione “he’s no second stringer”: parliamo di Bruce Kulick, l’axeman che ha accompagnato i Kiss a partire dall’Animalize World Tour fino all’unplugged realizzato per MTV e al postumo ‘Carnival of Souls’. Beh, diciamolo subito: al netto del singolo di successo ‘Heaven’s on Fire’ (che ritroveremo sia su ‘Hear N’ Aid’ che su ‘Alive III’) non è che il disco vanti particolari picchi; meglio decisamente il precedente ‘Lick It Up’ o il di molto successivo ‘Revenge’, l’album che darà finalmente piena dignità alla presenza di Kulick in formazione. Eppure, un gioiellino resta, in mezzo a tutta la tracklist: si tratta di ‘Thrills in the Night’, che riesce a combinare al meglio le nuove istanze da frontman glamster di Paul Stanley con le sonorità più rocciose e di matrice britannica – non a caso, i lick di chitarra la fanno sembrare una versione glitterata di ‘And the Bands Played On’ dei Saxon!

La carrellata relativa al settembre del 1984 volge al termine, ma c’è tempo per citare altri due dischi di peso non indifferente: il primo è ‘War and Pain’, debutto dei Voivod per Metal Blade prima dell’incredibile trittico per Noise e delle successive vette fuori per MCA / Mechanix. Ecco, potete pensare quello che volete dei debut album del thrash metal e non lo metterò in dubbio: i Metallica sono i prime movers, gli Slayer rappresentano la malvagità e la tensione verso l’estremismo sonoro, gli Anthrax hanno tirato fuori un dischetto godibilissimo, i Megadeth uno spigoloso e jazzy, quello degli Exodus è imprescindibile, e così via. Ma se c’è una cosa certa riguardante ‘War and Pain’ è l’assoluta maturità delle partiture di chitarra (un po’ come quelle della coppia Mustaine / Poland), pur in un contesto più “semplice” rispetto a quello a cui i quattro ci abitueranno in futuro. Il merito è ovviamente del compianto Piggy, uno degli axemen più geniali che il metal prima, e le sperimentazioni successive poi, ci abbiano regalato. E se effettivamente pezzi come ‘Suck Your Bone’ e ‘Blower’ (anche nickname del basso di Blacky) possono ricordare alla lontana l’allegria pentatonica un po’ scanzonata di ‘Kill ‘em All’, ci pensano episodi come ‘Nuclear War’ e la title track a fissare la lancetta sulle sonorità post/apocalittiche consone ai canadesi. Su tutte, il primo e imprescindibile classico della band, l’omonima ‘Voivod’ che dà inizio alla fuga da Morgoth e a un viaggio che dura tuttora, appassionando un pugno nutrito di aficionados che comunque rispetto ai grandi numeri di certo HM ha sempre la caratura della società segreta…

Ma come… una compilation in mezzo a tanta grazia, e per essa proprio il posto d’onore, last but not least? A parte che i Motörhead meritano a prescindere il posto d’onore, ‘No Remorse’ non è solo l’ultimo atto del rapporto tra Lemmy e la Bronze Records, è anche la prima volta in cui è possibile ascoltare la “nuova” formazione della band in due inediti, ‘Snaggletooth’ e soprattutto ‘Killed by Death’. In quest’ultima è ben chiaro il ruolo non solo della “meteora” Pete Gill (proveninente dei Saxon, sarà con i Motörhead solo per il successivo ma fondamentale ‘Orgasmatron’) ma anche della nuova coppia di asce rappresentata da Würzel e Campbell, quest’ultimo destinato a entrare nella storia come il componente più longevo all’ombra dello stendardo dello Snaggletooth, leader a parte. Insomma, una ventata di aria fresca degna dell’allora ben consolidata NWOBHM per un pezzo che è stato per lunghissimo tempo un perno fondamentale delle loro scalette live!