Jethro Tull – Raise Your Glass To The History

Il 11/11/2010, di .

Jethro Tull – Raise Your Glass To The History

Ovvero cronaca di una cena a base di vino e progressive rock, in compagnia di Clive Bunker, primo batterista dei Jethro Tull con il quale abbiamo ripercorso due elementi salienti della storia dei pionieri del prog rock: la realizzazione del capolavoro ‘Aqualung’ e l’esibizione al festival sull’Isola di Wight

Ci sono momenti in cui la storia ti passa di fianco in modo quasi inaspettato, lasciandoti piacevolmente sorpreso, quasi spiazzato dall’imprevedibilità degli eventi. Uno di questi bizzarri casi della vita, come da tradizione, si è recentemente verificato nel luogo che non ti aspetti, con la persona che non ti aspetti, ed allora eccoti lì, a consumare una cena rustica in una caratteristica osteria piemontese sperduta nelle verdi colline di Langa e accorgerti con stupore che quel simpatico lord che con modi garbati e proverbiale flemma inglese sta banchettando a suon di Dolcetto e Barolo nel tavolo accanto non è altro che quel Clive Bunker protagonista con i Jethro Tull nella loro epoca d’oro, quella di ‘Aqualung’ e del festival all’Isola di Wight, quelli che, negli anni Sessanta, gettarono le basi per l’esplosione del rock progressivo. Una presenza, quella nel Cuneese, da parte dello storico batterista dei ‘Tull, legata alla sua partecipazione alla terza Convention dei Jethro’s Friends, organizzata nel 2010 per celebrare il quarantesimo anniversario del festival all’Isola di Wight, evento epocale nel quale Ian Anderson e soci furono protagonisti esibendosi subito prima di Jimi Hendrix in quella che fu la sua penultima esibizione prima della prematura scomparsa. Accompagnato dai Beggar’s Farm, Clive Bunker la sera precedente aveva riproposto la scaletta integrale di quel mitico show, compreso lo storico assolo di batteria di ‘Dharma For One’. Questo rilassato incontro in osteria, bicchiere di rosso in mano e piatto fumante davanti, è invece un “ghiotto” pretesto per ripercorrere le fasi salienti della sua breve ma intensa avventura con i Jethro Tull, un viaggio affascinante nel quale Clive è guida attenta e cordiale.
Clive, oggi tutti parlano dell’esplosione del nuovo rock progressivo, un genere che voi avete contribuito a lanciare sul finire degli anni Sessanta. Se ci pensi, ti capita mai di vederti come una sorta di pioniere?
“(Clive Bunker) Mi sento un pioniere involontario, o meglio, non c’è stato nulla di ragionato in quello che abbiamo fatto all’inizio della nostra carriera. Quando abbiamo incominciato a suonare insieme facevamo nient’altro che blues, poi Ian ha incominciato a comporre brani sempre migliori e sempre più elaborati e da quel momento la nostra musica è decollata. L’evoluzione è stata molto rapida e, se la guardo ora, devo dire che è stata sorprendente per dei ragazzi della nostra età, però ci piaceva l’idea di suonare tutto ciò che ci passava per la mente, senza farci troppe domande. Forse è per questo che all’epoca nessuno di noi si sentiva un pioniere, mentre oggi se ci guardiamo alle spalle ci rendiamo conto che siamo stati dei precursori nel nostro genere”.
Ma è vero che in una prima incarnazione della band avevate arruolato addirittura Tony Iommi?
“Si, è vero. All’epoca Tony suonava in una band chiamata Earth e noi eravamo alla ricerca di un chitarrista. Conoscendolo lo abbiamo chiamato ed è venuto a suonare con noi in un paio di occasioni, senza però entrare mai ufficialmente nella band tant’è che, poco tempo dopo, se n’è andato per formare i Black Sabbath. Tony ha transitato per un breve periodo nei Tull ma non ha mai fatto tour con noi e non ha mai fatto parte in pianta stabile della band”.
Dopo aver mosso i primi passi con ‘This Was’, ‘Stand Up’ e ‘Benefit’, avete segnato la storia con ‘Aqualung’. Avevate all’epoca la percezione, lavorandovi, di stare per realizzare una pietra miliare del rock?
“Credo che nessuno di noi si rendesse conto di stare lavorando a quello che sarebbe divenuto un classico della musica rock. Ma penso che non esista musicista in grado di farlo, neppure Paul McCartney sarebbe capace di sedersi a tavolino e decidere di comporre un grande album. La qualità è qualcosa che viene da sé, non può essere cercata. Non è qualcosa che si forza, deve venire fuori in modo naturale, proprio come è avvenuto con ‘Aqualung’. Certo è che dopo averlo inciso, lo abbiamo ascoltato per intero e…’Woh! Abbiamo inciso proprio un gran disco!’. Ce lo siamo però detti dopo, il prima è stato qualcosa di normale per noi”.
In che contesto ha visto la luce il vostro capolavoro?
“Era un periodo molto buono per noi, Ian viveva un momento di grande prolificità. Aveva, ha ancora, il dono di riuscire a tirare fuori storie affascinanti da elementi apparentemente sterili, come la locomotiva di ‘Locomotive Breath’. Tutto il disco ‘Aqualung’ se ben vedi, comunque, è costruito su storie che si intersecano e che hanno avuto origine da fatti abbastanza ordinari”
Ma cosa provi, oggi, a quarant’anni di distanza, quando riascolti questo disco?
“Orgoglio. Grande orgoglio. Quando lo abbiamo inciso ci sono stati alcuni problemi, perché non era uscito come lo avevamo inizialmente concepito. Penso che Ian avesse in mente un disco ancora differente, anche se quello che tutti conosciamo è uscito decisamente bene. In studio abbiamo dato il meglio di noi stessi, di più probabilmente non lo avremmo potuto fare a quel tempo, e oggi quando ascolto quel disco non posso non provare orgoglio per quanto fatto, soprattutto perchè quando guardi le cose da più distante puoi averne una visione più nitida, e solo allora ti accorgi che hai realizzato qualcosa che nessuno prima di allora aveva mai fatto”.
C’è una cosa che ami particolarmente di ‘Aqualung’?
“Ho sempre adorato i passaggi acustici che Ian ha saputo costruire in questo lavoro. Mi ricordo che all’epoca ci trovavamo in studio, Ian arrivava con la sua chitarra acustica, iniziava a suonare, tirava giù le linee vocali e noi ci trovavamo incantati ad ascoltare le melodie che riusciva a creare. Penso che se questo lavoro ha avuto così tanto successo e continua ad avere un simile impatto emotivo, il segreto va anche ricercato nel fantastico lavoro in acustico fatto da Ian”.
Come detto, ‘Aqualung’ è divenuto un classico del rock, uno dei tanti usciti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Oggi è raro che una band contemporanea arrivi a incidere dischi di questa portata. Ti sei mai chiesto perchè?
“La ragione è puramente temporale. Oggi è molto più difficile ascoltare grandi band e, cosa ancora più importante, non sempre alle potenziali grandi band viene dato il tempo di maturare e di crescere. Oggi tutto va molto più velocemente, la gente vuole da un musicista tutto e subito e facendo così si rischia di bruciare le potenziali stelle prima che queste siano potute esplodere. Tra i pochi gruppi che hanno avuto tempo e la carriera sta dando loro ragione sono i Green Day. Hai presente come suonavano nel loro primo disco? E hai presente come suonano oggi? Ecco, sono una delle poche band capaci di maturare moltissimo e di crescere artisticamente in modo impressionante, e sono uno dei pochi gruppi potenzialmente in grado di incidere un nuovo classico”.
Un altro evento che penso abbia segnato la tua carriera artistica, oltre alla pubblicazione di ‘Aqualung’, è stata la tua performance al festival sull’Isola di Wight. Che cosa ha rappresentato per te quel momento?
“Ha rappresentato il caos. Mai si erano viste 600 mila persone radunate in un’isoletta decisamente piccola, quindi le conseguenze sono state pari all’entità dell’evento. Ricordo che gli organizzatori ne aspettavano 150.000, se ne presentarono quattro volte tanto. C’era talmente tanta gente che per noi artisti fu impossibile raggiungere lo stage in modo canonico, ed allora ci portarono sul palco direttamente con degli elicotteri. E sorvolare quel mare di gente e vederlo lì sotto, ai nostri piedi, è qualcosa di indimenticabile. La BBC ha poi documentato il tutto con grande perizia rendendolo così un evento immortale. E’ stato qualcosa in grado di prevaricare i confini puramente musicali, in quell’occasione si è andati oltre e un evento musicale è divenuto un punto fermo della storia contemporanea”.
Ma quanto è stato difficile per voi rapportarvi dal palco con una folla immensa come quella accorsa sull’isola?
“Non è così difficile come si potrebbe immaginare, perché a differenza dei piccoli club, dove sei a diretto contatto con i tuoi fan, in una situazione così mastodontica tutto risulta completamente spersonalizzato, sei talmente lontano da quel mare di gente che ti è persino impossibile vedere le loro facce, quindi l’impatto emotivo, almeno per quanto riguarda il rapporto artista/pubblico, risulta molto più diluito”
Quello show passerà alla storia anche per essere stato uno degli ultimi concerti di Jimi Hendrix, che si esibì subito dopo di voi. Hai ricordi particolari di questa cosa?
“Non te lo so dire, perchè me ne sono andato prima. C’era troppo casino e alla fine per le band rimanere era quasi un peso. Tra noi e Jimi è passata un’ora e mezza, c’era da diventare matti, e quindi ce ne siamo andati. Sfortunatamente. Dico così perchè speravamo di poterlo vedere in una data futura, ed invece non abbiamo più avuto modo di ammirarlo”.
Nel 1972 però, proprio all’apice del successo, quasi a sorpresa decidesti di lasciare la band. Questo perchè la tua visione della musica si scontrava con quella di Ian Anderson?
“No no, l’ho lasciata per amore! Tra quelli che sarebbero poi stati i miei ultimi due tour con i Jethro Tull, avevo incontrato una donna che mi aveva fatto innamorare e aveva fatto nascere in me il desiderio di sposarmi. Coniugare il matrimonio con un tour mondiale non era certo una cosa semplice, quindi mi sono trovato davanti ad un bivio cruciale: scegliere tra la band e la famiglia. ed io ho scelto la famiglia. Non è stato semplice ma era una decisione che andava presa. Da quel momento ho badato al mio orticello, ho lasciato la musica e per un anno ho guardato i miei affari. Poi piano piano è ritornato il desiderio di ricominciare a suonare, ho formato i Jude con Robin Trower e ho suonato con i Blodwyn Pig di Mick Abrahms. Quindi ho iniziato a collaborare con diversi artisti, dopo tutto la musica è stato il mio primo amore e non potevo abbandonarla così facilmente, anche perché dopo la ‘pausa di riflessione’ mi sono reso conto di avere ancora tanto da dare alla musica”
Concludiamo con una curiosità. Ti capita mai di ascoltare i lavori più recenti dei ‘Tull? Ti piacciono?
“Oh si, penso che Ian stia scrivendo sempre meglio. I rapporti con i Jethro Tull sono buoni, certo, come in tutte le cose ci sono canzoni che mi piacciono di più e altre che mi piacciono di meno, ma la stessa cosa avveniva quando ci suonavo io. In generale penso che la vena creativa di Ian sia tutt’altro che esaurita e sono certo che ci offrirà ancora molti altri intensi momenti di grande musica”.

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