Messa – La musica prima dell’ego

Il 21/06/2025, di .

Messa – La musica prima dell’ego

In questa intervista, i Messa si raccontano senza filtri: dalla scelta di uscire dai confini di genere, passando per la gestione umana e pratica di una band che è anche un legame profondo.
Un dialogo intimo dove si parla di alchimia, sacrificio e rispetto – per il pubblico, per la musica e per se stessi. Niente frasi fatte, niente pose: solo verità, suoni e consapevolezza. Riflettori puntati su una delle band italiane più internazionali del momento, fra tour, fatica, identità, e libertà creativa.

Negli anni vi siete staccati sempre di più dai confini del doom classico. Vi sentite ancora parte di quella scena?
“(Marco) Non abbiamo pretesa di appartenere o non appartenere a una scena. Suoniamo ancora in contesti heavy, stoner, doom, metal… Quindi sì, ci siamo, ma non ci limitiamo. Cerchiamo piuttosto di portare avanti un’identità che evolve, disco dopo disco.
Quelle sonorità ’80s sono subito riconoscibili. È stata una scelta collettiva o qualcosa di più istintivo?
“(Alberto) Diciamo che è stata una direzione emersa strada facendo. All’inizio non era chiaro dove stessimo andando. Poi, dopo un paio di brani, abbiamo capito che quella poteva essere la via. Da lì, abbiamo cominciato a lavorare sugli arrangiamenti e sull’estetica generale del disco.
Alcuni pezzi che avevamo già scritto li abbiamo anche rimaneggiati, tipo ‘Immolation’ e ‘Fire on the Roof’. Volevamo dare coerenza all’intero lavoro.”
Quelle influenze erano già nel vostro DNA musicale?
“(Marco) Sì, fanno parte della nostra formazione, anche se non le avevamo mai affrontate davvero di petto prima d’ora. Già l’ultimo brano scritto per Close, ‘Dark Horse’, mostrava qualcosa in quella direzione. Da lì è stato naturale proseguire.”
Una delle domande inevitabili, ascoltando ‘The Spin’, riguarda il modo in cui un disco così coeso riesce a mantenere allo stesso tempo spontaneità e controllo. Come si lavora a questa alchimia? È qualcosa che costruite o che vi capita addosso?
“(Alberto) Grazie, lo prendiamo come un bellissimo complimento. È qualcosa che cerchiamo, sia in studio che dal vivo. Bella domanda, perché non ci avevamo nemmeno riflettuto fino in fondo. Di certo c’è una componente istintiva, sempre. Però in questo disco più che in altri abbiamo messo dei ‘paletti’: in fase di arrangiamento, durata, coerenza stilistica.
Volevamo un album più asciutto, che stesse in un LP solo – 42 minuti netti – e che avesse un filo chiaro dall’inizio alla fine. Quindi sì, c’è stato più controllo. Ma non c’è una formula: è semplicemente il modo in cui lavoriamo insieme, tra discussioni e tentativi.”

C’è stato un momento in cui vi siete detti: ‘Ok, questa cosa è troppo, non è più noi’?
“(Alberto) Oh sì. ‘Immolation’, per esempio, è stato il brano più difficile da riarrangiare. Una volta che hai chiuso un pezzo, rimetterci mano è sempre un po’ doloroso.”
“(Marco) E lì abbiamo avuto uno scontro vero, perché io volevo un arrangiamento ispirato a ‘In the Air Tonight’ di Phil Collins. Mi piace da morire, lo dico senza vergogna. Ma… sono stato l’unico (ride).
Il nostro batterista era decisamente contro. È ancora un tabù, forse. Però ecco: è un esempio di quanto ci mettiamo in discussione e cerchiamo di trovare un punto comune.
Pensate che il vostro progetto possa funzionare anche in scenari più “off”?
“(Marco) Sì, ma non perché ci imponiamo di uscire dai contesti metal o heavy. È che da anni, praticamente a ogni concerto, qualcuno ci dice: ‘Non ascolto nulla di questo genere, ma voi mi siete piaciuti’. E non è una volta ogni tanto — è proprio ricorrente. Così ci siamo detti: magari ha senso iniziare ad affacciarci anche altrove.”
In effetti siete sempre stati una band difficile da etichettare.
“(Marco) Sì, ci piacerebbe riuscire ad andare anche oltre il circuito che ci ha portati fin qui. Crediamo possa essere positivo per il progetto, ma anche per il pubblico: proporre cose diverse, muoversi, far contaminare i mondi. E poi rispecchia quello che siamo, anche a livello umano e di dinamiche interne.”
C’è chi ha detto che il nuovo album non ‘suona più come Messa’. Come rispondete a queste critiche?
“(Marco) Guarda, quello che per noi conta è la credibilità. Non importa in che scena ci troviamo: se quello che facciamo è vero, coerente, e suonato con qualità, ci sentiamo tranquilli.
Alla fine, un sacco di band si muovevano tra contesti diversissimi. I Motörhead, ad esempio, suonavano ovunque: in mezzo a punk, metal, psych… e avevano credibilità in tutti gli ambienti. Quello sarebbe il nostro sogno.”
Come nascono le idee all’interno del gruppo? C’è una persona che guida oppure è un processo collettivo?
“(Marco) In genere le idee partono da me o da Alberto, ma poi vengono subito condivise con tutti.
A volte un brano prende una direzione molto analitica, lavorata con precisione chirurgica. Altre volte è tutto viscerale: jammata in sala, ispirazione improvvisa, e il pezzo prende forma.
In entrambi i casi, però, tutto viene rimesso in discussione più volte. Questo equilibrio tra ricerca e istinto, per noi, è fondamentale.”
C’è sempre l’impressione che ogni brano contenga un po’ dell’essenza di tutti voi.
“(Marco) Sì, assolutamente. Magari in percentuali diverse da pezzo a pezzo, ma il contributo è sempre collettivo.
E la cosa che ci aiuta tanto, forse più di tutto, è che ci vogliamo bene. C’è un’amicizia profonda tra noi quattro, e questo rende tutto più naturale. Le scelte musicali, i compromessi, le decisioni: arrivano in modo onesto.
A volte l’amicizia può diventare un ostacolo creativo?
“(Marco) Sì, succede. Quando vuoi bene a qualcuno, hai paura di ferirlo. Se invece lavori con un turnista, puoi dire ‘fai questo’ e fine.”
“(Alberto) Quando ci sono legami forti, emotivi, tutto si complica: ti attacchi ai brani, li senti tuoi, e fai fatica a lasciarli andare. Ma con questo disco abbiamo capito una cosa: non bisogna affezionarsi troppo a ciò che si crea. Una canzone è una cosa che fai, non è te. E questa consapevolezza ci ha aiutati a lavorare meglio.

Come riuscite a tenere l’ego sotto controllo?
“(Marco) Perché mettiamo il progetto prima di tutto. Tutti e quattro. Quando ci troviamo a scrivere, a discutere un arrangiamento, ognuno sa che il suo ego viene dopo. E questo, secondo noi, salva il progetto.
Ci vogliamo bene, sì. Ma soprattutto ci fidiamo l’uno dell’altro. E questa cosa ci permette di affrontare anche momenti delicati senza spaccarci.”
Cosa pensate abbia fatto scattare quella marcia in più che vi ha portati un passo oltre rispetto ad altre band italiane?
“(Marco) Mah, non saprei. Onestamente non so neanche quante band italiane riescano a ‘fare il salto’. Siamo sinceri: ci sono gruppi validissimi in Italia, ma spesso non riescono a emergere.
Secondo noi è un mix di cose: ci vuole sacrificio, ci vuole la possibilità di mollare tutto e andare in tour, ci vuole un lavoro che te lo permetta, relazioni che ti supportino. Devi dire: questa band è la mia priorità.
E ci deve essere qualcuno nel gruppo che tira la baracca avanti con convinzione.”
Pensate che la differenza la faccia anche il ‘mindset’?
“(Marco) Forse sì. C’è chi ha talento, ma non abbastanza spirito di sacrificio. Oppure non ci crede fino in fondo. Ma conta anche la fortuna. Magari altri gruppi hanno avuto esperienze negative, si sono bruciati, o si sono sentiti dire cose sbagliate al momento sbagliato.”
“(Alberto) Noi non deleghiamo quasi nulla: musica, comunicazione, grafiche, tutto passa da noi. Questa mentalità, unita a un certo tipo di sensibilità, forse ha fatto la differenza. Non è mai solo una cosa. È sempre un insieme.
Ultima domanda, quella un po’ scomoda: c’è chi dice che… ve la tirate. Vi diverte? Vi infastidisce? Vi ci riconoscete un po’?
“(Alberto) Ogni tanto me lo dicono, sì. Ma la verità è che, per me, è una questione di timidezza.
Faccio fatica a parlare con le persone, ma non perché me la tiro: è proprio difficile. È una barriera mia, personale. Magari sembro distante, ma è solo perché non so bene come comportarmi. Non è atteggiamento, è che probabilmente sono più introverso.
“(Marco) Io, sinceramente, non ho mai letto o sentito direttamente commenti del genere, quindi non saprei neanche da dove partano. Però capisco come nascono certe percezioni, specialmente tra musicisti.
Ti faccio un esempio: dieci anni fa, quando aprivamo a band più grandi, c’erano situazioni in cui il promoter ci diceva che non potevamo usare la loro backline. Dovevamo montare tutto davanti alla loro roba. E io, a vent’anni, pensavo: ‘Madonna, quanto se la tirano’.
Ora, con un po’ più di esperienza, capisco che a volte dietro non c’è arroganza, ma solo scelte tecniche, esigenze logistiche, o il bisogno di sentirsi a proprio agio. È facile giudicare da fuori. Ma le cose spesso sono molto più semplici, o molto più complesse, di come sembrano.”

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