Riot V @ Alchemica Music Club – Bologna, 02 maggio 2025
Il 10/05/2025, di Francesco Faniello.

Chissà se il concetto di muzak è applicabile all’heavy metal. Uno di quegli interrogativi che giungono in genere tra la veglia e le braccia di Morfeo, e che invece stavolta si fa pienamente strada nell’attesa sotto il palco dei Riot. Seriamente: quanto fa muzak il diffondersi di ‘It’s a long way to the top’ o di ‘Princess of the night’ prima di un qualsivoglia concerto, che magari si rivelerà lontano dal genere celebrato dai DJ del cambio palco? E quanto fa muzak stavolta ‘Careless Whisper’ dei Seether messa su un attimo prima che un rito storico dell’HM venga officiato? Probabilmente l’intento non è lo stesso, ma l’effetto straniante lascia comunque sospesi nelle proprie riflessioni.
O forse è solo un pensiero messo lì, in una primavera forse troppo inoltrata che accoglie il quintetto americano in un Alchemica Music Club col pienone delle grandi occasioni che è ormai di diritto il tempio dello US Metal in Emilia Romagna. Dopo Metal Church e Vicious Rumors e dopo aver inopinatamente saltato l’appuntamento con Geoff Tate che faceva da giusto contraltare alla calata lombarda dei Queensryche, eccomi al cospetto di una delle band che ha maggior blasone in materia. La Storia parla da sé e lo fa attraverso un cartellone che annuncia il tour del cinquantennale dei Riot che furono di Mark Reale e che ora sono sorretti da un sagace Mike Flyntz alla sei corde, pieno erede del testimone del compianto mastermind. Così, con una carrellata di versioni della mascotte Johnny assemblata a mo’ di ‘Beast of the Beast’ sui manifestini, assistiamo alla celebrazione di una leggenda un po’ messa in ombra nel tempo da un monicker che ricordava pericolosamente uno dei blockbuster del metal a stelle e strisce (bang your head!, NdR), ma che oggi è sinonimo di resistenza e coerenza fino alla fine, nonché di insperata rinascita dalle proprie ceneri.
In ogni caso, le chiacchiere stanno a zero all’attacco di quella ‘Hail to the Warriors’ tratta dall’ultimo ‘Mean Streets’, che ha il doppio merito di chiamare a raccolta gli accoliti e presentarci un Todd Michael Hall in grandissimo spolvero: non ci sono parole per descrivere una performance vocale impeccabile, portata avanti con la massima naturalezza e con un ghigno che ricorda pericolosamente il Patrick Bateman interpretato da Christian Bale su “American Psycho”! Le parole di encomio spese un po’ ovunque e riportatemi dal buon Alex Ventriglia si sono rivelate più che veritiere, dinanzi a una scaletta quanto mai multiforme che riflette le varie sfaccettature a firma Riot e Riot V. Tocca subito a ‘Fight or Fall’ prendere la scena e iniziare una serie fortunata tratta dal plurisaccheggiato capolavoro ‘Thundersteel’, cui spetta decisamente il posto d’onore nel tour celebrativo dei newyorkesi.
Come dicevamo poc’anzi, la proposta del quintetto è caleidoscopica, potendo contare su una carriera pluridecennale con alcune gemme amatissime dai tanti defenders qui convenuti, a partire dal mid tempo di ‘Feel the Fire’, altro estratto di ‘Mean Streets’ ben accolto dal pubblico, passando per la loudnessiana ‘Victory’ che ormai è un classico della nuova era, fino a scavare a fondo nel passato remoto con ‘Warrior’ e ‘Road Racin’, tratte rispettivamente dal primo e secondo album usciti alla fine degli anni ’70 e incredibilmente incastonate alla perfezione nella setlist, segno di come Reale ci aveva visto lungo sull’evoluzione del nostro genere preferito sin dai tempi in cui l’influenza dell’hard rock a stelle e strisce era inevitabile nel sound di quegli (allora) italo/americani agli albori.
Il posto d’onore spetta comunque ai due grandi capolavori a firma Riot, il favoloso ‘Fire Down Under’ – qui rappresentato dalla title track, da una ‘Swords and Tequila’ che Hall dedica ai grandi caduti della Storia della band, tra cui Reale e Speranza, e dalla dinamicissima ‘Outlaw’ tra gli encores – e il già citato ‘Thundersteel’ con il basso di Don Van Stavern in evidenza su ‘Johnny’s back’, con lo stesso Van Stavern che ricorda i tempi dell’uscita del video di ‘Bloodstreets’ e con la title track al fulmicotone che sembrerebbe la chiusura perfetta per un concerto da incorniciare, ma non è così. Se c’è una cosa a cui i Riot non badano, è il coup de théâtre a effetto per chiudere il set con i proverbiali fuochi di artificio, concentrandosi piuttosto sulla sostanza: che si esplica nella scanzonata (e relativamente recente) ‘Take me Back’, nella doppia cassa assassina di ‘Flight of the Warrior’, nella chicca di ‘Magic Maker’, coraggiosamente estratta da quel ‘Nightbreaker’ che usciva nel profondo degli anni ’90 e persino non temendo di affidare a ‘Sign of the Crimson Storm’ il posto d’onore a fine scaletta, nonostante sia un tipico pezzo da metà set e non certo uno di quelli da titoli di coda.
Come già detto, una scaletta su cui mettere la firma, al netto del fatto che mi sarei aspettato quell’incredibile canto del cigno di Reale che risponde al nome di ‘Riot’ o almeno un estratto da ‘The Privilege of Power’ – il buon Don aveva accennato alla possibilità di suonare ‘On Your Knees’, mentre il mio pronostico sul posto d’onore a ‘Metal Soldiers’ o su ‘Dance of Death’ in chiusura è naufragato miseramente. O al netto del fatto che ‘Feel the Same’ e ‘Altar of the King’ sono tra i miei pezzi preferiti, ma quest’ultimo ha chiaramente ceduto il posto a un’altrettanto emozionante ‘Outlaw’, altro punto di raccordo tra la tradizione di hard rock americano e lo US Metal di cui i Nostri erano e sono alfieri.
Su tutte, nonostante io ami chiaramente alla follia il succitato terzo album ‘Fire Down Under’, la punta di diamante è stata l’esecuzione di ‘Restless Breed’, altro gioiello anni ’80 impreziosito all’epoca dalla voce del compianto Rhett Forrester e qui onorata ai massimi livelli da un Todd Michael Hall davvero in forma smagliante. Lui, assieme a un vero e proprio artigiano della chitarra solista del calibro di Flyntz e a una colonna portante che risponde al nome di Van Stavern, con tanto di berretto di ordinanza, scarpine luccicanti e tequila alla mano come ai vecchi tempi, sono esattamente la fotografia di cosa un certo tipo di metal continui a rappresentare ancora oggi, tra le nuove leve così come tra le vecchie glorie che portano avanti con pazienza certosina la memoria storica. Il tutto con lo spirito di Mark Reale che aleggiava sulle assi dell’Alchemica, colui senza il quale questa celebrazione di potenza e passione non sarebbe mai avvenuta. Altro che muzak: grazie di tutto, Mark.