Judas Priest + Phil Campbell and the Bastard Sons + Warlord @ Ferrara Summer Festival – Ferrara, 02 luglio 2025

Il 05/07/2025, di .

Judas Priest + Phil Campbell and the Bastard Sons + Warlord @ Ferrara Summer Festival – Ferrara, 02 luglio 2025

L’evento è di quelli che hanno il sapore della Storia, sembra scontato dirlo ma vale la pena di sottolinearlo: una combinazione a suo modo sagace di artisti in una location davvero particolare qual è quella di Piazza Ariostea a Ferrara sembra davvero splendere sotto l’egida della colonna che celebra il cantore dell’Orlando Furioso, a sua volta resa icona pop nei manifesti del festival.
Se all’epoca dei Big 4 era chiaro come ogni band avesse un portavoce che fungesse da portabandiera alla propria compagine e posasse nelle foto di rito, un’eventuale tour delle tre realtà che si sono qui esibite vedrebbe legittimamente Halford, Campbell e Zonder assieme in conferenza stampa, ognuno con il suo blasone e in rappresentanza di un pezzo di Storia, continuativo o mutuato che sia. Il terzo, fondatore dei pionieri dell’epic a stelle e strisce e poi motore dei migliori Fates Warning; il secondo, portatore dell’eredità dei Motörhead – che non manca di omaggiare in sede live – il primo… semplicemente, il Metal God per eccellenza. Tuttavia, il discorso resta puramente ipotetico, poiché la combinazione ha luogo in un unico, grande evento: dal giorno dopo ognuno per sé, con gli headliners impegnati nello Shield of Pain Tour, di cui parleremo nello specifico più avanti.
È ancora pieno giorno quando le note di ‘Lucifer’s Hammer’ irrompono sul chiacchiericcio ancora sotto il porticato dei caffè della piazza: l’effetto è quello di affrettare l’ingresso, in modo da avere il colpo d’occhio sui Warlord alle prese del loro pezzo più rappresentativo. Mi sono espresso nel dettaglio sull’attuale sestetto in studio e sull’ambivalenza tra la necessità di portare avanti la preziosa eredità di Bill Tsamis e il farlo con composizioni degne di tal nome, ma ora è il momento delle emozioni, specie se in scaletta tocca subito a ‘Battle of the Living Dead’, l’opener di quel ‘Rising out of the Ashes’ che aveva visto Tsamis e Zonder unire le forze con Joacim Cans degli Hammerfall. La band gira bene, la resa live dei classici è davvero impeccabile, con Lavery pienamente a suo agio sulle partiture dei vari Damien King che lo hanno preceduto, Philip Bynoe che è il perfetto comprimario di Mark Zonder (e vorrei vedere, data la sua gavetta al fianco di Steve Vai!) e Jimmy Waldo che fa il lavoro di cesello. Come già detto in precedenza, Juris e Pires hanno una pesante eredità da onorare, ma lo fanno al meglio, snocciolando un deep cut del calibro di ‘Penny for a Poor Man’, un classico come ‘Black Mass’, vera e propria antesignana del doom ottantiano, e la conclusiva e attesissima ‘Child of the Damned’ che è la classica ciliegina sulla torta. A mio parere, una setlist che è un vero e proprio valore aggiunto di questa giornata del Ferrara Summer Festival.
La compagine Phil Campbell and the Bastard Sons irrompe sul palco un po’ come faceva la versione più longeva dei Tres Amigos, quella che ho avuto l’onore di vedere dal vivo nel 2007 nel tour di ‘Kiss of Death’. Chiaro, i Bastard Sons non sono i Motörhead ma l’impaccio è subito tolto dalle parole del bravo singer Neil Starr: sono qui anche per onorare Lemmy, e (lasciatemelo dire) lo fanno nel modo migliore possibile. La scelta di affiancare ‘Going to Brazil’ e ‘Born to Raise Hell’ alle proprie composizioni ha un perfetto valore filologico, essendo ‘1916’ e ‘Bastards’ a tutti gli effetti dischi in cui Campbell ha suonato. E a proposito di Campbell, proprio il suo assolo su ‘Born to Raise Hell’ mi ha ricordato i gloriosi anni in cui la versione con Ice-T e Whitfield Crane era in heavy rotation su MTV: un fluire di note iconico e memorabile, che ha anche il merito di omaggiare Würzel, lo scomparso comprimario dell’epoca. Ovvio, il finale con ‘Ace of Spades’ non può che conquistare i favori del pubblico, rapito dall’immensa attitudine di Starr, di papà Phil e dei suoi pargoli.
Vale la pena di soffermarsi su un dato: cinquemila convenuti per i Judas Priest non sono certo bruscolini, laddove gli Slipknot hanno potuto contare sul rinnovo generazionale in corso per una cifra di affluenza più che triplicata. Eppure, c’è stato un momento in cui persino un gruppo dalla carriera allora ventennale come i Judas Priest ha potuto contare su un momento di rinnovo e arrivo di forze fresche tra i fan: la pubblicazione di ‘Painkiller’, universalmente considerato uno dei dischi più rappresentativi del Prete di Giuda. Ecco, non è un caso se il tour in corso si chiama Shield of Pain, facendo perno sia sull’ultimo e fortunato platter che sul classico succitato di cui proprio quest’anno ricorre il trentacinquennale.
Al di là dell’interessantissima scaletta e della capacità di rinnovarsi che il quintetto ha dimostrato negli anni, il fattore che salta agli occhi è la solidità, la tenuta del palco e la credibilità di Halford e soci: definiti impietosamente una “cover band di lusso” dai maligni, hanno dimostrato ancora una volta come la coppia Faulkner / Sneap sia perfettamente in grado di onorare al cento per cento l’incalcolabile eredità della “coppia delle coppie”, il tandem Tipton / Downing di cui abbiamo appreso i retroscena nelle note autobiografiche di quest’ultimo, ma che ha rappresentato un golden standard imprescindibile per lo schema a due chitarre dell’HM.
Come ampiamente annunciato, l’esibizione è anticipata da ‘War Pigs’ in onore dell’imminente evento Back to the Beginning che vedrà protagonisti Ozzy e i Black Sabbath, ma è l’attacco dell’opener ‘All Guns Blazing’ a mettere in chiaro come andrà il resto della serata, con Halford solo sul palco ad anticipare i compagni, un dato piuttosto inusuale se ricordiamo i suoi ingressi trionfali in elevatore negli anni ’80, ma che offre a suo modo una vivida immagine del valore del performer. Come da copione, ‘Hell Patrol’ segue a ruota, ma è con ‘You’ve Got Another Thing Comin” che la macchina gira a pieni cilindri, per non parlare della successiva e inaspettata versione al fulmicotone di ‘Freewheel Burning’.
Se è vero che Faulkner resta il regista compositivo e solistico dei “nuovi” Priest, è anche vero che l’esperienza e l’abilità di Sneap iniziano a essere riconosciute appieno nello spazio a lui concesso, ormai praticamente paritario, un dato quasi impossibile da prevedere se consideriamo le voci che volevano i Nostri proseguire come quartetto. E invece no, eccolo lì a suonare gli assoli di ‘Electric Eye’ e di ‘Hell Bent for Leather’, il nostro eroe del thrash britannico che da adolescente aveva marchiato a fuoco un capolavoro come ‘History of a Time to Come’ dei Sabbat: non ho mai visto la sua band storica dal vivo, ma dopo la sua performance ho in parte compensato la mancanza. Una versione magnetica di ‘A Touch of Evil’, ‘Night Crawler’, ‘Between the Hammer and the Anvil’ e l’incredibile title track ‘Painkiller’ sono tra i pezzi tratti dall’ampiamente saccheggiato disco del 1990, a cui si accompagnano un’accorata versione di ‘Giants in the Sky’ dedicata ai tanti caduti nell’Olimpo del metal e il nuovissimo classico ‘The Serpent and the King’ – avrei sperato anche in ‘Panic Attack’ e in ‘Invincible Shield’, ma va bene così. C’è in effetti poco da lamentarsi di una scaletta che ci riserva una chicca come ‘Solar Angels’ accanto a un classico come ‘Breaking the Law’, e che vede la band cimentarsi negli encores più classici possibili con l’attacco di ‘The Hellion’ che prelude alla mastodontica ‘Electric Eye’, a ‘Hell Bent for Leather’ che ha visto il frontman cimentarsi nel suo proverbiale ingresso in moto e alla conclusiva ‘Living After Midnight’, su cui non possiamo fare a meno di ricordare col sorriso le analogie con un noto pezzo del rock di casa nostra pubblicato poco dopo l’uscita di ‘British Steel’; in più, a questo va aggiunto il rodato lavoro della sezione ritmica Scott / Hill e il quadro di una band che è l’essenza stessa dell’heavy metal calata lì, in quella piazza secolare, è completo, contornato per l’occasione dalla sua declinazione più epica (i Warlord) e da quella più stradaiola (con Campbell e soci).
Non è solo una questione di borchie e pose più o meno plastiche: i Judas Priest sono da sempre il manuale vivente di un certo tipo di sound, la rasoiata definitiva dell’acciaio britannico, e il capitolo più importante di questo manuale è proprio l’ugola d’oro dello zio Rob, un gigante che speriamo ci faccia artisticamente compagnia ancora per lungo tempo, assieme alla sua allegra brigata borchiata!

Galleria fotografica a cura di Roberto Villani

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