Megadeth – L’urlo di ‘Killing Is my Business… And Business is Good’ festeggia 40 anni

Il 12/06/2025, di .

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Megadeth – L’urlo di ‘Killing Is my Business… And Business is Good’ festeggia 40 anni

A parlare del metal degli anni ’80 provo sempre una nostalgia tale che, aprire certi cassetti mi provoca qualche lacrima e mi ritrovo a pensare quello che era il chiudersi nella propria camera, ascoltare una cassetta (molte volte registrata) e letteralmente divorare quei giornali che allora arrivavano all’unica edicola del mio paese. Ma perché iniziare così una recensione di uno degli album più iconici del thrash? Perché parlare di nostalgia? Qui si parla di metal, di acciaio che scorre nelle vene, del furente metallo… Già, vero, ma chi scrive è anche una quasi 50enne che sente tutto amplificato nel cuore e nella mente e, quando deve scrivere di una determinata band e di un determinato album, usa più il cuore e spero che per questo mi perdonerete.
I Megadeth si amano o si odiano; io li amo, ma cercherò di non essere di parte e, come dice Martin Popoff nella biografia “So far, so good… Gli anni d’oro 1983-1998“: “I Megadeth non necessitano di troppe presentazioni: rappresentano uno dei gruppi di punta non solo dell’ondata thrash, ma di tutto il metal in generale“. Nascono nel 1983 da Mr. Dave Mustaine, chitarrista e da David Ellefson, bassista, ai due si uniranno poi il chitarrista Chris Poland e il batterista Gar Samuelson, alla voce troviamo lo stesso Dave: Deus ex Machina da sempre. Megadeath significa “sterminio di massa”, così disse ad un giornalista il buon Dave: “Ho visto e letto un opuscolo di un senatore della Califonia e sono rimasto affascinato dalle parole “arsenal of megadeath”… Poi ho scoperto che questa frase è utilizzata in riferimento al conteggio dei corpi dopo una guerra nucleare, questo concetto mi ha colpito”. Ecco anche, da dove nasce la voglia di essere una band riconoscibile e riconosciuta, strutturata e concreta, dai riff senza compromessi, dai testi immersi nel sociale e nella politica in maniera rabbiosa e geniale. Nel 1984 pubblicano il loro primo demo e in copertina troviamo l’embrione di quella che poi sarebbe stata la mascotte della band: Vic Rattlehead. I brani sono permeati di potenza, velocità, furia incandescente: Mustaine deve arrivare ad un obiettivo ben preciso e la dimostrazione sta in questo primo tassello, brani come ‘Loved To Death’ veloce e crescente, ‘Mechanix’, scritta quando il nostro faceva parte dei Metallica, (ma questa è un’altra storia e, come scrissi in un articolo di qualche tempo fa, “Perché credere sempre che una band sia nata da una costola di un’altra? Perché fare paragoni? Perché non considerare un gruppo per la sua peculiarità?“) e ‘The Skull Beneath the Skin’, dove Mustaine e soci sono devastanti.

Le luci dell’industria musicale si accesero a quei suoni ruvidi e veloci, ma le voci che giravano sui ragazzi non erano delle migliori (“il classico” sex, drugs and rock’n’roll la faceva da padrone e la conta dei danni era già alta), comunque riuscirono a fimare per la label Combat, sottoetichetta della Important Records che era collegata alla Megaforce. E grazie alla Combat i Megadeth poterono dar vita, nel 1985, al loro primo album ‘Killing Is My Business… And Business Is Good!’. MegaDave, anni dopo, disse ad un giornalista riguardo il primo lavoro: “… Volevo fare qualcosa che fosse ancora più thrash. Sai, quando c’erano lo speed e il thrash metal noi eravamo tra i migliori rappresentanti di quei generi“. L’immagine che ci arriva di questo album è quella di rabbia, eccessi, disperazione ma anche solitudine, amore, cambiamento… Un mix di thrash, speed metal, punk,  potente ed originale come debutto su lunga scala in cui ritroviamo alcune tracce del demo come ‘Loved To Death’ brano potente, devastante, violento, dedicato alla donna amata allora da Dave che con la sua voce graffiante ha marchiato per sempre questa opener; e poi non possiamo nominare la titletrack, velocissima, dalle venature jazz e punk, Dave raccontò di aver scritto il testo basandosi sul fumetto ‘The Punisher‘ (un tema che ritroveremo qualche album più avanti); ‘Rattlehead’ brano velocissimo e senza falsi complimenti, in cui viene presentata con tutti gli onori la mascotte della band, forse l’alter ego di Dave “Vic Rattlehead, la vittima. Non sente, perché ha le orecchie coperte, così come gli occhi, quindi non vede, e ha la bocca cucita. In pratica è il nostro Eddie (mascotte Iron Maiden). E l’artwork è tutta opera di Dave” questo disse Chris Poland.  Anche se Vic è pienamente connesso con il brano ‘The Skull beneath the skin’ dal riff aggressivo, cupo e  ‘Chosen  Ones’ dove tutta la band è abilissima nel creare un impasto unico che diviene un pezzo tiratissimo.

Se qualcuno non conosce ancora i Megadeth (eresia! Ma parlo alle nuove generazioni…) si ascolti questo primo album, soffermandovi sui testi, sui riff ancora grezzi ma consapevoli del loro potenziale, su quella violenza atta alla rivalsa e puntata verso il futuro. Questo album è un monito, un esempio di come fosse anche difficile stare a galla ed emergere in quegli anni che erano specchio molte volte dell’effimero, e di come ci si può districare nei meandri della società statica e che non accetta le evoluzioni.

I Megadeth si amano o si odiano, dicevo all’inizio di questo scritto, di certo sono da annoverare tra coloro che hanno sempre guardato in faccia il mondo accettando sfide ed evoluzioni dentro e fuori dalla band. E con un Dave Mustaine sempre sul pezzo. (Monica Atzei)

Devo aver già parlato da qualche altra parte del fascinoo insostituibile che ha un debut album di una band, rispetto a una discografica che si sia poi sviluppata prolifica e nel bel mezzo della quale un ascoltatore si sia agganciato, per continuare eventualmente a seguirla (e per i Megadeth è decisamente questo il caso) ma anche per percorrerne i capitoli a ritroso, magari partendo proprio dalle origini. Non mi è difficile rievocare il percorso che ho seguito nel caso di MegaDave e soci: incontrati all’epoca di ‘Countdown to Exctinction’ e di quell’incredibile calata targata Monsters of Rock trasmessa più e più volte su Videomusic, fu facile passare a ‘Peace Sells’, piuttosto diffuso in verità anche a casa dei detrattori per cui i Nostri “copiavano i Metallica”, all’incredibile iconografia di ‘SFSGSW’ con “quel” pezzo dei Sex Pistols e infine al capolavoro ‘Rust in Peace’, anche grazie alla sagace VHS ‘Rusted Pieces’ che anticipava un po’ gli highlights di ogni album. Ecco, ‘Killing is my business… (And Business is Good)’ non era compreso perché non aveva videoclip promozionali di accompagnamento – ci credo, con metà del budget di ottomila dollari speso dai quattro a suon di sostanze illegali e per quella “colonna portante della colazione americana” che sono gli hamburger, è già un miracolo che abbiamo tra le mani l’album uscito per l’arrembante Combat, nonché che ben 3/4 di quelli che ci hanno suonato sopra siano ancora vivi. Ad aiutare noi affamati ascoltatori italiani in questo racconto che si snoda tra la California e la nostra Oenisola ci pensò la Armando Curcio Editore, che in collaborazione con H/M e con la Flying Records lanciò la serie “Metal” in CD e (soprattutto) in cassetta. Ecco dunque che tra quelle uscite compariva proprio l’oscuro (per noi, per l’epoca) album di debutto dei Megadeth, in quella che è tuttora la versione più diffusa nelle case degli italiani – recentemente doppiata da quella della DeAgostini in vinile, ma questa è un’altra storia. Bastò premere play e… anche con i radioloni dell’epoca in cui l’alta fedeltà era una leggenda metropolitana, appariva chiaro che il primo e il terzo album dei Megadeth avevano quell’acidità irresistibile dovuta al budget di produzione usato poco e male (quest’ultimo particolare lo si apprese dopo, ma la sostanza non cambia). Eppure, quel fascino irresistibile è dovuto anche a questo fattore, oltre a tutte le folli scelte che hanno accompagnato quello che (ora) è uno dei debut più noti e citati del thrash metal. La scelta di iniziare con un’esecuzione essenziale di un frammento della Fuga in Re Minore di Bach a opera dello stesso Mustaine, prima di lanciarsi a folle velocità in un’opener come ‘Loved to Death’, subito caratterizzata da un break con charleston e cassa che mette in chiaro il blasone dei due jazzisti transfughi dei New Yorkers, Poland e Samuelson. Non è in effetti un caso che Poland sia per me uno dei chitarristi più geniali in circolazione: quelle scale fluide accompagnate da risoluzioni di settima aumentata sono il valore aggiunto dei tre dischi dei Megadeth in cui ha suonato, oltre ovviamente all’incredibile debut solista ‘Return to Metalopolis’. Se è ‘Rattlehead’ il gemello della succitata opener, il pezzo che tutti noi associamo al breve periodo di Kerry King agli albori della band e che fece commentare a Mustaine che i due erano “gli unici ad aver suonato in due dei Big 4”, le cose più interessanti di ‘Killing is my business… (And Business is Good)’ sono per me l’altra accoppiata malsana, che vede in un abbraccio allucinato la title track e ‘Chosen Ones’, guidate come sono da un basso che non può richiamare i nostri Peggio Punx a chiunque sia un fan dell’HC italiano. Stesso sostrato punk californiano, ovvio. Per non parlare della “quota esoterica” rappresentata dagli arpeggi diminuiti di ‘The Skull Beneath the Skin’ e dalle secceh bordate in crescendo di ‘Looking Down the Cross’, impreziosita da una ritmica al limite del gothic rock. E poi, tecnicamente mancano le due cover, ma ditelo a bassa, bassissima voce. ‘These Boots…’, nelle parole di Dave Mustaine, portò un bel gruzzoletto a Lee Hazelwood, autore dell’arcinota versione originale portata al successo da Nancy Sinatra. Solo che a un certo punto Hazelwood decise che ne aveva abbastanza delle insolenze con cui il fulvo chitarrista aveva sostituito le sue soavi parole originali, e minacciò i Megadeth per le edizioni future. Ecco dunque la prevedibile cronologia delle mosse successive: si iniziò con una serie fastidiosissima di bip per l’edizione appartenente alla carrellata di remix del 2004, per poi giungere all’eliminazione diretta di ‘These Boots…’ dalla tracklist, una mossa che rende ancora più preziosa la succitata edizione economica ma efficace della Armando Curcio Editore. E l’altra cover? Beh, tecnicamente non è tale, come sapete: si tratta di ‘Mechanix’. “There are two ways you can hear this next song: there’s our way and there’s their way”, avrebbe affermato Mustaine in occasione della presentazione della song nel primo live ufficiale della band, ‘Rude Awakening’. In effetti, l’introduzione è forse il valore aggiunto di una versione che surclassa in velocità persino quella presente su ‘No Life ‘til Leather’, secca, decisa e vagamente reminiscente negli intenti di un’altra apertura sempre in tema di HC italiano, ‘Politicians’ dei Raw Power. Tolta di mezzo l’odiata e sbeffeggiata citazione di ‘Sweet Home Alabama’, resta una scehggia di cui però una penna storica del giornalismo italiano ebbe a dire “bravo Mustaine a metterci la musica, più bravi i Metallica a metterci il testo”. E non solo quello. La verità è che Dave avrebbe poi dichiarato che tra i suoi intenti iniziali c’era quello di pubblicare un debut album che contenesse le “sue” canzoni dei Metallica – sia quelle nate all’epoca dei Panic, sia quelle sviluppate con Hetfield, McGovney e Ulrich. Meno male com’è andata, diciamo in coro: in effetti, il miglior argomento a sostegno degli eventi della OTL e contro il recente adagio del “Mustaine Wrote ‘em All” è proprio che il noto split ha portato alla presenza di due pesi massimi della musica mondiale in luogo di uno. E uno di questi è quello che ha preso il nome di uno slogan politico sugli “Arsenali della Megamorte”: non male, vero? Per dirla poi con le parole di Mike Albert, talentuoso axeman che sostituì Poland nel primo tour, “quando chiesi alla band che tipo di musica facevano mi risposero speed metal. Tipo i Black Sabbath? No, più pesante“. E che c’è di più pesante dei Black Sabbath, pensò il neoarrivato. Poi, quando ascoltò il disco esclamò, “è proprio così! Questa è la colonna sonora della fine del mondo!” (Francesco Faniello)

Hammer Fact:
– Nonostante la presenza di ‘Mechanix’ in tracklist, Dave e soci non si soffermarono su molti altri estratti dal seminale ‘No Life ‘til Leather’ nelle setlist live, se si eccettua un accenno alla ‘Jump in the Fire’ che verrà riproposta decenni dopo in un live con ospite Newsted alla voce. Come dovette osservare David “Junior” Ellefson, nonostante quando la band ricevette le proprie copie di ‘Kill ‘em All’ con tanto di ringraziamenti ai former members McGovney e Mustaine quest’ultimo fosse inizialmente furioso per il lavoro pedissequo svolto da Hammett sui suoi assoli, proprio quelle royalties furono una vera e propria boccata di ossigeno per il nascente quartetto, sempre al verde nei primi tempi della propria pericolosa attività…
– Come tutti sanno, Mustaine aveva realizzato a mano un artwork completamente diverso (magari era qualcosa di simile a quanto vediamo sulla copertina del demo ‘Last Rites’), poi smarrito negli uffici della Combat, che provvide a sostituire il tutto aggiungendo anche un logo generico. Da un certo punto di vistam tutto ciò è irresistibile, dal punto di vista del lider maximo… no. Come ebbe ad osservare, “il sangue sembrava ketchup!”. Pertanto, l’artwork che aveva in mente fu poi “restaurato” per l’edizione del 2004, comprensiva anche del famigerato demo. E voi, quale preferite?
– Chissà che quell’approccio stradaiolo di fondo non abbia guidato la scelta artistica dei Kings of Thrash, uno dei recenti progetti di David Ellefson dopo la cacciata dai Megadeth, dato che il neonato progetto (guidata da lui e da Jeff Young) esegue spesso pezzi del primo e del terzo album della band madre, coadiuvato dalla presenza più o meno a intermittenza di Chris Poland. Perché il primo e il terzo e non ‘Peace Sells…’? Come già detto, c’è un filo rosso e un po’ lo-fi che li lega…
a- Ah, l’Italia… Per anni, per via dell’edizione Armando Curcio, sono stato convinto che l’opener del disco si chiamasse ‘Loved to Deth’. A suo modo una piccola genialata, vero? Meno geniale è magari il credit (interno, per fortuna) dato a un certo D. Austaine, ma sono cose che capitano. Meno comprensibile è quel ‘Love [sic.] to Death’ che campeggia sulla succitata nuova edizione in vinile, ma che vuoi farci… è la stampa, bellezza.

Line up

Dave Mustaine: lead guitar, vocals, piano
Chris Poland: lead guitar
David Ellefson: bass guitar, back-up vocals
Gar Samuelson: drums, tympani, rattlehead

 

Tracklist

  1. Last Rites/Loved to Death
  2. Killing Is My Business… And Business Is Good!
  3. The Skull Beneath the Skin
  4. These Boots
  5. Rattlehead
  6. Chosen Ones
  7. Looking Down the Cross
  8. Mechanix

 

 

 

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