Firenze Rocks – Day 3 @ Visarno Arena, 15 giugno 2025
Il 20/06/2025, di Maria Teresa Balzano.

La terza giornata del Firenze Rocks 2025 si apre con i Revue, vincitori del contest fiorentino College Clash, i Punkcake, i ribelli toscani di X-Factor, l’urgenza sonora dei Bad Nerves e l’intensità post-punk degli Shame. Set distinti ma complementari, capaci di scuotere l’arena già nel primo pomeriggio. I Bad Nerves mettono al centro l’energia ruvida di un punk che non sopporta filtri. Con gli Shame si vira verso sonorità più stratificate e introspettive.
Il cuore del Visarno si trasforma in fretta in una nube di polvere dorata che graffia l’aria salendo ad ogni balzo e unita ai raggi obliqui del tramonto contribuisce a creare un’estetica visiva da festival americano, qualcosa a metà tra l’iconografia del Coachella e l’intimità di un evento europeo. L’acqua a getto dalle transenne è stata piú volte un sollievo necessario, una piccola tregua dalla calura persistente.
Prima degli headliner, i Weezer salgono sul palco e al suono dei primi accordi pop rock leggermente distorti i nostri ricordi rimandano a flash di un’agrodolce adolescenza nerd, tra le limonate rubate, le prime sbornie e gli accordi maldestri strimpellati da studenti impacciati acciambellati sul pavimento dell’aula magna durante l’occupazione d’istituto delle superiori. La nostalgia di una leggerezza disinvolta in puro stile American Pie, con ‘Buddy Holly’ e ‘Beverly Hills’ in sottofondo e i nostri grandi sogni, spesso costruiti ad occhi aperti, pronti a sgretolarsi nell’inesorabile fiume del tempo.
La band di Rivers Cuomo propone un’esibizione che, pur compatta dal punto di vista strutturale, pesca dal catalogo brani storici e hits piú recenti. 35 milioni di dischi venduti non sono bazzecole, tuttavia stasera la presenza scenica è elegante ma non incendiaria, nonostante la scelta di suonare gli arrangiamenti aderenti alle versioni originali sia molto apprezzata dal pubblico. I riff e i chorus scanzonati vengono eseguiti con perizia, ma l’assonanza tra voce e strumentazione resta un tono più dimesso del solito: l’impatto dinamico sembra contenuto, come se la band risparmiasse risorse per i passaggi più celebri. Anche ‘Island in the Sun’, presenza costante delle compilation rock che correvamo a comprare in edicola piú di vent’anni fa, scorre vellutata, mentre piccoli momenti melodici illuminano la performance senza peró lasciare il segno. Un set tecnicamente inappuntabile ma privo di quel brio contagioso che caratterizza i live travolgenti.
Alle 21:30, con l’arena in tripudio riscaldata a dovere da una immancabile e graditissima ‘Bohemian Rhapsody’, entrano in scena i Green Day, accolti dal boato del pubblico. L’acustica regge l’urto: la voce di Billie Joe Armstrong si impone con chiarezza, sostenuta da una sezione ritmica coesa e potente. Tré Cool è una macchina ritmica perfettamente oliata, mentre Mike Dirnt tesse il tappeto con un basso corposo, vibrante, che nei momenti più intensi sembra quasi prendere il sopravvento sulle chitarre. L’aggiunta di un secondo chitarrista completa la rotondità del suono senza sovraccaricarlo.
La setlist è pensata con attenzione: un alternarsi calibrato tra gli inni punk di ‘Dookie’, la densità politico-narrativa di ‘American Idiot’, brani dal nuovo ‘Saviors’ e le hit ormai transgenerazionali. Ogni pezzo è accolto con entusiasmo diffuso: chi canta con occhi chiusi, chi si getta nei circle pit, chi alza le braccia in segno di comunione. L’aspetto forse più sorprendente della serata è il pubblico stesso: intergenerazionale, appassionato, variegato. Famiglie con bambini sulle spalle, ragazzi al primo festival, habitué con t-shirt sbiadite e tatuaggi d’annata.
Luci, grafiche, fumi e fuochi finali contribuiscono a rendere l’esperienza sensoriale totale, senza sovrapporsi alla musica. Un momento particolarmente simbolico è rappresentato dalle bandiere palestinesi che si muovono nel pubblico: il messaggio politico del gruppo trova sponda in un’arena già predisposta alla partecipazione, mentre Armstrong sottolinea la necessità di non restare indifferenti. È un concerto che travalica il mero divertimento diventando dichiarazione, invitando a non banalizzare il palco come solo intrattenimento.
Lo show si chiude con fuochi d’artificio e una versione acustica del classicone ‘Good Riddance (Time of Your Life)’: un epilogo poetico che risuona nelle vie di Firenze, tra decibel e cuori pulsanti, sigillando una serata di easy rock vissuto senza filtri.
Il Firenze Rocks conserva il suo carattere audace e inclusivo: tra acustica migliorata (ma volumi quasi sufficienti nelle retrovie), repertori rispettosi della fanbase e un pubblico partecipe e variegato, il festival ha consegnato un’esperienza genuina. Non solo rock ma fusione sociale, ricreazione collettiva, vissuta nell’afa e nella polvere ma con spensieratezza e coscienza. I punti deboli restano, come per quasi tutti gli eventi di grosso calibro, inutile perdere tempo a fare sterili elenchi, mi piace pensarlo come un festival che non si limita a mettere artisti su un palco, ma costruisce una cornice dentro cui chi ascolta può riconoscersi, sfogarsi, emozionarsi, e magari anche cambiare qualcosa, fosse anche solo il modo di ascoltare.