Little Albert – Now I’m going to sing mine…

Il 25/04/2024, di .

Little Albert – Now I’m going to sing mine…

Alberto Piccolo, in arte Little Albert, è tra i chitarristi italiani di ultima generazione che meglio si sono imposti all’attenzione generale, forte di un imprinting familiare che gli ha trasmesso valori imprescindibili, come per esempio l’amore per la musica, meglio se di altissima qualità e dagli spiccati connotati rock’n’roll. Originario di Montebelluna, chitarrista che deve molto sia a Page che a Clapton, ma con un occhio di riguardo verso “grandi padri” come Muddy Waters e Little Walter, figura chiave del blues statunitense marcato Midwest e del quale il musicista trevigiano ha reinterpretato uno dei suoi classici storici, ‘Blue And Lonesome’, brano di punta del secondo, nuovissimo disco ‘The Road Not Taken’. Registrato all’Outside Inside Studio di Matteo Bordin (Mojomatics, Squadra Omega), ‘The Road Not Taken’ è un album infatti carico di suggestioni, porta con sé riflessioni e sensazioni umorali, scandendo a fondo tutto ciò che l’esistenza stessa porta ad esaminare, nel giusto e nello sbagliato che sia, per un artista che sa bene come toccare le corde dell’anima, come ampiamente testimonia anche la sua militanza nei Messa, probabilmente la band più internazionale che l’Italia oggi può vantare e che all’estero in molti ci invidiano. Lasciamo dunque la parola al diretto interessato, lasciamo che siano echi passati e una catarsi emotiva a prendere il sopravvento… 

Alberto, come credo sia giusto fare, meglio partire dal tuo background personale, dall’ambiente familiare in cui sei cresciuto, in cui si viveva e respirava musica a 360°…
“Sono cresciuto in una famiglia dove la musica ha sempre avuto un ruolo importante. Mio zio, mio papà, mio nonno e mio bisnonno sono tutti musicisti. Purtroppo i nonni non li ho mai conosciuti ma in qualche modo l’influenza c’è stata, soprattutto per quanto riguarda la mia scelta di studiare musica seriamente. Mio papà negli anni ‘70 suonava in una delle prime band rock della zona, i Blackfires. Facevano principalmente cover di Santana, Cream e Creedence Clearwater Revival. Racconto sempre che la mia sveglia la domenica mattina era ‘Led Zeppelin II’ messo a palla nello stereo in salotto…”.
Una formazione e un’influenza che ti ha portato ad imbracciare la chitarra a soli nove anni…
“Sì, esatto, anche un po’ prima. La chitarra era lì in un angolo della stanza e spesso andavo a giocarci suonando le corde a vuoto una per volta. Un giorno ho deciso di chiedere a mio zio di spiegarmi come suonarla e da lì è iniziato tutto. Il primo pezzo che ho imparato probabilmente è stato ‘Jumpin’ Jack Flash’ con la chitarra accordata in Sol aperto, non propriamente un inizio canonico devo dire, ma di sicuro divertente perché è praticamente impossibile suonare una nota sbagliata. Direi ottima scelta da parte dell’insegnante! Organizzammo anche un piccolo live in soggiorno con i miei parenti a fare da pubblico per l’occasione”.
Avendoti visto on stage più volte, e nelle movenze e per come affronti il palco, credo che il chitarrista che ammiri appunto di più sia Jimmy Page, quasi più del periodo Yardbirds. E anche Jeff Beck mi pare abbia giocato forte…
“Dopo aver ascoltato innumerevoli volte i dischi in studio, intorno ai miei 10/11 anni, ad un certo punto è apparso il DVD del live alla Royal Albert Hall dei Led Zeppelin, quello col deserto in copertina. Dopo aver visto Jimmy Page suonare mi sono detto: “ok, da grande voglio fare la stessa cosa che fa questo qui!”. Poi chiaramente ho scoperto tutti gli altri suoi contemporanei e da lì mi sono allargato. Jeff Beck con il suo ‘Blow By Blow’ è stato un’influenza importante. Come ‘Deuce’ di Rory Gallagher, o ‘Elephant’ dei White Stripes, il primo CD che ho ricordi di aver posseduto. Clapton con i Cream è quello che mi ha poi portato verso il blues e grazie a cui ho poi scoperto, tra i tanti, Derek Trucks, chitarrista per me fondamentale”.

Entrando più nei dettagli, parliamo di ‘The Road Not Taken’, a partire dalle sue suggestioni più intimistiche: la “strada non presa” che può rappresentare ognuno di noi, è quasi l’essenza della vita stessa. E non soltanto un amore finito…
“Certo, dietro alla strada non presa c’è il concetto di scelta, di viaggio, di tempo che passa, di maturazione, di rimpianti e di soddisfazioni. Fortuna e sfortuna, o giusto e sbagliato anche se vogliamo. Insomma, come dici tu, l’essenza della vita stessa”.
Un secondo album probabilmente più ambizioso del primo, e per tutta una serie di fattori, in primis la vetrina derivata dall’esplosione su larga scala dei Messa, a mio avviso, al momento la band più internazionale che abbiamo in Italia, per dirla in maniera molto semplice.
“Ti ringrazio intanto per la descrizione che fai dei Messa. Sicuramente è una band che da subito è nata con una veste pensata per raggiungere ascoltatori oltre i confini nazionali. Diciamo che ‘The Road Not Taken’ è un disco ancora più onesto del precedente, dove però c’è più attenzione al songwriting. Alla fine, diciamocelo, ogni brano è un po’ una tela dove io posso sbizzarrirmi con degli assoli, però in questo disco non c’è solo questo. Ci sono delle storie e i brani stessi sono un po’ una valvola di sfogo, un modo per elaborare degli eventi della mia vita”.

Per ribadire il legame coi Messa, ho letto che la stessa Sara ha contribuito alla stesura dei testi…
“Sì, esagerando un po’ possiamo dire che Sara per me è una sorta di Giulio Rapetti. Dico esagerando perché ho una venerazione per il duo Mogol-Battisti e per me sono inarrivabili. Io sono sempre molto sintetico con le parole, mentre lei riesce ad essere poetica e musicale in modo molto spontaneo, quasi di getto. Soprattutto in inglese. Io le spiego di cosa voglio parlare, oppure le faccio vedere quello che ho fatto da solo e poi da lì ci lavoriamo assieme. Comunque non solo i testi, ma anche la grafica del disco. Le foto invece le ha fatte tutte Marco”.

L’album è cangiante e delicato, quasi leggiadro, ma capace di grandi scossoni, dove è la tua chitarra a spadroneggiare, per una miscellanea che chiama tanto in causa i Sixties e i Seventies. Forse il vero periodo aureo del rock tutto…
“Ti ringrazio. Volevo fare un disco il più possibile alla “vecchia maniera”, sia perché sono un fan delle sonorità vintage, sia un po’ per sfida personale. Ho pensato quindi, con il contributo di Alex Fernet al basso e Diego Dal Bon alla batteria, di registrare tutto su nastro all’Outside Inside Studio di Matteo Bordin e di cercare di optare il più possibile per la presa diretta, con tutte le imperfezioni del caso. Come avrebbe suonato un mio disco se l’avessi registrato nel ‘73? Ecco, diciamo che questo disco è in parte la risposta a questa domanda…”.
Più che un singolo brano, a colpire dell’album è il mood nell’insieme, anche se personalmente trovo particolarmente speciali ‘Still Alive’, la rivisitazione di ‘Blue And Lonesome’, e la conclusiva ‘This House Ain’t No Home’.
“Credo che il pezzo più riuscito del disco dal punto di vista della performance sia ‘Blue And Lonesome’. Forse perché mi sono limitato a riarrangiare del materiale già esistente, che credo sia la cosa che mi viene meglio. Gli altri due sono dei brani in un certo senso scomodi per me, perché sono legati a dei momenti della mia vita che devo rivivere quando li sento e quando li suono soprattutto”.
Alberto, il trio è forse il numero perfetto per suonare rock, e farlo in un certo modo… Ora ti metto qui una decina di three-piece tra i più celebrati della storia, e mi costruisci il tuo personale podio composto dai primi tre, magari spiegandomi il perché… 
Grand Funk Railroad / Blue Cheer / ZZ Top / Motörhead / Budgie / Taste / The Jimi Hendrix Experience / Cream / Rush / Beck, Bogert & Appice.
“Devo dire che è difficile fare una classifica, sono tutti super! E poi in quanto a numeri e classifiche in musica cito sempre una frase di Bartok: “Le competizioni sono per i cavalli, non per gli artisti”. Dovendola proprio fare direi:
– 3° posto: Grand Funk Railroad. Dovrebbero essere al primo posto in quanto a groove e coesione ritmica di tutti e tre gli elementi. Sono anche quelli che mi stancano meno, devo dire. Ci sta sempre un pezzo loro in qualsiasi momento.
– 2° posto: The Jimi Hendrix Experience. Sono l’esempio di come un trio rock dovrebbe essere. Hendrix è pura emozione e istinto. Motivo per cui penso lo si possa suonare solo a casa propria, per imparare. Non ha senso riproporre Hendrix in giro con delle cover, a meno che non siano totalmente stravolte, ma non ci troverei il senso comunque.
– 1° posto: Cream. Clapton dell’era Cream è alla base della mia formazione chitarristica quasi quanto i Led Zeppelin. Fantastici in quanto a capacità di improvvisare liberamente live, sempre connessi tra di loro. Apprezzo molto anche il modo di suonare della sezione ritmica, con il basso a fare spesso da contrappunto alla chitarra e la batteria mai scontata, frasi musicali e soprattutto POCHI piatti”.

Mi pare che anche l’aspetto live sia importante per i Little Albert, qualche concerto estemporaneo lo avete tenuto, nel Modenese e lungo la Pianura Padana. Ma questo è un impegno che deve conciliarsi soprattutto con le tournée dei Messa, sempre più importanti e frequenti. Proprio in questi giorni è stato confermato un prestigioso tour negli States, a maggio…
“Sì, vero, in realtà l’aspetto live è dove realmente prendono vita i brani. Ogni sera è tutto diverso e c’è molta improvvisazione. Diciamo che organizzativamente parlando è un po’ complesso, è vero, però sto cercando di suonare il più possibile cercando di non pestare i piedi a nessuno. Ma comunque ci sono già in programma delle primissime date dal vivo, intanto per presentare l’album, tra cui la partecipazione del 25 aprile al Maximum Festival di Altroquando (TV), all’Arcella Bella di Padova (31 maggio) e al Caracol Olol Jackson di Vicenza, il 21 giugno”.

 

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