Steven Wilson @Palazzina di Caccia di Stupinigi – Nichelino (TO), 26 giugno 2018

Il 28/06/2018, di .

Steven Wilson @Palazzina di Caccia di Stupinigi – Nichelino (TO), 26 giugno 2018

Per capire appieno la portata della serata di questa sera, show numero due di Steven Wilson in Italia dopo la precedente serata del 25 in quel di Verona al Teatro Romano a supporto dell’ultimo studio album ‘To The Bone’, è bastato guardare gli occhi e le facce dei numerosi presenti alla fine dello show: visi contenti e gaudienti, a volte quasi increduli nell’aver visto uno show che si ricorderanno ancora per tanti, molti anni a venire. E con la consapevolezza, se ancora ce ne fosse bisogno, di trovarsi di fronte ad una delle ultime rockstar, un artista che per caratura artistica ricorda molto da vicino i grandi della musica rock degli anni settanta, musicisti come Peter Gabriel o David Bowie ad esempio. E qui non parliamo e non scomodiamo paragoni illustri che potrebbero risultare irriguardosi ai più per un puro vezzo o per ‘alzare di tono della serata’, qui si tratta di misurare la caratura ed il talento di un artista prolifico e punto di riferimento di una scena prog rock moderna avara di musicisti del suo calibro e che trova in Daniel Gildenlow un altro esponente di spicco.. Quindi, dicevamo, facce sorridenti per un concerto che si è svolto nel parco di Stupinigi proprio dietro alla ex Palazzina di Caccia dei Savoia a Nichelino alle porte di Torino, ultimo baluardo verde prima di immergersi nel cemento della città sabauda. Cornice assolutamente mozzafiato, questo enorme palco incastonato nel verde al riparo da occhi indiscreti e con lo sfondo una Palazzina che assomiglia ad una piccola Versailles in miniatura. Con tale background, Steven Wilson e la sua band sono l’unica formazione a doversi esibire nel bill, nessun special guest è previsto in scaletta proprio per permettere all’estro di Wilson di esprimersi al meglio e per gestire le quasi tre ore in cui il folletto inglese insieme alla sua band sono rimasti sul palco. Ad accompagnare il funambolo britannico troviamo Alex Hutchins alla chitarra, Nick Beggs al basso (già live con Steve Hackett) e Craig Blundell alla batteria per un concerto che ricalca pressoché quanto già il pubblico italiano ha potuto ammirare lo scorso febbraio negli spettacoli di Milano e Roma. Steven Wilson comincia puntualissimo alle ore 21:00 come da programma, i suoni sono delicati ma puliti con un bilanciamento ed una nitidezza incredibilmente buona per essere uno spettacolo live, tra l’altro all’aperto; e tale si manterrà per tutta la durata della serata con un plauso particolare al loro ingegnere del suono. Dopo aver aperto le danze con ‘Nowhere Now’, è la volta di ‘Parah’ dove in occasione delle parti vocali curate su disco da Ninet Tayeb viene proiettato un video di quest’ultima che ‘mima’ il cantato seguendo e duettando con il buon Wilson grazie all’uso di basi audio. Prima di lanciarsi in ‘Home Invasion’ Wilson loda il meraviglioso posto in cui ci si trova facendo sorridere il pubblico asserendo di non trovarsi ad un concerto di Clapton ed incitando la gente ad essere passionale nonostante si sia tutti seduti, fatto questo alquanto insolito e francamente inutile nel contesto in cui ci si trova. Quindi via con la già citata ‘Home Invasion’ dal precedente ‘Hand, Cannot, Erase’, grazie a questo gustoso siparietto pubblico e band cominciano a ‘sbottonarsi’ un po’ cercando di creare quella indispensabile alchimia che ogni concerto live deve poter creare. La band è affiatata, sciorina musica con una maestria strumentale ed una tale naturalezza da impressionare il più consumato musicista presente, complice anche la location….sembra trovarsi di fronte ad un vero happening. ‘Home Invasion’ è un brano prog per eccellenza dove si consumano pregevoli momenti strumentali alternati a preziosismi vocali al limite del pop con il quale il buon Wilson ci ha ormai abituati impreziosita dalla proiezione di immagini video su maxischermo posto al posto del backdrop .Come anche su disco, subito collegata al precedente brano troviamo ‘Regret #9’ che si distingue per il suo ritmo sincopato, elettrico e schizofrenico guidato dalla voce di Wilson quasi in spoken words, la band lo accompagna quasi come se fosse il suo angelo custode donando quella frenesia che già il brano possedeva su disco. Spettacolari momenti Pink Floydiani in ‘Refuge’ sempre tratto dall’ultimo ‘To The Bone’ dove grazie anche a peculiari immagini proiettate sembra di essere immersi in atmosfere care ai Pink Floyd di ‘The Division Bell’. Siparietto divertente quando Wilson tenta di spiegare ai venticinquenni presenti cosa sia una chitarra elettrica presentando la sua Telecaster come una chitarra punk rock asserendo tra le risate generali asserisce che solo chi ascolta Metal sa cosa sia una chitarra elettrica. Altro brano a seguire ‘People Who Eat Darkness’ dove i ritmi sono dilatati, emozionale, profonda ed avvolgente: queste le sensazioni che scaturiscono dal suo ascolto in questa cornice ammaliante come si dimostra essere la palazzina di caccia dei Savoia a fare da sfondo. Finalmente comincia a far buio, sono quasi le 22, momento grazie al quale il tecnico delle luci può entrare maggiormente in azione sbizzarrendosi con alcuni giochi di luci abbastanza essenziali per la verità. E qui finisce la prima parte dello spettacolo che ricomincia dopo un quarto d’ora con ‘Arriving Somewhere but Not Here’ dalla discografia della band madre, i Porcupine Tree: il brano è accolto dal boato del pubblico che forse, sotto sotto, non aspettava altro. Miglior nuovo inizio non poteva esserci! A livello corale non ci sono sbavature rispetto alla versione in studio, Wilson sembra quasi rigenerato andando da una parte all’altra del palco strappando applausi dal suo pubblico. Se si guarda le facce dei presenti, in tantissimi cantano sfoggiando un leggero headbanging con un sorriso quasi fanciullesco in preda a quella gioia che solo la musica può donare. Prima di procedere con il pezzo successivo Steven Wilson chiede ai presenti di alzarsi in piedi sostenendo di essere noto come songwriter di pezzi concept rock ma anche pop come amava ascoltare nella sua giovinezza sciorinando nomi di artisti che lo hanno in tal senso influenzato come Kate Bush, i The Police, Abba, Beatles proponendo la sua pop music con ‘Permanating’, un pezzo gioioso e scanzonato nel quale lo stesso Wilson sfoggia movenze da pop star consumata. Una ventata di aria fresca, quasi ci si trova catapultati in un concerto dei Coldplay, i suo fans lo seguono con entusiasmo e grande carica emotiva. Nelle successive ‘Song Of I’ e ‘Lazarus’ di Porcupine Tree mémoire i ritmi tornano ad essere rock con il pubblico che, contagiato da nuovo entusiasmo, continua a rimanere in piedi quasi rapito da questa minuta figura che li ha stregati, uno ad uno. Da rimarcare il fatto che, in ‘Song Of I’, imbracciando una chitarra elettrica i ritmi si fanno meno psichedelici e sincopati per lasciare spazio ad una ballata rock che incanta ed accarezza le coscienze di un pubblico che sta assistendo ad un concerto che è un concentrato di tante piccole e grandi emozioni al tempo stesso, Wilson non è una scoperta di oggi ma una bella e piacevole conferma che si fa apprezzare brano dopo brano, lui che non ha paura di prendere per mano i propri fans ed accompagnarli docilmente dove solo un artista di talento come lui riesce a fare accompagnato da una band stellare. ‘The Same Asylum As Before’ viene introdotta dallo stesso Wilson declamando il suo eroe da teenager negli anni ottanta, Prince, sostenendo pubblicamente di essersi ispirato al folletto di Minneapolis non solo nella scrittura di ‘To The Bone’ ma di questo brano in particolare nel tentativo di cantare in falsetto come faceva lo stesso musicista americano. ‘Song of Unborn’ è una canzone di protesta dove viene messo in risalto la voglia di ribellarsi ad un mondo bacato dove si crede ancora nella religione, uno show che prende anche toni sociali/politici con esternazioni fatte per la verità con molto tatto ed ironia, più mediterranea che anglosassone. In ‘Vermillioncore’ sembra di sentire gli Ozric Tentacles, un pugno nello stomaco mentre nella parte finale dedicata ai bis, ecco trovarci di fronte al solo Steven Wilson con la sua inseparabile telecaster ed un piccolissimo amplificatore con l’esecuzione di ‘Even Less’ dei Porcupine Tree, un qualcosa di inedito che non ha eseguito a Verona giusto la sera prima. Altra dimostrazione del suo estro, imprevedibilità e versatilità, un tuffo nel passato che pochi tra i presenti conoscevano. A seguire ‘Blackfield’ dell’omonima band con la quale Wilson ha inciso nel corso degli anni ben cinque dischi in collaborazione con Aviv Geffen, anche qui solo lui con chitarra acustica e tastiera. Ed è qui che il musicista britannico sciorina una verità per lui assoluta: quando gli si chiede se suonerà questo o quel brano dei Blackfield o dei Porcupine Tree lui risponde sempre perentoriamente in maniera negativa, non per spocchiosità o per sviare la domanda ma semplicemente perché tutto ciò che viene eseguito si tratta di musica scritta ed interpretata da lui ma registrate da questa o quella band, punto di vista interessante che pone lui al centro dell’attenzione invece della band o il contesto con la quale ha ‘semplicemente’ inciso quella canzone specifica. Si giunge alla parte finale rappresentate dalle meravigliose ‘The Sound Of Muzak’ tratto da ‘In Absentia’ dei Porcupine Tree e ‘The Raven That Refused to Sing’, un tuffo al cuore pieno di quella maestria e magia che ha accompagnato tutte, ma proprio tutte le canzoni proposte questa sera. Un concerto magistrale, uno show realmente unico che il pubblico non ha disatteso reso memorabile da quella alchimia che si è formata brano dopo brano tra la band ed i propri fans, bene suddivisi tra venticinquenni mischiati a cinquantenni a dimostrazione che la musica, se ben studiata ed altrettanto bene eseguita, riesce ad unire generazioni apparentemente diverse con quella magia che la musica sa sempre, e mai inaspettatamente, donare. Questa è stata una di quelle occasioni dove le emozioni si sono potute toccare ‘con mano’, sensazioni forti che rimarranno impresse nella memoria nella speranza di poterle presto rivivere con la forte sensazione di aver partecipato a qualcosa di irripetibile.

FOTO DI ALBERTO GANDOLFO

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