Sex Pistols + Slayer + Bad Religion @Stadio Olimpico di Roma, 10 luglio 1996

Il 01/06/2020, di .

Sex Pistols + Slayer + Bad Religion @Stadio Olimpico di Roma, 10 luglio 1996

Ancora punk, ma solo per denaro!
Metal Hammer intitolava così il lungo reportage dedicato alla rentrée dei Sex Pistols, che si esibirono il 10 luglio 1996 nella suggestiva cornice dello Stadio Olimpico di Roma, affiancati da stelle di prima grandezza quali Slayer, Sepultura, Iggy Pop, Paradise Lost e Bad Religion.

Tutto avremmo pensato meno che questo: il ritorno dei Sex Pistols, a oltre vent’anni dalla loro oltraggiosa comparsa in quel di Londra, alfieri della celebre punk rock explosion d’oltremanica, eversori della borghesia, i quali furono realmente un calcio negli stinchi dei benpensanti e del rock-biz di quel periodo. Ora sono tornati, e con l’intento dichiarato di fare solo e soltanto soldi, nient’altro, i Sex Pistols vogliono la fetta dei guadagni che spetta loro, visto che di questi tempi il punk tira, e pure parecchio. Quindi non c’è da scandalizzarsi, tant’è che la tournée si chiama ‘Filth Lucre Tour’, ovvero “il tour del lurido lucro”, più esplicito di così, ma l’argomento Sex Pistols lo riprendiamo più avanti, quando sarà il momento. Delle due date italiane dei Pistols, quella romana è stata sicuramente la più interessante, più ricca di nomi adatti per il palato metal e via discorrendo, con Paradise Lost, Bad Religion, Slayer, Sepultura, Iggy Pop e appunto Sex Pistols, per una decina d’ore ad alto livello emotivo e scossoni di tellurico rock. Denominata Live Link Festival, la kermesse si è svolta nell’insolita (per i gruppi metal ed affini) e suggestiva ubicazione dello Stadio Olimpico, Stadio che, nei primi mesi estivi, ospita sempre concerti di gran richiamo ed artisti di una certa levatura, anche se per questa edizione tirava una brutta aria, visti i flop che avevano collezionato gli artisti intervenuti in precedenza. Primo fra tutti un tale di nome David Bowie, che solo 24 ore prima si era trovato di fronte la desolazione di uno Stadio Olimpico vuoto, con soli 2-3000 paganti! Quindi una situazione da far tremare i polsi a promoter e organizzatori. Complice una giornata da sogno, con un sole splendido e l’afa mandata a farsi benedire, il festival ha invece tenuto fede alle aspettative, soprattutto grazie ai fans che non mancano mai ad appuntamenti come questo, che sono accorsi a frotte, riempiendo quasi per intero la Curva Sud dello Stadio, roccaforte dei tifosi della Roma, sfiorando il tetto delle 10.000 unità.

Con più di un’ora di ritardo sulla tabella di marcia, alle 16 passate attaccano i Paradise Lost, nell’ingrato compito di opening-band e come un pesce fuori dall’acqua nel doversi esibire alla luce del sole, visto che il quintetto ha fatto del gotico, dell’oscuro, del celato il proprio stile. Paradossalmente, i cinque han convinto in pieno i fans con uno show dinamico e vibrante, grazie anche a una setlist ben surrogata dal repertorio degli ultimi due album ‘Icon’ e ‘Draconian Times’, i lavori discografici che li hanno prepotentemente imposti su scala europea. Anche il sottoscritto, che ha sempre censurato le prestazioni live dei Paradise Lost, è rimasto favorevolmente impressionato dalla buona prova offerta dal complesso capitanato da Nick Holmes, stavolta meno preso dallo scimmiottare a tutti i costi James Hetfield. Se il suonare sotto il sole ha effetti così benevoli, forse è meglio che i Paradise Lost cambino registro: dal nero notte al verde clorofilla il cambiamento non è poi così traumatico, o sbaglio? Scherzi o battute a parte, sottolineo una volta di più la bravura on stage degli inglesi, dove forse hanno suonato il loro miglior concerto in terra italiana. All’attaccare di ‘Embers Fire’ migliaia di voci sono impazzite all’unisono, per il primo, grande inno della giornata… La folla che animava il festival è stata un qualcosa di fenomenale, presa dalla voglia di passare una giornata spensierata, tutto è filato per il verso giusto, senza quei problemi e quei grattacapi che paiono essere prassi, quando si parla di concerti metal, e che il preconcetto generale li vuole popolati da orde di scapestrati ed emarginati che aspettano solo l’occasione giusta per scatenare risse e vandalismi. Sarebbe ora di piantarla con queste buffonate, la verità è che in Italia l’unico pubblico fedele e corretto è quello metal, che partecipa e si fa trovare pronto all’avvenimento. Che i metallari sono brutti e cattivi, fanno solo casino, lo dice chi non ha di meglio da fare, oppure è troppo impegnato ad osannare i soliti nomi da cassetta. Beh, chi si aspettava “spargimenti di sangue” perché c’era di mezzo il metal e i suoi fans, si è beccato una cocente delusione, alla faccia sua, perché il pubblico è stato di una correttezza unica e di un entusiasmo contagioso. Chi vuol fare il sociologo sulla pelle del metal diriga altrove le sue nefaste attenzioni. Chiudiamo una polemica e chi vuole capire capisca.

Rapido cambio di set e scendono in campo (è proprio il caso di dirlo!) i Bad Religion, che, con l’avvento di Green Day ed Offspring, sembra siano stati presi in simpatia anche dal pubblico metal. Dei due gruppi sopracitati i Bad Religion potrebbero essere i padri, sia per l’età che per l’esperienza accumulata nel corso di più di due lustri passati a suonare in ogni dove e pubblicando una cospicua discografia. La band californiana, rimasta orfana di Brett Gurewitz, che ha preferito la più comoda e remunerativa poltrona di boss della Epitaph (da dove però deve inghiottire il boccone amaro della dipartita dei top-seller Offspring, passati alla Columbia, guarda caso l’odierna label dei Bad Religion…), si è stretta attorno alla figura dell’altro capo storico, il singer Greg Graffin, che ne guida i passi, compositivamente parlando. Un’ora abbondante di concerto ha fugato ogni dubbio sul valore del quintetto californiano, autore di classici dell’hardcore melodico yankee e tra le band più ispiratrici del settore. Una spanna sugli altri il chitarrista Brian Baker, con un passato nei gloriosi Minor Threat di Ian McKaye, la cui prestazione alla sei corde è stata superlativa, secco e roccioso il suo stile che ha dettato i tempi per uno show indovinato e godibile, che ha toccato il vertice con ‘I Want To Conquer The World’ e dove il materiale dell’ultimo album ‘The Grey Race’ ha fatto la parte del padrone. Forse, alla lunga, i Bad Religion stancano un po’ e fanno dirigere altrove le attenzioni, perché ogni pezzo sembra essere speculare dell’altro, ma è uno dei pesanti pedaggi che il melody-core ti impone di pagare, volenti o nolenti… Il solleone ha capito che forse non era il caso di spingere troppo il piede sull’acceleratore, perché in terra c’era già chi ci pensava a rendere torrida l’atmosfera, e ha concesso qualche tregua; c’è invece chi ha avuto un lampo di genio e ha fatto chiudere l’ingresso al pit sottostante al palco per chissà quale problema. Fino a quel momento il via vai tra le gradinate e il pit era stato placido e tranquillo. Normale quindi la calca verificatasi attorno al cancello d’ingresso, per chiunque volesse accedere o uscire non rimaneva altro che trasformarsi in novello Tarzan, rischiando così l’osso del collo. Finalmente il diktat rientrava e il cancello veniva nuovamente spalancato, per poi essere ancora una volta chiuso, tra lo stupore di tutta la curva. Conciliabolo tra forze dell’ordine e responsabili della security, e definitiva fumata bianca per la gioia dell’andirivieni generale.

Rullo di tamburi per l’arrivo degli Slayer, che mancavano in Italia dalla data milanese assieme ai Machine Head e oggi nuovamente protagonisti di un album, di sole cover punk, intitolato ‘Undisputed Attitude’. Non esistono parole per descrivere la brutale forza d’impatto di cui sono capaci Tom Araya & Co., l’unica band che dagli esordi ad oggi non ha spostato di un millimetro il proprio letale raggio d’azione, e che trova la sua massima potenza proprio on stage. Anche se in azione durante il giorno, sprovvisti del light-equipment e della giusta partecipazione delle tenebre, gli Slayer non hanno fatto prigionieri, non hanno lasciato scampo, ogni residua resistenza è stata spazzata via con precisione chirurgica e crudeltà d’altri tempi. ‘South Of Heaven’ ha fatto scattare l’allarme, il coprifuoco è iniziato… Il pit è stato preso di mira da pogatori di comprovata abilità e i cori si sono sprecati… Le transenne sono saltate via e ci è voluto il supplemento, nuovi tralicci d’acciaio hanno fatto il loro ingresso nello Stadio, ma la furia non si è placata, non ha avuto sosta e più volte Araya ha ghignato soddisfatto, anche se qualche volta si è visto costretto a calmare gli animi sottopalco. Una girandola di vecchi e nuovi classici, infarciti qua e là degli anthems punk che compongono il nuovo disco (una bordata fonica ‘Can’t Stand You’!), da ‘Captor Of Sin’ a ‘Kill Again’, da ‘Hell Awaits’ a ‘The Antichrist’, da ‘Chemical Warfare’ alla parossistica ‘Reign In Blood’, a ‘Mandatory Suicide’. Un Araya quasi buffo con i bermuda, ma la rabbia con cui ha comandato lo show non ha ammesso osservazioni, né dubbi: è lui il Capo dell’Apocalisse, affiancato da un Kerry King in forma smagliante anche se poco ricettivo nei confronti dell’audience, dal gelido Hanneman e dal nuovo arrivato, l’ex Testament John Dette, uno spilungone che ci ha dato dentro come un forsennato per non sfigurare di fronte ai suoi nuovi fans. Certo, Dave Lombardo era di un altro pianeta, e lo sappiamo; Paul Bostaph un bel peperino pure lui dietro le pelli, ma Dette ha mostrato di saperci fare, anche nel confronto con i suoi illustri predecessori. Con che pezzo hanno chiuso? Ma con ‘Angel Of Death’, che domande… Una performance più che buona da parte gli Slayer, che forse stanno giocando un po’ troppo a fare i personaggi e a non considerare più di tanto i fans, mi riferisco alla coppia Hanneman-King a cui forse duole il braccio a fare un saluto a coloro che la osannano. Meno male che Araya è sempre disponibile… Nel frattempo vengo a sapere di una sfida a calcetto fra i Paradise Lost e i Sepultura consumatasi nei sotterranei dell’Olimpico e che ha visto prevalere l’estro sudamericano dei paulisti sul pragmatismo e sulla prevedibilità britannica, con Igor Cavalera goleador supportato dall’assist-man Andreas Kisser. C’è relax in casa Sepultura, grande gioia e soddisfazione per questa data di Roma, perché Max e Igor ci tenevano moltissimo a suonare qui, in quanto la Città Eterna fa parte della loro infanzia, dove qualche volta il padre Graziano (di Gaeta) li portava a visitare i suoi luoghi d’origine. Un ricordo a cui i fratelli Cavalera sono particolarmente legati, anche perché il loro papà è scomparso alcuni anni fa… E poi ci sono i risvolti calcistici della cosa: da grandi appassionati di calcio, i Sepultura si sono rivelati emozionatissimi nel suonare all’Olimpico, dove Falcao e Cerezo hanno dettato legge, dove ancora oggi si distingue il nazionale brasiliano Aldair. Forse sarebbero rimasti volentieri aspettando il campionato di Serie A, per ammirare una cannonata di Beppe Signori o un diagonale di Abel Balbo. O magari, se fossero arrivati in anticipo, si sarebbero goduti in Tribuna Tevere la finale di Champions League tra Juventus e Ajax… L’Olimpico evoca dei ricordi piacevoli di sfide leggendarie, ai Sepultura. A cui magari sarebbe piaciuto fare quattro tiri in campo, ma guai a chi ci prova: il manto erboso dello Stadio è tabù per chiunque non faccia il calciatore di professione. Chi invece aveva velleità calcistiche era Kerry King, che pensava di potersene andare a passeggio per il campo beato e tranquillo, ma il fatidico quarto uomo, un attimo prima che potesse poggiare il piede sull’erba sacra, lo ha prima ammonito e poi espulso, cacciandolo anzitempo negli spogliatoi, stralunato e in cerca della verità.

Scocca quindi per i Sepultura l’ora della verità, desiderosi come non mai di affrontare l’audience. Ad aprire le ostilità è stato il turno di ‘Roots Bloody Roots’, brano-simbolo dell’ultimo ‘Roots’, ovvero come evolversi intelligentemente senza snaturare la propria aggressività. Sotto il palco una vera e propria bolgia ha rischiato di compromettere l’incolumità di fotografi e addetti ai lavori, una massa umana in movimento che fagocitava ogni ostacolo, ogni barriera che si intrometteva nel flusso d’energia! Già da lì si è capito chi sarebbe stato il trionfatore del festival, quello che avrebbe sbaragliato la concorrenza. ‘Spit’, ‘Troops Of Doom’, ‘Ambush’, ‘Territory’, tappe obbligate nella setlist dei boys from Brazil che non hanno risparmiato una singola stilla di sudore, pur di conquistare i favori di una platea tanto ambita come quella romana. ‘Arise’, ‘Ratamahatta’, un’insolita ‘Bio-Tech Is Godzilla’ in versione bluesy, una veemenza incontrollabile, una coesione tra le parti davvero invidiabile (la sezione ritmica Paulo Jr.-Igor Cavalera è semplicemente perfetta e collaudata come poche), Max che ha straziato la sua ugola e ha officiato la comunione fra band e fans, non due cose separate, bensì una singola unità che si è cementata pezzo dopo pezzo. Poche volte ho assistito a concerti così intensi, così speciali; poche formazioni hanno la capacità così innata nell’imporsi su tutto e tutti, senza mai essere ripetitivi, banali. Questi sono oggi i Sepultura, a mio avviso il complesso che in ambito metal è vicinissimo alla perfezione assoluta, non vedo cosa manchi loro per potersi fregiare di questo titolo. Se gli Slayer hanno fatto 50, i Seps sono almeno a 100; tocca ammetterlo, gli allievi hanno superato i maestri.

A questo punto è sorto spontaneo il dubbio: e dopo un’esibizione come quella dei brasiliani, come se la caverà Iggy Pop? Ma l’iguana è troppo scaltra per cadere in trappola, e con il suo spettacolo ha lasciato tutti di stucco. Innanzitutto, l’ex Stooges ha affrontato a viso aperto una platea a dire il vero poco avvezza al suo stile, ma che ha riconosciuto subito la sfrontatezza del quasi cinquantenne originario del Michigan. Fra invettive, vaffanculo distribuiti in dosi abbondanti, ammiccamenti sessuali e contorsioni degne proprio dell’iguana di razza, James Osterberg, in arte Iggy Pop, ha sfidato così il pubblico, che, di fronte a tanta spregiudicatezza, si è schierato dalla sua parte, lasciandosi colpire dalle granitiche ‘Raw Power’, ‘Search And Destroy’, ‘I Wanna Be Your Dog’, ‘Passenger’, dall’irrequietezza di ‘Lust For Life’, dai ritmi accattivanti e taglienti di ‘Home’ e ‘Pussy Walk’. Iggy Pop ne ha fatte di tutti i colori, si è buttato in mezzo al pubblico, ha scaraventato giù dal palco casse e monitor, ha strappato questo e quello, un autentico vandalo, un monello che ha perso la sua carta d’identità e non vuole far nulla per ritrovarla. Un fascio di nervi e muscoli che ha fatto la Storia del rock’n’roll più oltranzista e fuori dagli schemi. Con la sua dirompente personalità, l’ex Stooges ha fatto svanire l’apporto dei quattro musicisti che l’accompagnavano, ha tirato la carretta da solo, se fossero stati presenti gli Who li avrebbe fatti sbiancare, per l’indole distruttrice che ha mostrato. E anche la gente, sebbene non conoscesse appieno le gesta di Iggy Pop, non ha potuto fare altro che rimanerne contagiata, incuriosita su come potesse un signore di mezzo secolo di età sprigionare un’energia così vitale e oltraggiosa. Non c’è trucco, dice Iggy, il merito è tutto del rock’n’roll… Che i Pistols usano per gabbare i punksters dell’ultima ora… La maratona si stava per concludere, l’umidità notturna era il nemico da cui difendersi.

Per un buon quarto d’ora è girata voce che Johnny Rotten & soci sarebbero arrivati in limousine fino alla scaletta del palco, tanto per ribadire che è meglio sfottere tutti, ma proprio tutti. Come è stato strano attendere i Sex Pistols, avevo l’impressione che forse era una truffa nella truffa, che non si sarebbero fatti vedere, Glen Matlock, Paul Cook, Steve Jones e Johnny Rotten; oltremanica la formazione ha surriscaldato gli animi di nostalgici e curiosi di fresca militanza, ha trascinato a Finsbury Park oltre 30.000 persone, vale a dire riunire in un colpo solo quanti erano andati a vederli all’epoca, nei loro tre anni scarsi di attività! Quattro incapaci a suonare che misero nel sacco la EMI prima e la Virgin poi, autori di una discografia che comprende un solo album (‘Never Mind The Bollocks: Here’s Sex Pistols!’) e una sterminata collezione di raccolte e ristampe. Manovrati da quella volpe di Malcolm McLaren, i nostri seppero fare bene i propri conti, poco importa se poi ci scappò anche il morto, quell’imbecille di Sid Vicious che disse addio con una siringa piantata in vena. Ebbero un grande merito, e con essi tutto il punk mouvement inglese, furono in grado di riportare freschezza ed irriverenza, divertimento ed eccessi all’interno del rock britannico ed europeo in generale, rimasto ancorato ai pedissequi schemi prog di Yes e Genesis, solo per fare due nomi. Ma eccoli nuovamente in scena, Rotten abbigliato da schizzato frequentatore di college e con un’acconciatura di capelli che tanto lo fa sembrare un istrice in calore, gli altri se ne stanno in disparte e lasciano che sia lui il burattinaio della serata. ‘Bodies’ e ‘Seventeen’ hanno l’effetto di un detonatore e la gente si sfoga come vuole, sputando a destra e manca e scambiando il palco per un bersaglio, bottiglie ovunque… Rotten ferma tutto e impone lo stop ai cecchini, altrimenti aria! Urla, strepita, dice che non vuole essere la vittima, ma l’artiglieria carica nuovamente. Il concerto sta per saltare, e la formazione sembra essersi specializzata nell’abbandono dei palchi (in Olanda hanno sospeso lo show dopo soli 4 minuti!), tanto che interviene anche il capo della Barley Arts Claudio Trotta per sedare gli animi. Forse è la volta buona, ma si vede lontano un miglio che l’allucinato frontman ne ha già le scatole piene e vorrebbe levar le tende. Una manciata di brani, tra cui ‘No Feelings’, l’osannatissima ‘God Save The Queen’, ‘Stepping Stone’, ‘Submission’, ‘Holidays In The Sun’, che fila come un treno e la netta sensazione che siamo già in dirittura d’arrivo. Prendiamo atto che i Sex Pistols non sono altro che Johnny Rotten, a dire il vero formidabile per la sua mimica, per la sua gestualità on stage, senza lui sarebbe un altro paio di maniche. Ammettiamo anche che Cook, Matlock e Jones, dopo tanti anni, sembrano aver maggior confidenza con gli strumenti. ‘Pretty Vacant’, ‘EMI’, ‘Anarchy In The U.K.’… Stop! Lo show è finito (meno di un’ora), passate alla cassa, grazie! La maggioranza del pubblico, a sentire i commenti, è rimasto a dir poco deluso dalla poca durata dello spettacolo e dall’insofferenza mostrata da Rotten: ma non era lui che insegnava oltraggio a tutti i costi? È un po’ tardi per lamentarsi…

FOTO DI ROBERTO VILLANI

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