The True Mayhem + Mortiis @Orion Club (Roma), 7 maggio 2022

Il 10/05/2022, di .

The True Mayhem + Mortiis @Orion Club (Roma), 7 maggio 2022

Per bypassare una lenta agonia sui mezzi pubblici romani, ho accettato con gratitudine lo strappo fino all’Orion da un collega che doveva passare per Ciampino, pena l’unico inconveniente di arrivare sul posto con oltre due ore d’anticipo dall’orario indicato sulla pagina Facebook. Ciononostante, già intorno alle 19, le geometrie sbiadite della cittadina alle porte della Capitale brulicano di magliette nere decorate con loghi che riassumono le ultime tre decadi di musica estrema. Per ovvie ragioni l’epicentro di tutti questi movimenti – in larga parte, approvvigionamenti alcolici – è lo spazio live che, a breve, avrebbe ospitato la tappa romana, dopo quella di Bari il venerdì precedente, del Northern Ritual Tour di coloro che, senza margini di dissenso, sono considerati i Padri Pellegrini del Black Norvegese.
Non sembra il classico sabato di Maggio: il cielo è di un pallore cianotico che, a sprazzi, sputa la stessa pioggia tiepida che da giorni tartassa Roma e dintorni, la temperatura è più autunnale che primaverile, a momenti un vento ostico riesce a strappare anche le foglie più giovani. Perciò, niente di strano, se all’apertura dei cancelli, buona parte del pubblico coglie l’occasione per riparare all’interno.

Gravestone

Salgono sul palco che fuori c’è ancora luce. l’idea che arriva gli spalti è che i sei componenti siano stati sistemati negli spazi ritagliati tra le scenografie dei gruppi successivi un po’ come degli scatoloni tra mobili coperti in vista di liberare l’appartamento con media urgenza. L’ultima volta che li vidi è stato in apertura allo show per i trent’anni di carriera dei Marduk lo scorso novembre. Oggi ritrovo la stessa compattezza negli incastri tra i molteplici elementi: ritmiche serrate, soli dal sapore Made In Goteborg, le vocals in growl di Simona Guerrini, le partiture tastieristiche, che in sostanza guidano la peculiare formula stilistica del loro Melodeath.

Mortiis

Setlist:
A Dark Horizon pt.I, pt.II, pt.III, pt.IV, pt.V, pt.VI
Visions of an Ancient Future pt.I, pt.II, pt.III, pt.IV, pt.V, pt.VI, pt VII

Liberato il palco, vengono sollevati i primi teli mettendo a nudo la strumentazione essenziale deputata alla prima vera sorpresa della serata. Mortiis, all’anagrafe Harvard Ellefsen, a beneficio di tutti coloro che hanno iniziato ad ascoltare black dagli Uada in poi, è stato ex bassista degli Emperor prima di Tchort, però noto soprattutto per le pubblicazioni ambient/darkwave che ne segnano la seconda fase della carriera.
Prima di procedere è doveroso ammettere, col capo cosparso di cenere, di aver sempre snobbato la produzione solista di Ellefsen, in favore di gusti più ortodossi. Forse è per questo che, fin dalle prime note sgusciate fuori come serpenti neri dai tasti del sintetizzatore, ho accusato l’impatto con la materia sonora proposta dall’autore norvegese con il riverbero traumatico dell’illuminazione, unità ad uno tsunami di sensi di colpa per la povertà di orizzonti delle mie vedute musicali tardo adolescenti.
In circa venticinque anni passati a bazzicare il giro dei concerti nella Capitale penso di aver imparato a conoscere abbastanza bene lo stile del pubblico metal romano, diciamo per nulla avvezzo ai giri di parole. Pertanto, nelle ore antecedenti allo show, giocavo a immaginare tutte le possibili combinazioni di appellativi fantasiosi con cui sarebbe stata accolta l’esibizione del personaggio dalle oscure fattezze elfiche, nell’insofferenza generale dell’attesa per gli headliners. Nulla del genere. Al contrario, ho avuto la sensazione che molti degli spettatori abbiano condiviso la piccola epifania musicale, che nel giro di poche note ha spazzato tutti i dubbi sul merito di oneri/onori dati dall’aprire per i Mayhem. Se, durante i Gravestone, 2/3 del pubblico ancora orbitava nel limbo delineato dal bancone del bar al cortile, ecco che si iniziano ad addensare le prime file sotto al palco, come i ratti richiamati dal pifferaio di Hamelin, tutti in silenzio religioso, catturati nelle spirali ossessive dei synth. Esperienza onirica, complici le luci acide che si alternavano sulla maschera da elfo scuro. Dapprima in solitaria, poi affiancato dalle percussioni, Ellefsen tiene il timone con compostezza straniante, per tutta la discesa per strati nelle dimensioni sotterranee descritte nel full lenght ‘Spirit of Rebellion’ del 2020, strutturata su numerose variazioni degli stessi motivi riproposti con cadenza ipnotica, farciti di quelle suggestioni epiche care ai primi lavori ambient.

The True Mayhem

Setlist:
Falsified and Hated
To Daimonion
Malum
Bad Blood
My Death
Symbols of Bloodswords
Voces Ab Alta
Freezing Moon
Pagan Fears
Life Eternal
Buried by Time and Dust
Deathcrush
Chainsaw Gutsfuck
Pure Fucking Armageddon

Stesso posto. Stessa ora. Cinque anni fa’, nell’ottobre 2017, ero all’Orion in occasione del live celebrativo dei trent’anni di carriera, in cui i Mayhem, spalleggiati dai Dragged Into Sunlight, riproponevano per intero le otto gemme nere di ‘De Mysteriis Dom Sathanas’ del ’94. Se dovessi separare l’esperienza da tutto il substrato emotivo di adorazione liturgica per i tuoi eroi musicali di sempre, ci sarebbe da sottolineare che forse il prezzo dei biglietti era un po’ esagerato per quaranta minuti scarsi di live (i DIS di fatto avevano suonato parecchio di più con un muro di suono che aveva fatto tremare i pilastri del locale), di cui la prima metà penalizzata da alcuni difetti di resa del suono che sono costati svariate sentenze di morte dal pubblico, precedute da variegate proposte di abusi e torture, all’indirizzo del fonico. Fatto sta che, fino alla pausa prima della seconda metà del concerto, la voce di Attila Csihar era in pratica azzerata, in compenso il pubblico urlava a memoria le strofe, a dimostrazione di quanto quei testi siano avviluppati attorno al DNA di intere generazioni di devoti.
Conclusa l’esibizione, Mortiis si congeda dalle acclamazioni con un sommesso ‘Thank you’ prima di lasciare il posto al lavorio incessante per allestire le scenografie, operazione che in realtà non si chiuderà con l’inizio dell’esibizione ma proseguirà per più fasi durante la scaletta complessiva. Approfitto dell’ultima mezz’ora di illuminazione per notare quante fasce anagrafiche siano radunate sotto lo stesso palco: dalle barbe grigie fino a facce che, di barbe, sono ancora sprovviste. Intanto sul palco compaiono stendardi con immagini di serpenti e riproduzioni del logo ufficiale della band, ai lati della batteria ingabbiata entro i sostegni per le due grosse croci rovesciate ai lati, che in parte finiranno per occultare l’ingresso del batterista Spektre, in prestito dai Wyrd, in sostituzione di Hellhamme solo per la data di Roma.
Calano le luci, salgono i fumi. Silenzio generale, prima dell’intro che accompagna l’entrata in scena dei due chitarristi, Teloch e Ghul, seguiti da Necrobutcher, per ultima la figura incappucciata di Attila Csihar. Una lamia nera tra le luci rosse sul palco. Attaccano con ‘Falsified and Hated’ il cui clip promozionale anticipava l’uscita dell’ultimo full lenght ‘Daemon’ nell’autunno 2019. A tutti gli effetti il loro ‘De Mysteriis Dom Sathanas’ 2.0. Aggressiva, veloce, atmosferica, in altre parole la perfetta sintesi dello stato dell’arte del Black Metal del Terzo Millennio. Se 5 anni fa’ l’esibizione risentì dei sopracitati intoppi nella regolazione dei volumi – a parte Attila silenziato, il basso di Necrobutcher, a confronto dello show dei Dragged Into Sunlight, suonava come una manciata di mosche dopo il passaggio di un carrarmato – oggi l’acustica rende giustizia alla totalità dei componenti: gli intrecci di chitarre sono ben nitidi, il basso pesta duro in sella al blast di Spektre, la performance vocale di Attila spicca in tutta l’aliena magnificenza cui ci ha abituato negli anni. Ogni urlo sembra lacerare il tessuto stesso della realtà aprendo squarci verso mondi inumani. Segue ‘To Daimonion’  recuperata da ‘Grand Declaration of War’ del 2000, registrato con Maniac al microfono. Sarà il carisma bestiale dell’attuale frontman ma, in sede live, il brano riguadagna quella forza motrice che su disco tendeva a sfaldarsi tra le sue controverse derive sperimentali. Il resto della scaletta pesca in larga misura dal repertorio che va da ‘Daemon’ (altri tre brani) fino all’EP ‘Wolf Liar’s Abyss’ con ‘Symbols of Bloodswords’ del ’97, passando per ‘Chimera’ con la cadenzata marcia funebre di ‘My death’. L’impressione generale è che, in sede live, la band abbia voluto dissotterrare i reperti più ispirati dell’era Maniac (in verità il vocalist storico della primissima produzione della band), all’epoca forse un po’ sottovalutati sulla scia del lutto per l’allora divorzio da Attila Csihar.
Fine primo atto. Durante la breve pausa che segue, sul palco, si vedono trasportare scheletri vestiti con sai laceri. Le funeree volute nebbiose di fumi azzurro pallido preludono allo zenit dello show. Al loro ritorno parte l’arpeggio iniziale di ‘Freezing Moon’, al che basta questo per sollevare in estasi il pubblico. Il segmento centrale dell’esibizione riporta la band all’apice della loro produzione con 4 brani – in pratica metà disco – dal debutto ‘DMDS’ datato 1994. Come avvenne nel 2017 gli spettatori riecheggiano i testi che, per i più vecchi, hanno accompagnato le traversate stigee dall’adolescenza all’età adulta.
Passate le 23 e 30 i Mayhem si ritirano nel backstage. Per un po’ serpeggia il timore che sia finita qui. Però poi i riflettori tornano a puntare il palco. Dismessi cappe e mantelline, i Mayhem tornano in scena alla luce cruda dei fasci bianchi, che fanno brillare le borchie e i gilet di pelle. Come desumibile dall’outfit punk prosegue il viaggio a ritroso nel tempo fino alla fase embrionale della loro discografia. Dai primi 90s agli ultimi sbrindellati lembi degli 80s. ‘Deathcrush’ si abbatte fino agli spalti come un’Hiroshima&Nagasaki in miniatura. Dopo la parentesi atmosferica di DTMS (fatta eccezione per ‘Buried by Time&Dust’ la scaletta ha prediletto i mid tempos dell’album), si sale d’intensità in prossimità della conclusione. L’ultimo atto si consuma 15 minuti scarsi di black insudiciato di thrash, culminato con ‘Pure Fucking Armageddon’ dal primissimo demo dell’86. Dileguati i fumi, le luci tornano a illuminare la sala. Volano plettri, Necrobutcher disegna cuoricini con le dita, Attila asciuga il sudore, inquinato da litri di corpsepaint, con i fogli della scaletta prima di gettare le sue Sindoni di carta alle dita voraci del pubblico.

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