Metallica – Triello per ’72 Seasons’

Il 19/04/2023, di .

Gruppo: Metallica

Titolo Album: 72 Seasons

Genere:

Durata: 77 min.

Etichetta: Blackened Recordings

Distributore: Universal Music Enterprises

70

Sette anni dopo ‘Hardwired… To Self-Destruct’ il quartetto di San Francisco è tornato con un nuovo album in studio, l’undicesimo della sua carriera, che siamo sicuri dividerà i fruitori di tutto il globo, com’è logico aspettarsi ad ogni uscita che presenti il nome di quella band in copertina. Pure da noi, in redazione, si è discusso in merito, anzi lo si sta ancora facendo, ma prima che qualcuno ci possa lasciare la pelle, si è giustamente optato per un triello. In che senso? Nel senso che abbiamo voluto regalarvi non una, neanche due, bensì tre recensioni! Non abbiamo resistito, cari lettori, d’altronde il logo Metallica è troppo gargantuesco per lasciare ad uno solo di noi l’arduo compito di dire la sua. Largo quindi alle parole ed ai voti dei nostri Gianfranco Monese, Dario Cattaneo e Francesco Faniello. Buona lettura!

Ah, un nuovo album dei Metallica, (forse) la più grande heavy metal band del pianeta, che dall’omonimo disco datato 1991 non è mai riuscita ad accontentare tutti. Perchè? Molto semplice: perchè se si è sperimentato (ricordate quanto prodotto nel biennio ’96/’97?) si è prontamente gridato al tradimento, mentre se si è tornati a fare quello con cui si erano abituati i fan negli anni Ottanta (da ‘Death Magnetic’ [2008] in poi), ecco che si è trattato della solita minestra riscaldata, decisamente più buona tempo addietro. Impossibile trovare tutti d’accordo se si è i più grandi di sempre, soprattutto se sprovvisti di quell’aurea di “simpatia” che sembrerebbero avere gli Iron Maiden, ai quali viene sempre perdonato tutto, persino un disco decisamente bastevole come ‘Senjutsu’ (2021). Chiusa questa parentesi, è doveroso inoltrarsi nei meandri di questo undicesimo disco in studio, e alla tagliente titletrack posta in apertura, che fa capire come, a quarant’anni da ‘Kill ‘Em All’, le basi “vecchia scuola” della band siano sempre quelle; tra accelerate e rallentamenti Ulrich è accorto mentre Hetfield è rabbioso, e i due assoli di Hammett (02:54 e 05:01), seppur diversi tra loro, sono ben amalgamati al suo interno, rendendo gli abbondanti sette minuti di durata non così eccessivi. ‘Shadows Follow’ mescola molto del materiale passato, da un’intro che sembra leggermente scopiazzata da ‘Frantic’ a quel groove caro a ‘Death Magnetic’ (‘That Was Just Your Life’), ma assoli di Hammett a parte, che richiamano al periodo dell’omonimo disco della band, ad ascolto terminato è apparso un brano lineare, dal quale si attende con ansia quello sfogo, quel balzo che, ahimè, non arriva. Dinamiche NWOBHM, da cui Hetfield e Ulrich presero spunto quarant’anni fa, tornano vivide in ‘Screaming Suicide’, assolo di Hammett compreso, al termine del quale un tenebroso crescendo porta ad un più che dignitoso finale. Nonostante un inizio promettente grazie al tonante basso di Trujillo, più si prosegue nell’ascolto della cadenzata ‘Sleepwalk My Life Away’, più si fa nitida la sensazione che, se fosse durata meno, avrebbe invogliato di più. Personalmente, è una canzone senza mordente, forse (anche) a causa dei suoi sette minuti scarsi, nei quali ombre di episodi scadenti tratti dal personalmente apprezzato ‘Load’ (1996) come ‘2 X 4’, si sono purtroppo riaffacciate. Con ‘You Must Burn’ sembra che un doom Black sabbathiano si mescoli a soluzioni già riscontrate nei tre dischi di inediti sfornati negli anni Novanta, mentre a quasi cinque mesi dalla sua uscita, il primo singolo estratto ‘Lux Æterna’ resta tra i più convincenti del lotto, per l’unione di una formula che, in tutta la sua velocità, non guarda in faccia nessuno, ed il saper ottimizzare il tutto in una durata non eccessiva (neanche tre minuti e mezzo). L’ispirazione alla NWOBHM, così come al periodo ‘Garage Days Re-Revisited’ (1987) è scontata, e la furia di Hetfield alla voce così come di Hammett alla sei corde non concede respiro, rendendo l’impatto imminente: oggigiorno, uno dei pochi singoli a non essere per nulla banali nonostante, o grazie, al suo breve minutaggio. ‘Crown Of Barbed Wire’ e ‘If Darkness Had A Son’ sono pezzi cadenzati, midtempo, per questo poco incisivi e alla lunga prevedibili: peccato, perchè gli assoli carichi di groove di Hammett avrebbero meritato ben altra giustizia. Nel mezzo, ‘Chasing Light’ appare più genuina e schietta, tra riff energici e ritornelli memorabili: è forse il pezzo del lotto che meglio unisce il groove della band ripreso da ‘Death Magnetic’ in poi, con la vecchia scuola. Anche ‘Too Far Gone?’ cresce e convince ascolto dopo ascolto; tutto è ben condensato in una durata perfetta (04:34), Hetfield aggredisce il microfono senza remore, mentre il resto della band non conosce tentennamenti. Nulla da dire: quando ci si ricorda di tornare indietro nel tempo, e si ha l’esperienza per farlo, questo è il risultato. Con la distintiva ‘Room Of Mirrors’ ci sembra di ritornare al materiale coverizzato in ‘Garage Inc.’ (1998) e a quello spirito già riscontrato in band come Mercyful Fate, mentre l’assolo di Hammett è semplicemente il migliore di ’72 Seasons’, che termina con ‘Inamorata’, la quale sia per soluzioni strumentali così come la sua durata (11:10) non può che rimandare a ‘Outlaw Torn’ e ‘Fixxxer’, episodi conclusivi di ‘Load’ e ‘ReLoad’ (’96/’97). Poco dopo il quinto minuto, infatti, come da aspettative ecco arrivare quel cambio di registro, con l’insinuarsi di una sentita e mesta introspezione, a cui segue un duetto di chitarre cugino di quello posto su ‘My Friend Of Misery’: le intenzioni ci sarebbero tutte, è la durata che rischia di stancare.
In conclusione, come altre band che hanno avuto fama e successo quarant’anni fa, nonostante l’età i quattro di San Francisco proseguono con dignità un percorso discografico sicuramente onesto iniziato quindici anni fa con ‘Death Magnetic’. ’72 Seasons’ ha il difetto di presentare una parte centrale midtempo altalenante e intuibile, ma a quanto pare necessaria per gli odierni Metallica. Non è un capolavoro, ma nemmeno un disco grossolano: sta semplicemente nel mezzo, come i suoi due predecessori. Poi a voi potrà piacere l’ineccepibile materiale pre Black Album, oppure le successive divagazioni: ascoltate quello che preferite, ma per cortesia, smettetela di puntare (nuovamente) il dito contro quanto quattro sessantenni riescono ancora a regalarvi. Perchè quando si ritireranno dalla scena, vi posso assicurare che ne sentirete la mancanza.

Gianfranco Monese (voto 72)

 

 

Inutile girarci intorno: un nuovo album dei Metallica è sempre simile a un grossissimo circo itinerante. Non perché ci siano gli animali o perché i quattro di Frisco siano o vestano da pagliacci; più che altro lo diciamo per tutto quello che l’uscita in se si porta dietro. Mesi prima, la prima fase: news e squillanti annunci in cui viene fatto vedere il terzo pixel in alto a sinistra del retro di copertina, poi largo spazio a dichiarazioni deliranti di Hammett sul fatto che hanno registrato finora 64231 riff o pezzi di assolo. Poi cominciano ad arrivare i video dei ‘singoli’… fino a che praticamente l’intero album non ha almeno un video per canzone. E il tutto condito da un numero di commenti tra il nostalgico, il terrorizzato e l’imbestialito di tutto il popolo metallico, che nel totale solo inferiori solo al sopracitato numero di riff incisi da Hammett per il disco. Ma in tutta questa pachidermica mole di comunicati, dichiarazioni, commenti, copertine gialle e brani lunghi e interminabili… l’aspetto musicale quale è? Ne è rimasto qualcosa? Difficile da dire, in realtà, anche se si sta parlando di un album per l’appunto musicale. Troppe sono le scorie, i rimasugli, le domande che rimangono attaccati alla struttura più intima di un album dei Metallica. Si sente ancora qualcosa di ‘Master’? Le ritmiche ricordano ‘Justice’? Si respira ancora il “tradimento” dei due ‘Load’? Fa cagare come ‘St. Anger’? Niente, senza togliersi dalla mente tutti questi interrogativi, è difficile (almeno lo è per me) capire il valore di questo album. E non solo il valore assoluto – variabile sicuramente di difficile reperibilità – ma anche quello relativo, comparato cioè almeno alle uscite più recenti. E’ più bello di ‘Hardwired’? Più brutto? Per quanto mi riguarda posso dire che ho trovato un album più a fuoco rispetto ad ‘Hardwired… to Self Destruct’ anche se con meno picchi memorabili; ma che per adesso non mi ha convinto quanto il buono ‘Death Magnetic’.  ’72 Season’ è infatti sicuramente meno lungo del precedente (vabbeh, un disco contro due…) e ha l’innegabile vantaggio di accumulare una quantità di zavorra decisamente più bassa: in pratica gli manca l’intero secondo disco dell’uscita precedente, cinque pezzi su sei di cui avremmo fatto tranquillamente a meno. Però tra questi dodici brani non abbiamo ancora trovato un’altra ‘Atlas, Rise!’, il nostro brano preferito dell’ultimo corso, e nemmeno qualcosa di adrenalinico come ‘Spit Out the Bone’. Ci sono invece un manipolo di brani convincenti e di facile assimilazione, perfettamente inquadrati nell’attuale corso dei quattro di Frisco (‘Shadows Fall’, ’Room of Mirrors’ o la title-track); e c’è anche qualche brano che pur non provando nemmeno a rinverdire i fasti di un sound oramai scomparso da tempo almeno lo richiamano con un po’ di freschezza come succede con alcune sonorità speed e NWOBHM riproposte con ‘Lux Æterna’ o ‘Screaming Suicide’. Non troviamo niente di memorabile, però ci sono canzoni che ci hanno sfidato ad ascoltarle più volte trovando alla fine un divertimento che non pensavamo, ad esempio ‘Crown of Barbed Wire’-  carina – o ‘Chasing Light’, frizzante nelle sue note più hard rock che thrash. Certo, le lungaggini che criticavamo sullo scorso album ancora ci sono, e ‘You Must Burn!’ e ‘If Darkness Had a Son’ sono insalvabili da questo punto di vista, ma almeno non formano una invalicabile muraglia di noia, risultando meglio distribuite nella title-track. Insomma, volendo tirare una somma, potremmo dire che siamo davanti a un ‘Hardwired’ meno dispersivo; una cosa di per sé non malvagia, ma che sarebbe stato meglio fare già sette anni fa. Qualcosa di piacevole insomma –  volendo appunto un po’ più a fuoco –  ma che non molla del tutto i difetti che aveva, e mostra alla fine il fianco alle stesse critiche mosse un po’ a tutti gli album post… beh, post Black Album, potremmo dire. E per il chimerico valore assoluto di cui vi abbiamo parlato prima? Penso che possiamo anche non provare a trarne una descrizione da scrivere in queste righe conclusive, un po’ di coordinate ve le abbiamo già date. ’72 Seasons’ è un album che ci segna i Metallica esattamente come sono oramai dal 2008; cioè una band miliardaria che ha scritto album fondamentali per la storia di un intero genere ma che progredendo con gli altri ha preferito rielaborare soluzioni, attitudine e velocità in altri modi, rimbalzando continuamente tra modi diversi di vedere tutto sommato sempre la stessa cosa. Se quello che ci aspettiamo di trovare qui è il classico sound ‘signature’ della mano destra di Hetfield, le secche rullate di un Lars sempre più aiutato in sede di produzione e una manciata di canzoni da canticchiare in macchina o sulla metro; siamo sui binari giusti, e l’album ce lo possiamo anche godere. Gradevole, come abbiamo detto prima, ma niente che cambi l’immagine che ci siamo fatti della band nell’ultimo ventennio.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Dario Cattaneo (voto 68)

 

Settantadue stagioni, una botta di divisioni e il calcolo è presto fatto: diciotto anni di vita, presumibilmente “i primi” diciotto anni, un percorso formativo dall’importanza inestimabile ma anche una fase della vita irripetibile, a cui non è escluso che Papa James guardi con uno sguardo particolare, ora che le primavere trascorse sono un po’ di più.
Già, stiamo parlando dell’annunciatissimo nuovo disco dei Metallica: inusuale la scelta cromatica di copertina, ma d’altronde abbiamo avuto tempo per assimilarla, in questi tempi di informazioni che corrono a grande velocità, pur sapientemente centellinate da una macchina promozionale ben oliata e a pieni giri, come di consueto. Quella “M” campeggia rassicurante come all’epoca in cui perse i contorni primigeni, ben quarant’anni fa, ben lontana dalle contaminazioni del decennio successivo che si esplicavano anche graficamente, oltre che in musica.
Diciamoci la verità: con un album così, chiunque (critico, appassionato o ascoltatore che sia) il problema se lo pone per via del nome che campeggia in copertina, eppure chi c’è dietro quel nome lavora di proposito affinché il problema venga posto, per così dire. Perché un qualsiasi gruppo esordiente o una vecchia gloria in cerca di rilancio, dinanzi a un episodio furbo come il singolo apripista ‘Lux Æterna’ avrebbe cercato di ritagliare l’intero album in sua funzione, in modo da amplificarne e monetizzarne l’effetto. Loro no: fanno un po’ come gli pare, in una versione della favola della rana e dello scorpione dal finale meno drammatico e dall’esito ancora più remunerativo, se possibile.
Ecco, inizierò col dire che al primo ascolto ’72 Seasons’ mi aveva fatto pensare al tipico disco della senilità disincantata; non vuol dire che in parte non lo sia, ma – come si dice in gergo – se ne intuisce l’essenza (se non il valore) ascolto dopo ascolto. Attenzione, non vi dirò mai che questo è un album imperdibile: la maggior parte di voi potrà vivere benissimo senza, se non siete neanche un po’ curiosi e se vi fa ribrezzo l’idea di allontanare ancor più quell’immagine da epopea giovanile che tutti conosciamo, se abbiamo disegnato sui muri, sui diari, sulle cassette “quel” logo. Eppure, il nuovo album dei Metallica promette di essere uno di quei lavori su cui si tenderà a tornare, per riscoprirne alcune sfaccettature o per decretarne la bocciatura senza remissione, ma questo saranno il tempo e il gusto personale a dirlo. In sé, è già una piccola vittoria dei Quattro, laddove sono sempre di più i dischi “di mestiere” che non vanno oltre la fase iniziale modello “lo ascolto dall’inizio alla fine per giustificare la spesa”.
Certo, le mosse a effetto non mancano, ma sono più sottili di quanto il semplice amatore possa anche solo lontanamente intuire: ad esempio, avete mai fatto caso al fatto che i gruppi iniziano a fare le tipiche opener “nel loro stile” nei momenti di maturità e/o di decadenza? ‘Flesh Storm’, ‘Repentless’, ‘Futureal’, ‘Hardwired’, e ora ’72 Seasons’, che attacca esattamente come l’ordine sbagliato che aveva la mia cassetta di ‘Show No Mercy’, con quella chitarra grattugiosa alla ‘Black Magic’ sottolineata dal charleston che lascia spazio a un connubio blasfemo tra il piglio di ‘Damage Inc.’ e l’incedere gongolante di ‘Ain’t My Bitch’, il tutto guardando solo alla performance vocale di Hetfield; per non parlare di quella riedizione del tritono sabbathiano, il passaggio tra quarta eccedente, quinta e tonica che è ormai diventato un marchio di fabbrica dei Four Horsemen almeno dall’epoca di ‘That Was Just Your Life’.
Ora, vi sembrerà che io sia pronto a metter mano al panegirico, ma così non è: però devo dare a Cesare quel che è di Cesare, e non posso negare che una parte consistente di questa sporca dozzina di tracce si pianti maledettamente in testa e riemerga nei momenti più indesiderati, un po’ come fa il crescendo di ‘Carpe Diem Baby’ (e non solo a me, siate sinceri). Insomma, i momenti costruiti per sollecitare la simpatia non mancano: la secca apertura di ‘Shadows Follow’ che rimanda a un ponte ideale tra ‘Justice’ e il ‘Black Album’, per una track che non può che starmi simpatica. E poi, come non amare ‘Screaming Suicide’ e il suo richiamo ad arte a Sua Maestà Ritchie “fucking” Blackmore (il virgolettato è di Lars, ovviamente)? E non parlo solo del lick di ‘Speed King’, quanto di un mood generale che deriva direttamente da quelle session che hanno prodotto il tributo a ‘When A Blind Man Cries’ e di cui il riccioluto Kirk va così fiero, quando devo attaccarsi alle radici del blues.
Tanto per gradire, c’è inoltre quell’incedere in stile cowboy sbronzo di ‘You Must Burn!’ che ha tutta l’aria di uno di quei flashback a cui è avvezzo il protagonista di ‘One’; va detto che le similitudini non si fermano qui, perché il lavoro di lead guitar (tanto criticato e non sempre a torto) ci rimanda direttamente all’88. In una sua versione semplificata e riacconciata a arte, certo; ma non è forse questa la contemporaneità, a partire dall’interpretazione che ne danno Eddie Munson o Hunter Sylvester?
E la cartina di tornasole è sempre lì, nella scheggia ‘Lux Æterna’ citata in apertura, che ha il merito di rinnovare potenzialmente ancora una volta l’interesse del vasto pubblico per le radici della NWOBHM, e al contempo per le origini di un mito che ancora una volta celebra – prima di ogni altra cosa – se stesso. D’altronde, non è forse vero che tra le altre cose i Metallica sono la migliore cover band del mondo? Un effetto diretto di quando si ha personalità da vendere, al di là dei gusti, delle mode, della ricezione e di qualsivoglia punto di vista. Critico o di approvazione che sia.

                                                                                                                                                                                                                                                                                             Francesco Faniello (voto 70)

 

 

Tracklist

01. 72 Seasons
02. Shadows Follow
03. Screaming Suicide
04. Sleepwalk My Life Away
05. You Must Burn!
06. Lux Æterna
07. Crown Of Barbed Wire
08. Chasing Light
09. If Darkness Had A Son
10. Too Far Gone?
11. Room Of Mirrors
12. Inamorata

Lineup

James Hetfield: vocals, rhythm guitar
Lars Ulrich: drums
Kirk Hammett: lead guitar
Robert Trujillo: bass