Chris Cornell – In Memory Of

Il 18/05/2017, di .

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Chris Cornell – In Memory Of

Preambolo di Stefano Giorgianni

Così se n’è andato anche lui, sottovoce, in punta di piedi… troppo silenziosamente a dispetto di quella grande e dirompente voce che gli era stata donata. Ed è successo un’altra volta, di svegliarsi al mattino e vedersi sbattuta davanti la notizia della morte di un gigante. Ogni volta che uno come lui se ne va, muore un pezzo importante della musica, come se il cuore del rock avesse messo di pompare. È già successo tante, troppe volte in questi mesi. Dal 2015 abbiamo visto scomparire molti dei personaggi più rappresentativi del genere che amiamo, Lemmy in testa. E, anche se può sembrare strano o blasfemo, quando ho ricevuto il messaggio di Alex Ventriglia che mi informava della perdita di Chris Cornell, ho provato quasi le stesse sensazioni di quel maledetto 28 dicembre 2015. Un’altra data però si è subito fissata nella mia mente, il 5 aprile 1994, quando Kurt Cobain ci lasciava in quell’infausta maniera. Ho poi realizzato che con l’ascesa al cielo del leader dei Nirvana, dell’altrettanto compianto Layne Staley e di Cornell, il grunge ha perso tre dei suoi principali personaggi, con Eddie Vedder a guardarsi intorno e a vedersi circondato da un’oscurità impropria.
Chris Cornell era maturato negli ultimi anni, in quella seconda parte di carriera che l’aveva visto alternare progetti di prim’ordine a un percorso solista talvolta riflessivo, talora sin troppo commerciale (com’è stato scritto da molti). ‘Higher Truth’, disco che ho avuto l’onore di recensire, dimostrava però l’accresciuta consapevolezza artistica di una persona che non aveva un freno creativo e se l’avesse avuto era ormai conscio di poterlo lasciare a piacimento, senza preoccuparsi di quel che la gente avrebbe pensato ascoltando le sue sperimentazioni. Ne è prova ‘The Promise’, scritto per il film omonimo che sullo sfondo racconta la tragedia del Genocidio armeno, un pezzo emotivamente travolgente che rimane, in questo momento, il suo testamento musicale.
Una cosa è certa, gli dèi non possono camminare a lungo sul fangoso suolo di questo mondo.

Analisi di un mito di Andrea Schwarz

Nel 2015, in occasione della realizzazione dell’ultimo studio album intitolato ‘Higher Truth’ Chris Cornell asseriva che se ci fosse un avvenimento che lo avesse di fatto cambiato dai primi anni con i Soundgarden fino a quel preciso momento, fu la nascita dei suoi figli aggiungendo che da padre il mondo lo si percepisce attraverso gli occhi dei bambini divorando così ansie del tutto diverse. Aggiungeva, inoltre, che da giovane si ha la percezione che l’illuminazione arrivi con una spettacolare epifania capendo poi che ce l’hai davanti agli occhi: sono loro, i bambini stessi l’illuminazione. Così si impara che niente va secondo i piani e che il segreto è adattarsi alle circostanze, diventando una persona migliore con una comprensione più vasta dell’esistenza. Questi i concetti espressi da Chris Cornell nel lontano 2015 quando pubblicò il proprio disco solista ‘Higher Truth’, oggi queste parole hanno un sapore del tutto diverso, un suono quasi sinistro, malinconico visto che l’artista (così lo potremmo definire, senza retorica alcuna) ci ha lasciato questa mattina all’età di soli 52 anni. Chris Cornell, professione cantante. E per questa volta, concedetemi di essere franco e sincero: nello scrivere queste righe un velo di tristezza mi pervade, quasi come se fosse partito per un lungo viaggio un amico caro, una persona familiare. Ma si sa, non è così perchè chiaramente non eravamo amici io e Chris ma la sua voce ha in qualche modo segnato la mia giovinezza con Soundgarden prima e quella gemma del primo omonimo album dei Temple Of The Dog insieme ad Eddie Vedder ed altri illustri musicisti della scena grunge come Stone Gossard e Jeff Ament dei Pearl Jam, omaggio alla memoria di Andrew Wood dei Mother Love Bone morto nel 1990 per overdose da eroina (curiosità, Jeff Ament e Stone Gossard furono ex componenti degli stessi Mother Love Bone). E questi sentimenti, per quanto possano sembrare un pò strambi e fondamentalmente infantili, sono comuni a tantissime altre persone che sono state colpite dalla voce e dalla musica che Cornell ha sapientemente scritto ed interpretato. Nato e cresciuto in quella Seattle che per l’industria discografica dei primi anni novanta ha rappresentato una vera e propria miniera d’oro con l’esplosione del cosiddetto amato/odiato fenomeno grunge, Cornell non passa un’infanzia felice e spensierata come tanti suoi coetanei dovendo far fronte alla separazione dei propri genitori che gli causò una forte depressione in età adolescenziale.

Certamente una situazione non facile per nessuno, tanto più quando questo accade nell’età critica dell’adolescenza portando le persone a formarsi ed a reagire a questi eventi nelle maniere più disparate. Fortuna sua, essendo tendenzialmente una persona per lo più solitaria, l’incontro con la musica fu terapeutico riuscendo così a curare la sua depressione ed i suoi stati d’ansia immergendosi nell’arte delle sette note. C’è chi lo chiama destino, chi in altri modi ma la sostanza non cambia: ebbe dalla vita lo straordinario dono di avere una voce fuori dal comune, straordinaria, potente ed espressiva allo stesso tempo come pochi altri potevano (e possono) fregiarsi di possedere. In un’altra occasione Chris Cornell dichiarò di aver amato alla follia i Beatles da avere la percezione che ogni sua canzone abbia qualcosa di loro in linea con ‘Pink Moon’ di Nick Drake e ‘Nebraska’ di Bruce Springsteen, album fatti contro tutto e tutti, comprese le logiche del commercio e della discografia, nati da un’esigenza interiore fortissima. Questo è quello che asseriva il buon Chris parlando dei The Beatles che scoprì da adolescente in un vecchio scantinato, eredità dei proprietari della casa dove andò ad abitare dopo la separazione dei genitori, ma probabilmente la profondità delle sue lyrics e delle atmosfere che riusciva a creare con la propria musica erano il frutto di queste diverse esperienze. Chiaramente la band che ha contribuito a far brillare la sua stella sono stati i Soundgarden, fondati nel lontano 1984 insieme ad Hiro Yamamoto al basso, Kim Thayil alla chitarra e Scott Sundquist, con i quali debutta nel mercato discografico nella compilation ‘Deep Six’, dove li troviamo con ben tre brani (‘Heretic’, ‘Tears To Forget’ e ‘All Your Lies’) insieme ad altre bands che di quella scena costituirono negli anni le fondamenta come i Melvins e Skin Yard. Un primo passo che aveva fatto seguito come per tantissimi altri artisti e musicisti a precedenti esperienze in varie ed altrettanto variegate cover band ma il suo talento doveva trovare uno sfogo ben migliore rispetto a quello che, seppur dignitosamente, avrebbe potuto essere limitarsi a delle semplici cover band. E così la strada va avanti, arrivano alcuni EP con i Soundgarden come ‘Screaming Life’ e ‘Fopp’ rispettivamente nel 1987 e 1988 per poi debuttare proprio in quello stesso anno con il primo full lenght album ‘Ultramega Ok’ sotto SST Records al quale solamente l’anno successivo fece seguito ‘Louder Than Love’ prodotto da Terry Date. E fin da subito il loro nome cominciava a circolare negli ambienti underground riscuotendo più che consensi negli USA e pian piano estendendo la propria popolarità in Europa, seppur molto lentamente. Data l’età, ricordo perfettamente le atmosfere che questi due albums, unitamente a ‘Bleach’ dei Nirvana ebbero su un giovane adolescente dalle mille speranze, tutto brillava di una luce diversa, effettivamente in quegli anni ed in quella musica c’era quell’aria ribelle che il rock aveva perso durante i ‘dorati’ e ‘platinati’ anni ottanta. Detto ciò, è con ‘Badmotorfinger’ che i Soundgarden cominciano ad affacciarsi prepotentemente nella musica cosiddetta mainstream, quella popolarità arrivata grazie anche ad MTV che aveva sposato e cavalcato l’esplosione di un movimento che era nato in maniera spontanea e che annoverava altri ensemble come Pearl Jam ed Alice In Chains (oltre a Nirvana) su tutti. Ed il mondo era ai loro piedi tanto da imbarcarsi nel 1992 in un tour insieme ai Faith No More e Guns ‘N Roses che li portò a suonare anche in Italia, a Torino il 27/06/1992…Chris Cornell cantava il suo intimo più profondo in maniera naturale, riusciva in qualche modo ad interagire in maniera semplice e diretta con il mondo attraverso la musica proprio come quando era adolescente.

Il successo arriva alla grande con quell’album che per alcuni è il canto del cigno del grunge, quel ‘Superunknown’ del 1994 vincendo anche due Grammy Award con i singoli ‘Spoonman’ e ‘Black Hole Sun’, quest’ultimo fu un successo planetario che li scaraventò alla ribalta e che, forse, contribuì tre anni più tardi allo scioglimento della band. Cornell ha sostenuto in qualche intervista anche recente che, riascoltando il loro repertorio più datato, questo non fosse più di suo gradimento più che altro concentrandosi sulle sue interpretazioni. A 22 anni, quando il successo arriva, la band diventa l’aspetto più importante facendo tralasciare tutti gli altri aspetti fondamentali della vita e rendendo il musicista vulnerabile, terrorizzato che gli altri possano, anche inavvertitamente, distruggere quello che rappresenta il raggiungimento di un sogno con la paura di perdere tutto e rendendo il musicista (e l’uomo) paranoico. È lì che il musicista americano sosteneva che la vita comincia ad essere stressante, si vivono le situazioni in maniera strana e vivendo malissimo con la grande tentazione di mollare perché non si ha ancora la maturità necessaria per capire che al mondo esterno questo sogno importa quanto per te stesso. Ed è un po’ quello che succede anche nelle nostre vite reali, vite che sembrano distanti anni luce da quelle di rockstar (o presunte tali) che da adolescenti e da adulti fanno sberluccicare i nostri padiglioni auricolari ma che poi, a conti fatti, proprio per questi sentimenti comuni ad ogni persona rendono più ‘umani’ musicisti che tendiamo invece ad idolatrare come dei (pagani). E forse proprio lo scioglimento della band nel 1997 ha reso questi musicisti più vicini alla gente, hanno palesato la loro umanità in maniera semplice anche lasciando moltissimi fans sparsi per il globo con un nodo alla gola che adesso tornerà nuovamente ad essere attuale per la morte prematura di un Artista che anche nel suo cammino solista e con i Temple Of The Dog prima, gli Audioslave poi è riuscito con semplicità a toccare il cuore e le emozioni più profonde di persone che trovano nelle sette note una delle più belle Arti che il Fato abbia potuto donarci ma regalandosi al tempo stesso, grazie ai dischi, il dono dell’Immortalità. E così ci piace pensarla. RIP Chris.

Progetti alternativi di Angela Volpe

Durante gli anni d’oro dei Soundgarden, Chris Cornell dà vita alla super band Temple of the Dog, in memoria di un amico scomparso. Presero parte al progetto alcuni componenti dei Soundgarden e dei Pearl Jam. Memorabile il duetto con Eddie Wedder in ‘Hunger Strike’. L’omonimo e unico album dei Temple of the Dog, pubblicato nel 1991, contiene brani eccezionali per composizione ed esecuzione musicale, divenuti album di platino nel 1992.

La maggior parte del pubblico ricorderà Chris solo per ‘Black Hole Sun’, ma lo scioglimento dei Soundgarden gli diede la spinta per produrre nel 1999 il primo album da solista, ‘Euphoria Morning’. E diciamolo: qualche critica c’è stata. Sì, perché spesso è difficile concepire che un musicista cambi pelle abituati ai suoni di ‘Superunknown’, la leggerezza di ‘Euphoria Morning’ ha destato scompiglio. Quell’album contiene brani intensi, come ‘When I’m Down’ e “Can’t Change Me” che forse per la prima volta hanno mostrato il lato più sensibile e profondo dell’artista.
Nel 2001 si unisce ad alcuni membri dei Rage Against The Machine formando gli Audioslave. Il progetto ebbe un grande successo nel 2005 con il secondo album ‘Out Of Exile’, del quale ricordiamo l’ipnotica ‘Like a Stone’. Incurante delle accuse di essersi buttato nel mercato pop-mainstream con “Euphoria Morning”, Chris ha seguito la sua ispirazione, pubblicando altri lavori da solista e adesso lo ringraziamo per averlo fatto.
‘Carry On’ è stato pubblicato nel 2007, dopo lo scioglimento degli Audioslave; regala nuovi scorci intimi e introspettivi della musica di Chris e l’affascinante ‘You Know My Name’, è stata eletta come colonna sonora del film ‘007 – Casinò Royale’. Nello stesso album è stata inserita una personale versione acustica di ‘Billie Jean’ di Michael Jackson. Seguirono altri tre album solisti, l’ultimo nel 2015, ‘Higher Truth’, un disco maturo, rappresentativo della qualità artistica di Chris Cornell.
Nel marzo di questo infausto anno, Chris pubblica il singolo ‘The Promise’, un brano toccante e struggente, il cui testo adesso ci fa rabbrividire. “Hai fatto una promessa, che rimarrà sempre, non importa il prezzo, hai promesso di sopravvivere, perseverare e prosperare, come abbiamo sempre fatto.”

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