Danko Jones – Rock’n’Roll Motherfuckers

Il 03/04/2019, di .

Danko Jones – Rock’n’Roll Motherfuckers

La band canadese esce con il suo nono album intitolato ‘A Rock Supreme’, un pugno in faccia a chi nella musica ama gli artifizi e i ghirigori pseudo-intellettuali. Ne parliamo con Danko in persona.

Questo album è puro rock ‘n’ roll a partire dal titolo. Era vostra intenzione fin dall’inizio sfornare un disco di mero straight rock, diretto immediato, senza troppi fronzoli?
La nostra intenzione da sempre è quella di fare solamente del buon vecchio, sano, muscolare rock’n’roll. Non siamo una band che ama gli statement politici o sociologici e anche i nostri testi, pur attingendo dall’osservazione della realtà che ci circonda, non hanno mai una presa di posizione ideologica e virano, piuttosto, sul personale. Siamo principalmente una live band, diamo il meglio sul palco e ci teniamo che i nostri album abbiamo la stessa forza d’urto e la stessa energia indomita che hanno i nostri show. Può darsi che il prossimo lavoro sia più hard rock, ma facciamo musica per divertirci e che faccia divertire, per cui non sarà certamente un qualcosa con delle pretese intellettuali.

Eppure, nei tuoi Official Danko Jones Podcast, dove intervisti personaggi di vario genere, ci tieni a proporre approfondimenti dove analizzi con i tuoi ospiti anche tematiche di stampo sociale o di attualità.
Infatti canalizzo lì la mia parte più ‘impegnata’, mentre riservo alla musica quella più scanzonata. Non mi piace sconfinare. Ritengo che i perimetri un po’ stretti aiutino a tenere il processo creativo più focalizzato.

Sono passati solo due anni da Wild Cat. Ciò fa pensare che anche a questo disco abbiate lavorato piuttosto velocemente.
Siamo stati in tour per più di un anno e poi abbiamo iniziato ad abbozzare delle idee per il nuovo album. Solitamente ci scambiamo degli spunti fino a che non esce qualcosa che riteniamo buono e, se l’istinto ci dice che ciò che stiamo facendo non va bene, buttiamo tutto e ricominciamo daccapo. Quando i brani sono abbastanza definiti entriamo in studio e lì registriamo tutto quasi in presa diretta. Ci teniamo a mantenere l’intero processo il più spontaneo possibile perché quando forziamo le cose e ci stressiamo la creatività ne risente.

Perché avete scelto come produttore GGGarth Richardson, già collaboratore di band quali Red Hot Chili Peppers, Rage Against The Machine, Rise Against e Biffy Clyro?
Il suo curriculum vitae parla da solo, no? Inoltre egli è in grado di dare consigli senza snaturarci e sa ottenere dal suono gli effetti migliori. È un vero produttore, che partecipa umanamente nell’assecondare l’attitudine del gruppo ed è abile nello spegnere i momenti di tensione. Inoltre egli come noi è canadese. Abbiamo addirittura scoperto di essere stati vicini di casa in passato, ma nessuno di noi conosceva l’altro, allora.

Se doveste scegliere come produttore tra Kurt Ballou dei Converge (che ha fatto un ottimo a lavoro con gli High On Fire) e Steve Albini (che ha determinato la sonorità degli anni novanta) chi scegliereste?
Kurt Ballou, assolutamente. Egli ci disse che in passato il nostro disco del 2010 Below The Belt ebbe una tale influenza su di lui da prenderlo come riferimento per la produzione di molti dischi da lui foggiati. È stato un onore. Steve Albini è erroneamente considerato un produttore, mentre è un mero ingegnere del suono che lavora con chi lo paga, poco importa se la band sia i Pixies, i Nirvana o il gruppo che prova nel garage dietro l’angolo. Cobain andò da lui perché amava i Jesus Lizard e Albini ne aveva prodotto Liar. Anch’io amo la band di David Yow ed infatti, un’altra ragione per cui ho scelto come produttore Richardson, è perché lui aveva magistralmente prodotto il disco dei Jesus Lizard Shot.

Dove trovi ancora la freschezza e l’energia incendiaria della musica dopo tutti questi anni di attività?
È molto semplice: amo fare ciò che faccio. A volte sono esausto, ma poi imbraccio la chitarra e trovo ogni volta la motivazione. La risposta del pubblico mi tiene vivo.

Grazie al brano Dance Dance Dance, intriso come il suo video di sensualità, siete stati accusati di misoginia, un po’ come i migliori gangsta-rapper. Non è stato un po’ rischioso nei tempi del “me too”?
Quel brano è ispirato a Tina Turner e la sessualità fa parte della vita. Sarebbe ipocrita tagliarla fuori dalla nostra musica, che ama abbracciare tutti gli aspetti dell’esistenza, sesso compreso.

Come ti vedi tra vent’anni?
Spero ancora di essere sul palco a suonare. Non vorrei fare la fine di Chris Cornell o di Prince anche se, da artista e da uomo, posso capire le pressioni a cui erano sottoposti. Ovviamente io non rasento quei livelli e quindi il mio ruolo è più semplice, però la vita del musicista non è facile: devi stare sempre in pista, sempre essere all’altezza. Io so staccare la spina ogni tanto e poi, alla fine, scrivo anche libri e ho sempre il mio podcast. Cerco di tenere sempre, il più possibile, i piedi per terra.

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