Devin Townsend – Barra sempre a dritta

Il 04/11/2022, di .

Devin Townsend – Barra sempre a dritta

di Gabriele Castiglia

 

 

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Devin Townsend in occasione dell’uscita della sua ultima fatica, ‘Lightworks’, contattandolo direttamente nella sua dimora canadese. Devin si è dimostrato fin da subito personaggio disponibile, affabile, arguto, in piena vena di confessioni, in preda ad un vero e proprio stream of consciousness

Ciao Devin, come stai? Negli ultimi dieci giorni ho ascoltato il tuo ultimo album a ripetizione…la prima cosa che mi è venuta in mente è una sorta di continuità con ‘Empath’, dove il concept si articolava intorno alla storia di un uomo solo su un’isola. In ‘Lightworks’, invece, l’isola e il faro sono al centro della copertina, penso sia inevitabile pensare ad una connessione tra i due dischi…

“Ciao amico, beh, diciamo in parte sì, in parte no…indubbiamente, forse soprattutto dal punto di vista musicale, i due dischi sono molto legati, ma se nel primo caso mi concentravo soprattutto sull’isola come elemento di meditazione, di autocoscienza, qui invece il faro è una sorta di ancora di salvezza… mentre scrivevo mi immaginavo come una barca alla deriva nell’oceano in tempesta e mi chiedevo: “cosa vorrei trovarmi davanti se fossi in una situazione del genere? Beh, un isolotto con un faro!”. Insomma, ‘Lightworks’ è tante cose, ma soprattutto redenzione, salvezza, pace.”

Saresti d’accordo se ti dicessi che le prime due parole che mi sono venute in mente, ascoltando ‘Lightworks’, sono ‘solitudine’ e ‘isolamento’? Pensi che questo abbia a che fare con la situazione che il mondo ha vissuto negli ultimi anni?

“Beh, è innegabile che l’atmosfera che permea il disco sia frutto anche di tutto quello che ci ha travolti e continua a travolgerci, tra pandemia, guerra, crisi climatica… però, guarda, non voglio fare la classica sparata da musicista semi-depresso, intellettualoide e che vuole salvare il mondo… altrimenti scriverei canzoni degli U2 e sarei milionario! (ride, Nda). Tornando seri, sì, sono d’accordo con te, ma allo stesso tempo io non ho sofferto l’isolamento dettato dalla pandemia. Sono stato più tempo con la mia famiglia e la mia musica, nel mio studio, tutto sommato è stato quasi un periodo di decompressione per me. Certo, mi rendo conto che non per tutti è stato così… conosco molte persone, anche molto vicine a me, che sono uscite da questa situazione cariche di rabbia, frustrazione, con l’esito di sfogare tutti questi sentimenti con aggressività fisica, morale e psicologica sul mondo che avevano intorno… ecco vedi, il faro e l’isoletta in copertina sono proprio un’ancora di salvezza a tutto ciò, un antidoto.”

La storia della tua evoluzione musicale è ben palpabile da tutte le tue produzioni: non parlo ovviamente delle esperienze con Steve Vai e Wildhearts, lì tu non scrivevi, parlo della tua musica come compositore. Hai iniziato facendo cose estremamente aggressive, con i Noisescapes prima e con gli Strapping Young Lad dopo, per poi ammorbidirti decisamente dopo lo scioglimento degli SYL. Insomma, il tuo lato aggressivo e catartico è venuto meno in favore di un approccio più meditativo, introspettivo e, diciamocelo, decisamente più melodico. Lo stesso è palpabile anche nei tuoi testi…

“Sì, certo, è proprio così… quando poco più che adolescente sbarcai a Los Angeles per approdare alla corte di Steve Vai, per me, occhialuto e sfigatello ragazzino canadese, fu un vero trauma… il rumore, il casino, la sporcizia, la miseria umana furono tutti interruttori che fecero detonare in me un’urgenza espressiva priva di qualsivoglia mediazione e filtro, forse anche per questo con Steve durai pochissimo. Mentre lavoravo con lui scrivevo già pezzi per i Noisescapes e per gli SYL, tutta quella merda mi ribolliva dentro, senza contare che a L.A. iniziai ad andarci giù pesante con varie sostanze, insomma una bomba pronta a implodere. Anni dopo ho interrotto gli SYL proprio perché crescendo, a un certo punto, questo linguaggio non mi apparteneva più, anche la sola idea di riproporre un loro pezzo live mi distruggeva, mi stancava, come potevo riportare le sensazioni e le angosce del me ventenne su un palco? Da qui ho deciso di cambiare direzione, di esplorare tante altre soluzioni e mi sono reso conto che avevo un talento anche per fare altre cose. Vero, anche nelle lyrics il mio approccio è cambiato, ma tengo sempre – e molto – al mio lato ironico ed autoironico, anche se, certo, è un’ironia ora più matura e riflessiva.”

Una delle canzoni che apprezzato di più è sicuramente ‘Children Of God’, posta in chiusura di disco, qui ricorri molte volte all’utilizzo della parola “dio”, parli addirittura di Jahweh…verrebbe quasi da pensare che tu sia una persona molto religiosa, anche se non lo sembri per nulla…

“No no no, per niente, amico mio, non sono religioso per nulla, non c’è cosa che senta più lontana da me della fede. Credimi, lo dico senza pregiudizi, è semplicemente così. Perché ho scritto una canzone del genere mi chiederai allora? Beh, da un lato ho sempre pensato che la parola ‘God’ avesse semplicemente un bel suono, per cui ci ho riempito la canzone, ahahah! A parte gli scherzi, sentivo l’esigenza di un pezzo in qualche modo spirituale, è stata la musica a guidarmi in questa direzione, però nulla a che fare con la religione… il mio limite con la religione è legato al fatto che, semplicemente, non riesco ad immaginare un altro mondo migliore di questo, o meglio, non riesco proprio ad immaginare un altro mondo e, ti sembrerà strano, in questo mondo tutto sommato ci sto molto bene, almeno adesso, dopo tanti anni…”

Eppure la tua storia dice altro, hai scritto un album, molto ironico, su un personaggio che viene da un altro mondo: ecco, cosa ne penserebbe Ziltoid di questo mondo, fatto salvo per l’orribile caffè? (per chi non lo ricordasse, nel fenomenale ‘Ziltod The Omniscent’, disco del 2007, Townsend raccontava la storia semidelirante dell’omonimo alieno che cercava sul pianeta Terra il caffè più buono dell’universo… assaggiatolo e non trovatolo di suo gradimento, Ziltoid dichiarava una guerra sanguinaria alla terra, Nda).

“Ah, Ziltoid! Quanto mi ero divertito a scrivere quel disco! Sai, in quel momento ero da poco diventato papà ed è stato quasi un processo automatico venirmene fuori con una storia del genere. Le mie prospettive erano all’improvviso cambiate, mi sono sentito tornare immediatamente alla mia adolescenza, avevo bisogno di scrivere qualcosa di ironico, di divertente… sono passato da una fase in cui pensavo di sapere tutto della vita, in cui mi trovavo quasi ogni sera ad essere strafatto di marijuana e alcol e a pontificare e all’improvviso, boom, avevo in mano un bambino da nutrire, spostare, pulire… insomma sono tornato io stesso bambino e sentivo l’esigenza di fare qualcosa di leggero. Beh, Ziltoid credo che questo mondo lo distruggerebbe, non solo per il cattivo caffè!”

Devin tu hai lavorato molto anche come produttore: devo dirti molto sinceramente che negli ultimi anni personalmente ho qualche problema con le produzioni moderne, tutto sembra uguale a sé stesso, una volta potevi distinguere una band dall’altra solo dalla produzione, ora è il contrario: che ne pensi?

“Ah, guarda amico, lascia stare, sono perfettamente d’accordo con te! E proprio per questo motivo affermo con orgoglio che ormai sono circa quindici anni che non produco più un disco. Sì, ogni tanto faccio il mixaggio di qualcosa, ma stop, ormai ho deciso di concentrarmi solo sulla mia musica. Il problema sono le persone: non sai quante volte mi sono trovato a dover declinare proposte di merdose band che facevano merdoso deathcore, ragazzini il cui unico interesse era ubriacarsi, urlare cose senza senso nel microfono e stare tutto il giorno con gli occhiali da sole, come degli aspiranti Axl Rose. Poi gli davi in mano un basso e non sapevano neanche da che parte prenderlo, dovevo suonare tutto io… mah, guarda, non fa più per me, sarà che ormai ho cinquant’anni e, ripeto, preferisco focalizzarmi solo sulle mie cose.”

Devin, quando uno pensa al Canada pensa in automatico a Rush e Voivod, ma quello che vorrei chiederti è se la scena melodic/classic rock canadese degli anni Settanta e Ottanta ha mai avuto una qualche influenza su di te, parlo di band come April Wine, Prism, Triumph, Bachman Turner Overdrive, Goddo, etc.

“Ah ah ah, che cosa mi hai tirato fuori, conosci i Prism?? Davvero?? Beh, diciamo che, volente o nolente, molte di queste band hanno fatto parte, forse inconsapevolmente e involontariamente, del mio background, erano spessissimo alla radio quando ero ragazzino. Ovvio, i Rush sono qualcosa da cui non si può prescindere, soprattutto qui in Canada, sono qualcosa che secondo me ti iniettano sotto pelle appena nato! A parte gli scherzi, però, devo dire che non ho mai avuto particolare fascinazione per questi gruppi, per gli April Wine ero troppo giovane, i Prism devo dire però che erano forti… per il mio modo di intendere la musica, beh, sì, inevitabilmente i Voivod sono stati forse uno dei miei riferimenti più significativi, ma non ho mai prestato troppa attenzione alla provenienza geografica delle varie band…”

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