The Ocean, un atto di resistenza

Il 19/05/2023, di .

The Ocean, un atto di resistenza

Ritrovarsi faccia a faccia con una persona come Robin Staps è un’esperienza che tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita, è difficile spiegarvelo, come è difficile raccontarvi la sua musica, la musica dei suoi The Ocean, sempre più lanciata verso orizzonti siderali, sempre più sperimentale, densa e sorprendente. Il collettivo berlinese pubblica oggi ‘Holocene‘, a tre anni di distanza dal superbo ‘Phanerozoic II: Mesozoic / Cenozoic’, chiudendo così la saga delle ere geologiche e concentrandosi sul periodo attuale, non risparmiando forti critiche alla società in cui viviamo e ai suoi demoni, con la perizia e la sensibilità che da sempre li contraddistingue. 

Ciao Robin, benvenuto sulle nostre pagine, è davvero un grande onore per me averti qui, l’ultima volta che vi ho visti sul palco era lo scorso giugno, all’Alchemica di Bologna, nonostante il caldo terribile fu un concerto memorabile…

“Ciao e grazie a te, si quella fu l’ultima data di un tour davvero lungo in cui abbiamo toccato Stati Uniti, Sud America e tutta Europa, una degna chiusura di una serie di concerti devastanti”.
Da artista, come hai vissuto la pandemia e il successivo “ritorno alla vita”?
“Beh all’inizio devo confessarti che è stato quasi un sollievo poter stare in casa e riposare, dedicarmi ad attività “casalinghe” come abbiamo fatto tutti, avere tempo libero da dedicare a progetti che altrimenti non avrei mai avuto il tempo di sviluppare, sia personali sia con l’etichetta. Venivamo da tantissime date in giro per il mondo, abbiamo suonato in India, Nuova Zelanda, Australia, momenti fantastici di cui ho potuto raccogliere le memorie in un book fotografico, e ci vuole tempo e pazienza per contattare i fotografi, chiedere le liberatorie, scegliere tra centinaia di foto. Ora abbiamo un bellissimo souvenir del nostro tour. E poi ci ha fatto bene anche come gruppo stare un po’ separati, sai, dopo tanto tempo passato insieme in tour. Mi sono dedicato molto all’etichetta, non potendo andare ai concerti la gente ha iniziato ad investire nei dischi, abbiamo avuto un gran da fare con la Pelagic, quindi non mi posso lamentare rispetto a chi invece ha perso il lavoro come i roadies e le crew che seguono gli artisti stagionalmente, tutte le persone del nostro ambiente che si sono trovate in difficoltà. Poi però il tempo passava e iniziavo ad annoiarmi, nell’autunno del primo anno di pandemia abbiamo scritto ‘Holocene’, paradossalmente per me è già un album vecchio di tre anni, sai, siamo molto veloci a scrivere e comporre e un po’ meno a registrare e creare l’artwork”.

Quanto profondamente credi che questi anni vissuti in bilico abbiano modellato la società attuale?
“Lo vedremo con il tempo, ma sicuramente ci ha cambiati molto, come ti dicevo molte persone si sono trovate in difficoltà, senza lavoro, senza soldi, senza assicurazione sanitaria, non si trovano più autisti, crew per i tour, molti lavoratori si sono allontanati da questo mondo che ha dovuto subire un lungo stop forzato. Indubbiamente è stata dura e ancora non sappiamo dove tutto quello che abbiamo vissuto ci stia portando”.
Holocene‘ tratta temi che credo siano profondamente legati a quello che abbiamo vissuto negli ultimi tre anni: la perdita del pensiero critico, l’avvento del cospirazionismo più assurdo, la decostruzione dei valori e l’urgenza di mostrare sui social media ogni attimo delle nostre vite. Ad essere onesta al momento ho una visione abbastanza pessimista della natura umana, tu credi ci sia ancora speranza?
“Io non ho figli, quindi credo di avere una percezione diversa da quella di molte persone. Quello che più mi lascia amareggiato è sapere che c’è stato un momento in cui tutti siamo stati perfettamente coscienti del fatto che bisognava porre rimedio, cambiare le cose, lo stile di vita, ma nessuno ha fatto abbastanza. Poi adesso, da quando è scoppiata la guerra, la questione ambientale è passata in secondo se non in ultimo piano. Gente che ha lottato per anni per provare a sistemare, a migliorare le cose ha visto tutto il proprio lavoro svanire in poco tempo. Ma voglio restare ottimista e credere che ci sia ancora speranza”.
Da dove trai ispirazione, quando componi musica o scrivi testi?
“Può essere qualsiasi cosa, dalla filosofia al cinema, i suoni casuali per strada e le esperienze di vita di tutti i giorni. Per ‘Holocene’, sono tornato a leggere un vecchio libro che avevo letto durante i miei studi, ‘The Society of the Spectacle’ di Guy Debord. Quando lo leggi, pensi che stia parlando dei social media di oggi: un regno governato dal potere onnipresente dell’immagine che essenzialmente domina i nostri spazi di discorso e sostituisce il pensiero critico con un costante assalto spettacolare dei sensi: abbastanza breve da innescare una risposta anche in un ambiente in cui la capacità di attenzione è già ridotta a pochi secondi. Solo che… il libro è stato scritto nel 1967 molto prima di Internet”.
Ho letto qualcosa dei libri di Debord e del Situazionismo, di cui ci sono molte referenze nel disco, soprattutto le citazioni nel testo di ‘Preboreal’ calzano alla perfezione. Fa molto riflettere leggere di teorie scritte negli anni Sessanta eppure così pertinenti con la nostra realtà…
“Ho letto Debord durante i miei studi, una quindicina di anni fa, nonostante all’epoca in cui sia stato stato scritto ci fosse solo la televisione, è molto attuale, sembra sia stato scritto sui social media che oggi annebbiano mente e coscienze e fanno spendere tanto tempo, energie e attenzione per cose futili, che non arricchiscono davvero l’anima. L’immagine, non la vita”.

Devo dirti che ascoltare ‘Holocene‘, l’intero album tutto d’un fiato, è stato qualcosa di devastante: è intenso, travolgente e opprimente, scava in fondo e lascia il segno, anche se ha un sound diverso da quello che ci si potrebbe aspettare dai The Ocean… i synth, l’elettronica, la voce pulita… è davvero un grande album, mi ha fatto lo stesso effetto che mi fece ‘The Assassination of Julius Caesar’ degli Ulver qualche anno fa: fisso in cuffia per settimane, a scoprire nuove sfumature e a sentire un nuovo brivido ad ogni ascolto. Mi racconti qualcosa del processo creativo di ‘Holocene’?
“Questo per me è un gran complimento, quello è un album che mi piace molto, credo gli Ulver abbiano trovato il sound perfetto con quel disco e mi fa piacere tu abbia associato ‘Holocene’ a quelle sonorità. Il nuovo disco riprende l’ultima traccia di ‘Phanerozoic II’ e vira senza rimorso verso qualcosa di più moderno, di diverso. Non è stato un cambiamento ragionato, semplicemente è successo. Ho iniziato a scrivere ‘Holocene’ nel primo autunno della pandemia, quando mi sentivo annoiato. Peter (Voigtmann, tastiere) iniziò a mandarmi delle idee, tutte sui synth, ne fui davvero molto ispirato e iniziai a suonarci sopra chitarra e batteria, così alla fine ha preso forma e assomigliava abbastanza a quello che può definirsi un album dei The Ocean ma non era una cosa programmata, organizzata”.
Riguardo alla musica, è definibile quindi solo come una fase, una sorta di esperimento, o una nuova direzione?
“E’ quello che sentivamo di fare il quel momento, come ti dicevo, sembrava abbastanza naturale muoversi in questa direzione anche perché sono sonorità che rispecchiano i nostri ascolti di quel periodo. Inoltre posso anticiparti che c’è anche un secondo disco che abbiamo già scritto, ma non ancora registrato e per i nostri tempi non credo che uscirà nel 2024, diverso da ‘Holocene’, più rock e meno elettronico. Con la musica abbiamo sempre sperimentato molto, spingendoci oltre i limiti. E’ quello che abbiamo fatto anche stavolta”.

La prima metà del brano ‘Unconformities’ la vedrei bene in un film di Tarantino, è eccezionalmente toccante, ci racconti qualcosa sulla scelta della voce di Karin Park?
“(sorride) Karin è un’artista fantastica, una forza! Ha una voce unica e particolare, ho avuto fortuna o forse “naso” a scegliere anche questa volta. Come con Jonas Renkse per l’altro album, sentivo e in qualche modo sapevo che sarebbe stato perfetto, così è andata anche con Karin: Loïc non sentiva quella traccia proprio nelle sue corde per cui ho deciso che bisognava farsi dare una mano, così le ho mandato la musica, ha fatto proprio il brano, ci ha registrato sopra e la prima take era ottima, è quella che ascoltate nel disco, non c’è stato bisogno di altro. Ha aggiunto indubbiamente un tocco in più”.
Avete già pianificato un tour europeo?

“Assolutamente sì, in estate avremo delle date per dei festival ma il vero tour sarà in autunno, da co-headliner con una band ci cui ancora non posso rivelarti il nome ma posso anticiparti che ci saranno due concerti in Italia. Non vediamo l’ora di suonare dal vivo i nuovi pezzi, abbiamo macinato abbastanza i brani del disco precedente nel Phanerozoic Tour, è ora di fare spazio al nuovo”.
Che genere di musica ascolti a casa in questo periodo?
“Ascolto molti stili musicali diversi, attualmente molta elettronica contemporanea berlinese come Ameli Paul, Baba the Knife, Ipek Ipecoglu, un sacco di downtempo con influenze orientali. Il nuovo album degli Spotlights è fantastico, ho scoperto Oiseaux Tempete e Iron Jinn al Roadburn, molta musica da ‘biblioteca’, il brano di Tricky & Trentemøller ‘Like a Stone’ è ancora in ripetizione e, in termini di musica pesante, il prossimo album dei The Gorge intitolato ‘Mechanical Fiction’ è folle, e anche il nuovo dei Lo! così come ‘The Iconoclast’ degli Herod che abbiamo appena pubblicato sulla Pelagic”.
La tua etichetta, la Pelagic Records, sta crescendo con successo e un rooster solido e sempre più numeroso di artisti molto particolari: come gestisci il lavoro con la band e quello con la label?
“E’ una sfida, è stimolante. Cerco di trovare sempre il tempo per entrambe le cose, mi appassionano molto e sono fortunato. Quando sono in tour è più difficile seguire l’etichetta, ma a Berlino ormai ho una squadra forte su cui posso fare affidamento”.

Foto e diritti di Geoffrey Wallang

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