Nickelback – Hate to Love

Il 21/03/2024, di .

Nickelback – Hate to Love

Incontro Mike Kroeger, bassista e fondatore dei Nickelback, in occasione dell’uscita al cinema del documentario Hate to Love, nelle sale il 27 e il 30 marzo, e della partenza del tour 2024 che farà tappa all’Unipol Arena di Bologna il prossimo 2 giugno. Dall’altro lato della webcam mi si presenta un sorridente cinquantenne in t-shirt nera e braccia tatuate, calvo e palestrato, con l’aspetto del rocker navigato e quasi minaccioso, ma che subito si apre a risvolti più personali e a considerazioni che riflettono una profonda maturità.
Ciao Mike, è davvero bello ospitarti oggi qui su Metal Hammer Italia, grazie mille per questa piccola chiacchierata. So che sei attualmente in tournée, quindi ti ringrazio il doppio. Abbiamo davvero molto di cui parlare: dal tour, all’attesissimo documentario… allora, innanzitutto: come va?
“Bene grazie! Tu come stai?”
Bene, bene… comincerei dal tour, avete appena iniziato a viaggiare attraverso il Nord America e l’Europa, molte città in molti Paesi e verrete anche in Italia a giugno. So che avete fatto già un paio di date? Come sta andando?
“Beh, bene… finora! Con il tour 2024 abbiamo fatto ancora pochi concerti, ma ci hanno dato buone vibrazioni, non vediamo l’ora di venire in Italia, ci siamo ritrovati ovunque negli ultimi due anni, da quando è uscito ‘Get Rollin’, soprattutto in Nord America ed Europa, ma siamo stati anche in Australia e a Tokyo lo scorso anno e prevediamo di programmare più date in Asia. Sai, adesso siamo in quel periodo, per noi è un po’ così, due sono le cose: o stiamo scrivendo e registrando un album o andiamo in tournée. Ora siamo nella fase tour. Immagino sia la vita da musicista”.

Sì, è una bella vita. A parte il tuo Paese d’origine, c’è qualche città speciale o qualche luogo speciale in cui ti piace tornare di più?
“Ci sono tanti posti bellissimi in cui suonare. Red Rocks è un posto fuori Denver, in Colorado, davvero speciale. E ce n’è un altro chiamato Gorge, che credo sia vicino a Portland, nell’Oregon, se non sbaglio. Sono davvero delle belle location all’aperto. I posti al chiuso invece, le arene, sembrano tutte uguali dopo un po’, grandi edifici di cemento. Certo, è sempre fantastico perché è pieno di nostri fan, ma le arene non sono così speciali, sono pratiche piuttosto. Servono a un preciso scopo e sono state progettate in un modo specifico che poi si è diffuso in tutto il mondo. Le arene in Europa assomigliano alle arene in Australia, che assomigliano alle arene in Sud America…”
Certo, capisco. Conosciamo la tua lunga carriera, sia in studio sia dal vivo, che dura da molti anni, cosa mantiene vive la fiamma? Cos’è che ti spinge ancora a fare quello che fai?
“Beh, ci sono molti giorni duri per chiunque faccia qualsiasi lavoro, anche se si tratta del lavoro dei propri sogni, come quello che ho io (ho un lavoro da sogno, è la cosa che preferisco fare al mondo), ci sono giorni che sembrano un po’ come lavorare, capisci cosa intendo? Entri semplicemente in loop, per una cosa qualsiasi. Io cerco sempre di mantenere la mia prospettiva molto a fuoco, perché mi chiedo sempre, per prima cosa, cos’altro potrei fare in questo momento? Potrei solo sedermi e guardare la televisione. Sento di aver bisogno di fare qualcosa nella vita, e questa è una cosa grandiosa. Cos’altro potrei fare? Non posso semplicemente sedermi, e non lo farò. Quindi non c’è niente che preferirei fare rispetto a questo.
L’altra cosa è che credo che questo sia un dono, davvero un dono. Ci è stato dato il dono di poter fare questo per vivere. Noi lo abbiamo sempre detto fin dall’inizio, una volta che non ci divertissimo più, se arrivassimo al punto in cui fare ciò che facciamo non è più divertente per noi, ci fermeremo. Finora ci sono stati bei momenti per me, sono qui a parlare con te…”
Grazie.
“Mi piace rapportarmi ai media. Questa è una cosa che molte persone odiano fare quando suonano in una band, ma a me piace. Dopotutto, questo è il lavoro più bello del mondo, in ogni sua parte. Ma la cosa che ti rende sempre felice, anche nei giorni difficili, quando ti senti così, può essere qualunque cosa.
Forse a volte ti senti triste, stanco o altro, ma alla fine i momenti in cui suoniamo sul palco rendono tutto divertente. Una volta che iniziamo a suonare le canzoni insieme, dimentichi tutti i tuoi problemi e sei felice”.

Allora, raccontami com’è la tua routine quotidiana quando sei in tour?
“Beh, in un certo senso cambia. È un po’ diverso a seconda del tipo di setup del tour. Ad esempio quando siamo in tournée con gli autobus, li usiamo soprattutto in Nord America, ecco che sono nel mio bus da tour, mi alzo la mattina e faccio del sollevamento pesi.. Quindi mi alzo, bevo caffè, faccio esercizio e poi mi esercito anche con dei tappetini per jujitsu. Quindi, non so, salgo sul tappetino, mi allungo, mi riscaldo e faccio carburare un po’ il corpo. Magari un giorno farò venire qualcuno della crew a esercitarsi con me e farò un po’ di pratica su uno dei ragazzi.. Ogni tanto poi porto con me un amico che è un istruttore di jujitsu e mi alleno un po’.
E poi inizi a prepararti per lo spettacolo. Come ho già detto, questa è la parte migliore di ogni giornata. Per me lo spettacolo è la parte più divertente. Quando scendo dal palco voglio passare qualche minuto con i ragazzi e poi andare a riposarmi e controllare se ho mia moglie con me. La vedo sull’autobus, altrimenti vado a chiamarla e le parlo. Ho smesso di bere alcolici anni fa, quindi per me tutta la festa è finita. Penso che lo si faccia quando si è in cerca di qualcosa, e io in realtà non sto più cercando niente. Ho così tanto adesso. Tutto quello che potrebbe accadere se andassi a festeggiare è perdere le cose che ho, quindi non voglio farlo.
Questa è la modalità del tour. Invece quando siamo in una tournée come quella di adesso, è tutto aereo, hotel, aereo, hotel, esercizio nella mia camera d’albergo.. E poi si va sul posto del concerto, si suona, magari si fa un bel sound-check. Ad esempio oggi faremo il sound-check, ma alcune volte non lo facciamo. A volte non facciamo altro che fare un sound-check, suonare il concerto rock e poi corriamo fuori dalla porta sul retro il più velocemente possibile e torniamo in hotel. E ancora, mangia del cibo, riposati un po’ e preparati a rifare tutto daccapo, prendere un aereo, e così via.. Questo è il modo in cui siamo in tour adesso”.
Bene, grazie. La cosa di cui parlavamo per prima mi ha fatto pensare alla storia legata al nome della band, Nickelback. Sappiamo che è legato ad una frase con cui eri solito rispondere ai clienti quando lavoravi. Allora, ti andrebbe di raccontarci di più di quegli anni, della tua vita negli anni ’90, quando avevi 20 anni, prima della tua carriera da musicista?
“Oh, benissimo. Lascia che ti accompagni attraverso una giornata di quella mia vita, perché è stata una vita molto diversa da quella che ti ho appena descritto. Era molto diverso allora: dovevo svegliarmi verso le 04:45 per raggiungere il bar dove lavoravo. Dovevo essere lì alle 5.30 per preparare tutto e aprire alle 06:00 e poi lavoravo lì fino al pomeriggio. Poi di solito andavo a fare uno dei miei altri lavori, che fosse al deposito di legname dove impilavo le assi, i mattoni e i sacchi di cemento, oppure al negozio di alimentari. Sai, era così che funzionava. Dopo il lavoro ci riunivamo con i ragazzi e provavamo o lavoravamo sul materiale registrato. All’epoca ero responsabile della distribuzione degli album, quindi mi occupavo di quello. Parlavo con tutti i negozi di dischi e li preparavo a ricevere alcuni album e aiutavo i ragazzi a prenotare i tour. E poi a volte alcune sere suonavamo il nostro spettacolo rock, per me questa era la parte migliore. La cosa peggiore erano le sere in cui suonavamo ad uno spettacolo e non tornavamo a casa fino alle due o tre del mattino, e in meno di due ore dovevamo alzarci per lavorare il giorno successivo. Era la vita da avere quando sei giovane e puoi permetterti di non dormire tanto”.
Con te ha dato i suoi risultati, però.
“Sì, ha funzionato bene per me, almeno. Credo che sia stato il momento giusto, no? Quello è il momento della tua vita in cui vivere in quel modo, quando sei molto giovane e hai tutta quell’energia, credo che quello sia il momento giusto. Non penso che potrei farlo adesso”.
E com’era la tua attrezzatura in quel periodo? Intendo la tua strumentazione musicale, la vostra sala prove, eccetera?
“Ho una storia divertente per te, che non ho mai dimenticato. Riguarda il quartiere in cui vivevo a Vancouver all’epoca in cui stavamo iniziando con i Nickelback e anche prima quando suonavo in altre band. Ricordo che avevo questo grande amplificatore per basso, questo bellissimo grande amplificatore per basso su cui avevo speso tutti i miei soldi. Era davvero bello e ricordo che ogni giorno, quando mi svegliavo per andare a lavorare la mattina, dicevo addio a tutto perché c’era così tanta criminalità nel quartiere che pensavo che sicuramente qualcuno sarebbe entrato in casa mia e avrebbe rubato la mia attrezzatura. Ogni giorno, quando tornavo a casa e la mia attrezzatura era ancora lì, era davvero una bella sensazione. L’amplificatore era ancora nella mia stanza dove l’avevo lasciato, e nessuno era venuto a rubarlo”.

Oh, capisco. Se possiamo estendere questa breve parentesi per i nostri lettori musicisti. Che tipo di attrezzatura usi invece oggi? So che hai un endorsement…
“Sì, ora uso una varietà di cose e dipende dall’applicazione. Allora, i miei bassi principali sono Spector. Suono esclusivamente Spector dal vivo. Se c’è una telecamera su di me o qualcosa del genere, sto suonando uno Spector, o anche se sono sul palco di uno spettacolo. Quando sono in studio, suono sempre Spector, ma anche Wall e Sadowski. Questi sono i bassi che ho scelto di usare in studio, suonano così bene.
E ho smesso di usare gli amplificatori circa quindici anni fa: vado direttamente in linea e lascio che il tecnico del suono lavori, conosca il suono delle mie mani, delle corde, dello strumento. Cioè, voglio dire, sono un grande fan di Justin Chancellor dei Tool, adoro il suo suond e adoro il modo in cui suona, eppure la sua pedaliera è così grande. Non immagino nemmeno come si faccia a sapere cosa fa quella roba. Quei ragazzi mi lasciano a bocca aperta, i ragazzi che hanno così tanta attrezzatura con sé. Li ammiro perché per me i controlli di tono sul basso sono sufficienti. L’intera faccenda della pedaliera di controllo della missione è come, non lo so… Alla fine, se il mio tecnico del suono è felice, sono felice. Se gli chiedo come gli sembra e lui dice “bene”, allora non voglio cambiare nulla.
E in più ricordo di questa volta, ero seduto con il mio tecnico del suono, circa 15 anni fa, e in quel periodo avevo due diversi impianti da basso completi sul palco. Uno era proprio come un amplificatore per chitarra, ed era enorme, c’erano due microfoni. E poi c’era l’amplificatore per basso pulito, che era un normale amplificatore per basso con due microfoni e due linee.
Stavamo usando una cosa come sette linee, credo. E ricordo che un giorno ho pranzato con il tecnico del suono e ho detto “quindi cosa ne pensi del tono?”. E lui ha detto “oh, sì, va bene”. Ho pensato “okay, beh, cosa stai usando?”. Lui dice “oh, uso tutto”. E io ho pensato “okay”. Ma poi ha continuato dicendo che “il 90% del tuo tono viene da li”. Ha detto “uso quell’altra roba per un po’ di colore, ma non ne ho davvero bisogno”. E io ero tipo, “davvero!?”.
Quello è stato il giorno in cui il mio roadie è diventato il ragazzo più felice del mondo perché ho mandato a casa circa 800 libbre di attrezzatura e lui non ha dovuto più spostarle. Ora ne ho solo uno, un rack da dodici e questo è tutto. Il mio tecnico è stato molto felice quel giorno, e penso tu possa capirmi, da quanto posso vedere dalle chitarre nel tuo sfondo, probabilmente ti sei spostato anche tu con un carico pesante…
L’attrezzatura per basso è la cosa più pesante, ad eccezione forse delle custodie del batterista. Ma queste cose pesanti appartengono al passato, e ne sono davvero felice”.
Non possiamo condurre questa intervista senza menzionare il più grande successo dei Nickelback, ‘How You Remind Me’. La canzone è oggi una vera leggenda della musica rock: ha raggiunto la vetta di ogni classifica, è stata la canzone più trasmessa dalle radio americane nel decennio 2000 e continua ad apparire in film, programmi TV e videogiochi; recentemente è stata anche dichiarata da Billboard come l’ultima canzone rock ad essere stata una hit in tutto il mondo. Dato che questo è un brano di lunga data, una canzone storica, qual è il tuo rapporto personale con questo pezzo?
“Ho un grande senso di gratitudine verso quella canzone. Mi ha portato in giro per il mondo, quella canzone mi ha aiutato a crescere i miei figli. Mi ha aiutato a dare ai miei figli un posto dove vivere e cibo da mangiare e mi ha aiutato a mandarli a scuola. È una canzone speciale perché ha cambiato tutto per noi. Sono sicuro che quando parli con artisti che hanno una grande canzone come quella, a volte loro dicano “Oh, lo odio e basta, odio suonare quella canzone”. Non voglio dire che posso capire, perché non riesco a capire. In realtà non posso capire, ma so cosa dicono. Però penso che sia anche una cosa molto egoistica da dire, perché alla fine quella canzone è il motivo per cui di solito parli con l’intervistatore. Non so se ci saremmo incontrati senza ‘How You Remind Me’, probabilmente no. Ha cambiato tutto per noi e ha cambiato tutto per molte persone. E come hai detto tu, è l’ultima canzone rock ad essere ancora numero uno fino ad oggi. Da allora una canzone rock non è più stata la numero uno, il che immagino sia una notizia felice per me e forse una notizia triste per il resto del mondo rock. Poi, alla fine noi facciamo parte di questo mondo…”

Già, e io sono qui grazie a Metal Hammer, amico. Quindi capisco…
“So che sai esattamente cosa intendo, ma noi metallari andiamo avanti. Non sono influenzato dalle tendenze della musica, ascolto quello che ascolto. Non vado a cercare le hit per ascoltarle di proposito. L’unica volta che ascolto canzoni di successo è per caso e così va bene. La maggior parte della musica che ascolto non è composta da hit”.
Credo che ora possiamo parlare del documentario, che tra una settimana sarà sul grande schermo, nei cinema di tutto il mondo. Come prende vita tutto questo? L’idea, la realizzazione di questo documentario?
“Ah, è una storia divertente. Come molte cose tra noi, è successo in modo del tutto naturale, non ci siamo seduti e abbiamo deciso di fare un documentario. La prima cosa credo fosse per l’album ‘No Fixed Address’, se non sbaglio… Penso che fosse per ‘Feed the Machine’. A dire il vero, dovrei saperlo, in ogni caso stavamo facendo il promo di un album e stavamo facendo delle interviste… Era la promozione di ‘Feed the Machine’, ed era durante le riprese del video di ‘Song on Fire’, per la verità.
E avevamo deciso che avremmo portato la nostra troupe televisiva a girare questo filmato promozionale invece di farlo fare da altri. Voglio dire, abbiamo scelto noi stessi le persone per girarlo. E l’etichetta discografica accettò di averli lì e di pagarli. Così abbiamo fatto venire questi nostri amici da prima, Ben Jones e Lee Brooks. Sono arrivati e abbiamo girato il filmato dell’intervista. E dopo aver finito, abbiamo rivisto il filmato, l’abbiamo guardato e abbiamo detto, forse è un po’ troppo bello per buttarlo via come promozione dell’album. Forse dovremmo farne di più, forse dovremmo girare più filmati e fare più interviste e vedere cosa succede. E poi, nel corso di sei anni, l’abbiamo trasformato in un documentario e l’abbiamo editato. Guardandolo si notano dei periodi di tempo scanditi, tipo puoi vedere per quanto tempo abbiamo girato in base a quanti capelli avevo all’inizio e quanti tatuaggi ho alla fine, puoi semplicemente usare quello come riferimento. Faccio bene da segnatempo perché prima ho tanti capelli e nessun tatuaggio, poi ho meno capelli e qualche tatuaggio, e poi così via… è piuttosto divertente, ma è durato per un periodo di tempo molto lungo. E poi abbiamo deciso che avremmo realizzato la nostra storia e raccontato quelle storie che la gente non conosce. Perché gran parte della nostra storia è stata definita da narrazioni create da altre persone, dai media o semplicemente da altre persone in generale. Ed è colpa nostra, perché non abbiamo raccontato noi la nostra storia. Se non la raccontiamo noi, qualcun altro lo farà. Quindi questa è stata la nostra opportunità di farlo da soli e raccontarlo dal nostro punto di vista, in contrasto con le narrazioni che si vedono in giro”.
Certo, come ho detto, non ho ancora visto il documentario, ma posso immaginare l’argomento principale già nel titolo…
“Abbiamo abbracciato pienamente il clickbait. Abbiamo capito che l’odio per i Nickelback è stato usato così tanto come clickbait da altre persone, che forse ora è arrivato il nostro turno. Forse possiamo usarlo anche noi. In passato è stato usato dagli altri, come saprai…”
Certo, sappiamo bene di cosa stai parlando. Mi ricordo di un episodio riguardo a una petizione in Ohio quando dovevate suonare per una partita della NFL…
“A Detroit, nel Michigan, sì. È stato assurdo, quando guardo tutte queste cose oggi mi sembrano così ridicole… perché questa cosa della petizione, voglio dire, chiunque può presentare una petizione, giusto? Ad esempio, potrei andare su change.org e presentare una petizione per non farti più uscire di casa, puoi farlo per qualsiasi cosa. È irrilevante e totalmente privo di significato. Ma è stato bello, quando poi abbiamo suonato quello spettacolo, sentire i fan esultare. Ovviamente loro non avevano firmato la petizione, e la loro mera presenza andava a screditare i nostri detrattori. Penso che sia sempre molto facile criticare ciò che fanno gli altri, ma è molto più difficile fare effettivamente qualcosa”.
Credo che, complice il momento storico, i Nickelback possano essere anche fra i primi ad aver sofferto a causa del distacco da tastiera operato dal web, intendo hatespeech, shitstorm, memes, ecc..
“Sì. Se hai troppo successo, non sei più percepito come un essere umano. Sei solo una parte di una grande macchina che non è composta da persone vere. Questa è una delle cose che questo documentario farà: sottolineerà ed evidenzierà il fatto che in realtà siamo esseri umani. In realtà siamo quattro persone che provano gli stessi sentimenti e pensieri di chiunque altro”.
Ottimo, grazie. Penso che ce l’abbiamo fatta. Grazie mille, non vediamo l’ora di vedervi in Italia.
“Ci vediamo a Bologna”.

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