Nazareth + Santana + more @Rock The Ring – Zurigo (CH), 22/23 giugno 2018

Il 28/06/2018, di .

Nazareth + Santana + more @Rock The Ring – Zurigo (CH), 22/23 giugno 2018

Partiamo dalla fine, ovvero, dallo straripante concerto, durato poco meno di un’ora, dei redivivi Nazareth i quali, notte tempo, hanno chiuso la quinta edizione del Rock The Ring alle porte di Zurigo, sciorinando una serie di classici da paura.
Per una band che non calca il territorio italiano dai primi anni Ottanta, se la memoria non mi inganna, vale assolutamente la pena soffermarsi su quanto di buono hanno fatto valere in carriera e, nello specifico, sul palco di Hinwil e poco importa se l’unico superstite della band originale sia l’attempato Pete Agnew, bassista di lungo corso, se l’alchimia ottenuta è quella che si è potuta ammirare nella notte del Ring.
Compito ingrato sostituire una leggenda dell’hard rock dalla timbrica vocale inimitabile come Dan Mc Cafferty, tuttavia il pimpante Carl Sentance, ex Krokus e Don Airey Band, ha superato la prova alla grande, sfoderando una prestazione maiuscola, senza particolari sbavature, da navigato professionista.
È innegabile che si sente la mancanza dell’ ugola di carta vetrata che caratterizza brani iconici quali ‘Love Hurst’, ‘Hair Of The Dog’, ‘Razamanazz’, ‘Expect No Mercy’, ‘My White Bicycle’, estratti di lusso da una set-list d’autore e di spessore, ma non tanto da pregiudicare la bellezza dei pezzi in questione, interpretati in una nuova veste e con nuova linfa vitale, dal frontman originario di Cardiff.
Riavvolgendo il nastro al giorno precedente, sono i Coreleoni, profeti in patria, ad aprire il primo dei due giorni di festival dedicato alle proposte internazionali, con un concerto che ha ricalcato a grandi linee quello già visto a Trezzo in occasione del recente Frontiers Rock Festival .
Un piacevole surrogato dei primi Gotthard, quelli più inclini a sonorità hard rock e rock–blues, dove trova terreno assolutamente fertile un cantante talentuoso come Ronnie Romero.
Solo uno col il suo impatto e la straordinaria versatilità vocale, poteva reggere il confronto con il compianto Steve Lee, senza svalutare e sminuire brani “ever-green” dei primi Gotthard come ‘Downtown’, ‘Firedance Higher’, ‘In The Name’, anche se il picco viene toccato dalla magistrale interpretazione di una stratosferica ballad come ‘Let It Be’, già emotivamente vincente ed emozionante in fase di soundcheck.
E poi la storia del rock parla legittimamente a favore del giovane Romero in quanto Ritchie Blackmore non ha mai sbagliato un cantante per le sue band, portando alla grande ribalta talenti sconosciuti o quasi, primi tra tutti David Coverdale poi a seguire Ronnie James Dio, Graham Bonnet e Joe Lynn Turner.
Non è dato a sapere se anche un certo Ian Gillan sia stata una sua scoperta all’alba di ‘In Rock’, ma se cosi’ fosse il buon Ronnie Romero può dormire sonni tranquilli e programmarsi una vita dorata da futura rockstar.
È la volta dei Tempesta, band svizzera dedita ad un classic hard rock di buona fattura, sulla scia di altri connazionali come Shakra e Krokus, proporsi attraverso i pezzi dell’album ‘Roller Coaster’, apparentemente apprezzati da una buona parte del pubblico.
Niente di eccezionale e nessun pezzo in particolare da ricordare nel loro breve show, ma la curiosità di conoscerli meglio, mi porterà certamente ad approfondire l’argomento.
Meno convincenti del solito, i Black Stone Cherry onnipresenti in quasi tutti i festival continentali e freschi d’uscita di ‘Family Tree’, hanno presentato uno show non troppo coinvolgente per i loro standard abituali, portando la già pacata e ancora sparuta platea svizzera, a preferire le arti culinarie degli stand all’interno dell’area, a quelle artistiche del quartetto di Edmonton, Kentucky.
Il solo chitarrista Ben Wells pareva motivato e in palla, saltando da un punto all’altro del palco come fosse tarantolato, tentando, invano, di portarsi dietro di se il resto della band, dedita al compitino tipico degli sparring partner che hanno il tour bus in partenza per il prossimo concerto.
Molto meglio i veterani Manfred Mann Earth’s Band, storica band inglese in pista dagli anni Sessanta, praticamente ignorati dalle nostre parti, in parte vale lo stesso discorso fatto per i Nazareth, ma al contrario parecchio referenziati e seguiti in Germania e nel nord Europa.
Uno show ampiamente collaudato, quello che vede come leader il funambolico tastierista di origini sudafricane Manfred Mann, che annovera tra i punti di forza brani nazional-popolari nei paesi di lingua tedesca, come Migty Quinn, scritto da Bob Dylan, ripresa con successo anche dai Gotthard e ‘Blinded By The Light’, che apre il concerto tra l’ovazione di approvazione del pubblico.
Si torna a percorrere sentieri a noi più consoni con l’esibizione degli attesi Uriah Heep, altre glorie nazionali dell’hard rock britannico, dove tutti viaggiano anagraficamente verso la settantina, sicuramente il chitarrista Mick Box ed il tastierista Phil Lanzon .
Non mi stancherò mai di ascoltare il potente riff di ‘Gypsy’ o la cavalcata incalzante e in crescendo di ‘Easy Livin’, vere e proprie pietre miliari non solo nella carriera degli Heep, bensì entrate di diritto nell’enciclopedia dell’hard rock mondiale.
La magia “prog” di ‘The Magican’s Birthday’, avvolge la platea in un caleidoscopio di emozioni e la mia mente non può non correre a ritroso al mitico concerto del Palasport di Bologna dei primi anni settanta, in cui la band inglese con David Byron alla voce, Ken Hensley alle tastiere, Lee Kerslake alla batteria, Gary Thain al basso e, appunto, il superstite Mick Box alla chitarra, offrirono uno spettacolo di rara bellezza, che me ne fece letteralmente innamorare, al pari dei più referenziati e conosciuti Deep Purple.
Bernie Shaw si conferma il degno erede del compianto David Byron ed in attesa di ascoltare il nuovo album dal titolo ‘Living The Dream’ in uscita il prossimo settembre per Frontiers Records, godiamo appieno della potenza di un classico come ‘Stealin’’ e di un pezzo raffinato come ‘Between Two Words’ singolo tratto dall’ottimo ‘Sonic Origami’ del 1998.
La palla e il palco passano ai Simple Minds e al loro concerto “greatest hits”, inflazionato (nel senso buono della parola) di brani celeberrimi come ‘Don’t You ( Forget About Me)’, ‘Alive e Kickin’’, ‘Waterfront’, ‘Once Upon A Time’, ‘The American’ tanti altri successi, che decretarono la band di Glasgow come i veri e unici competitor allo strapotere degli U2 negli anni Ottanta.
Non fanno certo parte del nostro universo sonoro, né sono mai stati contaminati da un solo tocco del dio metallo, tuttavia ascoltare un loro show è sempre un grande piacere e ti concilia con un certo tipo di musica.
Seppur con minore appeal rispetto alla band di Jim Kerr e Charlie Burchill, lo stesso discorso vale per i Level 42 e UB 40, protagonisti nel secondo giorno del festival, mentre una bellissima sorpresa si sono rivelati i The Darkness, dopo un po’ di anni avvolti nell’oblio, non tanto dal vivo, quanto discograficamente parlando.
Seppur penalizzati da un orario di esibizione più consono al caffè e al digestivo, Justin Hawkins, avvolto in un completo bianco candido e soci, hanno catturato l’attenzione della platea elvetica a suon di brani talmente ruffiani, da sembrare ideati e scritti per essere suonati nei festival estivi.
Risulta impresa ardua anche per il pubblico svizzero, storicamente impassibile o quasi, non farsi trascinare da ‘One Way Ticket’, uno dei più celebri tormentoni hard rock del nuovo millennio o da ‘I Believe In a Thing Called Love’, multiplatinato hit-single tratto da quel ‘Promised To Land’, album rivelazione dal successo clamoroso, datato 2003 .
Reduci dall’Arena Tour in Gran Bretagna, i Darkness si sono rivelati i grandi mattatori di questa edizione del Rock The Ring per quanto riguarda la programmazione hard rock, forti di una set-list dal forte impatto “live”, come e’ nelle loro corde e come deve essere quando si hanno tempi limitati all’interno di un festival e di una serie di brani avvolgenti e di spessore.
Davvero bravi, coinvolgenti e professionali, anche se sembrano passati anni luce da quando, agli inizi del duemila, in patria erano considerati una sorta di eredi dei Queen, tanto da monopolizzare le prime pagine dei tabloid di musica e di cronaca, fino a onorare Justin Hawkins con una statua di cera all’interno del prestigioso museo di Madame Tussaud a Londra, al fianco di Elvis, Freddie, Lennon e altri miti del Rock.
Il gran finale è tutto per Carlos Santana, che ha condensato in meno di due ore, un estratto del suo leggendario repertorio, estasiando una platea con i suoni e i ritmi inconfondibili del suo rock latino, a partire dall’iniziale ‘Soul Sacrifice’, straripante brano tratto dal primo album della band del 1969.
È un concerto di immagini e suoni quello messo in pista dal settantenne chitarrista di origini messicane e mentre dalla sua chitarra escono le suadenti note di ‘Europa (Earth’s Cry, Heaven’s Smile), ‘Oye Como Va’ e ‘Black Magic Woman’, dallo schermo gigante posto alle sue spalle scorrono le immagini di un giovanissimo Santana sul palco di Woodstock, quasi a volere fermare uno spaccato di storia irripetibile.
La cover di ‘Roxanne’ dei Police ed accenni a ‘Day Tripper’ e ‘Satisfaction’, giungono tanto inaspettate, quanto gradite, prima che i ritmi calienti di ‘Maria, Maria’ e ‘Corazon Espinado’ trasformino il parco di Rock The Ring in una gigantesca discoteca all’aperto.
Si chiude con il concerto dei Nazareth, di cui abbiamo parlato in apertura, questa edizione di Rock The Ring, che ha visto esibirsi anche gli In Extremo e i Bohse Onkelz, leggende teutoniche, ma che per motivi logistici e organizzativi, non siamo riusciti a seguire, nostro malgrado.
Un plauso d’obbligo alla perfetta macchina organizzativa svizzera ed un ringraziamento ai promoter del festival per avere invitato Metal Hammer come unica testata italiana accreditata.
Arrivederci al Rock The Ring 2019.

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