The Smashing Pumpkins @Unipol Arena – Bologna (BO), 18 ottobre 2018

Il 23/10/2018, di .

The Smashing Pumpkins @Unipol Arena – Bologna (BO), 18 ottobre 2018

Aspettavo questa data con la trepidazione con cui si aspetta un amante, perché proprio come un amante William Patrick Corgan negli anni mi ha illusa, delusa e tradita. E buona parte di voi sa di cosa sto parlando. Non mi dilungherò sull’analisi di quel vortice creativo e distruttivo che è l’ego smisurato di Corgan, un’autentica croce e delizia manifestatasi ripetutamente durante il concerto di questa sera, oppure sul progressivo smembramento e deterioramento qualitativo di quella che, per me, resta la migliore band alternative rock degli anni ’90. Tantomeno alimenterò polemiche sterili sulla mancanza di D’arcy Wretzky.

Lo ‘Shiny And Oh So Bright Tour’ ha dato a noi fan tutto ciò che avremmo potuto desiderare, un regalo generoso confezionato ad arte per chi ha dovuto aspettare vent’anni prima di rivedere sullo stesso palco Corgan, Iha e Chamberlin impegnati in una setlist di trentadue brani che ha ripercorso i momenti migliori della carriera dei Pumpkins, un concerto fatto di vecchie conoscenze, di malinconia e sorrisi, un’iconografia che ci è così familiare e nuove prospettive, un carosello turbolento di immagini e suoni perfettamente amalgamati che è andato ben oltre il concetto di ‘raccolta fondi’ a cui associamo spesso i termini ‘reunion’ o ‘anniversary tour’. È stata la celebrazione della nostalgia, meno rabbiosa e angosciante, più consapevole e affascinante. Una nostalgia che per tre ore buone ci ha avvolti e travolti, lasciandoci scivolare indietro nel tempo a riassaporare emozioni complesse sopite, per molti, dall’adolescenza.

Il traffico congestionato mi ha privata dell’esibizione di Myrkur, in apertura alle zucche, ma sentirla cantare su ‘Landslide’, accompagnata da Corgan alla chitarra, mi ha confermato che ho perso una bella performance e sarà necessario porre rimedio in futuro.

Le note di ‘Mellon Collie And The Infinite Sadness’ e le prime proiezioni dei celebri artwork preparano il pubblico all’ingresso di Corgan: al buio e in silenzio gli schermi si separano lentamente mentre Billy si avvicina, armato della sola chitarra intona ‘Disarm’ e la magia ha inizio, quasi 15.000 persone esplodono cantando ogni parola all’unisono, ammaliati dalle immagini sfuocate e scarabocchiate della sua infanzia che si susseguono mentre canta “I used to be a little boy, so old in my shoes” e manda “smiles over to (us)”.

Lentamente gli altri membri della band fanno il loro ingresso, James Iha, Jimmy Chamberlin, la terza chitarra di Jeff Schroeder, Jack Bates al basso (il DNA di Peter Hook non tradisce) e Katie Cole alle tastiere e cori: eccola la nuova prospettiva, un sound più tridimensionale, corposo, meno acido. Il tuffo nei primi sbiaditi anni ’90 prosegue con ‘Rocket’ da ‘Siamese Dream’, e, da ‘Gish’ con le psichedeliche ‘Siva’ e ‘Rhinoceros’, Schroeder e Corgan iniziano a scambiarsi assoli magistrali su cui Chamberlin si innesta chirurgico. Carica di pathos e teatralità è la cover dell’immortale David Bowie ‘Space Oddity’, non c’è niente fuori posto e tutto scorre fino ai classici ‘Zero’, ‘The Everlasting Gaze’, ‘Stand Inside Your Love’: la band, nonostante lo show acustico previsto a Milano la sera precedente sia stato annullato per motivi di salute, è in forma e si diverte, è palese, a noi non resta che goderci il seguito.

Qualche parola per il pubblico da parte di James Iha e poi i brividi della struggente ‘Thirty-Three’ e l’intimo e caleidoscopico dream pop di ‘Soma’. Un breve interludio videoregistrato in vaudeville di Mark McGrath, agghindato in puro stile Mellon Collie con le sembianze di uno strano ventriloquo circense dei tanto amati anni ’30, ci introduce il brano ‘Blew Away’ cantato da un timido James Iha che, una volta in primo piano, rende omaggio ai seventies, con tanto di giacca bianca su cui svetta la Les Paul nera e il ciuffo cotonato. Dopo qualche minuto di silenzio, da un baldacchino sopraelevato su cui troneggia Corgan, partono le note di pianoforte di ‘For Martha’, sotto le balze di un cappello bianco Billy non perde un colpo, mentre la madre-ballerina dai capelli rossi e un se stesso bambino fluttuano nello schermo alle sue spalle. Si continua con ‘Adore’ e con il mellifluo pianoforte protagonista, il ‘Twilight Fades’ di ‘To Sheila’ ci lascia sognare a bocca aperta.

Il cambio d’abito trasforma Corgan in un ricordo lontano di anni passati, con il costume da scheletro ci scaraventa addosso ‘Mayonaise’ e l’emblematico “Can anybody hear me, I just want to be me” fa tremare l’arena mentre scorrono nitide e lente le immagini di madonne profane, eteree effigi ieratiche dagli occhi di ghiaccio in un intreccio di rose, veli e corone. Poi lo scenario muta, con ‘Porcelina Of The Vast Ocean’ siamo in piena iconografia e sound Mellon Collie, il piccolo Zero è perso tra le onde dell’oceano “Without a care in this whole world”, Corgan è avvolto in una nuvola blu, le note dei vorticosi assoli si susseguono passando dalle dita di Schroeder alle sue. Dopo ‘Landslide’, cantata da Myrkur, il coro da 15.000 voci di ‘Tonight, Tonight’ finisce troppo in fretta. E per un attimo, al buio, siamo tutti più felici. Le luci tornano alte e Billy siede di nuovo al pianoforte per la cover di ‘Stairway To Heaven’, durante la quale una vera statua di San Corgan da Elk Grove Village sfila in processione nel pit. Iha presenta la band, il pubblico è caldissimo, gli applausi sono sinceri e interminabili, soprattutto per i vecchi amici finalmente ritrovati. Sono passate due ore dall’inizio dello spettacolo e stiamo ballando sulle note di ‘Cherub Rock’, il pugno allo stomaco è dietro l’angolo, parte ‘1979’ e la commozione si impadronisce di molti. Billy torna vampiro con l’elettronica suadente di ‘Ava Adore’ e, dopo la mesta ‘Try, Try, Try’, sbarca a Gotham City sguazzando nelle sonorità dark di ‘The Beginning Is The End Is The Beginning’. ‘Hummer’, ‘Today’, ‘Bullet With Butterfly Wings’ e ‘Muzzle’ sono un delirio totale, un terremoto, non poteva essere altrimenti, sta finendo la terza ora di concerto e noi 15.000 invasati ancora non ne abbiamo abbastanza. Chiediamo alla band a gran voce di tornare sul palco e ci accontentano presentandoci l’ultimo singolo ‘Silvery Sometimes (Ghost)’ e chiudere con sorrisi, ringraziamenti e la carezzevole ninnananna (con Chamberlin all’ukulele) ‘Baby Mine’ di Betty Noyes. Le luci calano definitivamente su un concerto memorabile e carico di emozioni, su una performance in cui nessuno avrebbe creduto fino a pochi mesi fa, un omaggio dovuto, nel bene e nel male, alla loro storia, al genio creativo di Corgan, l’amico tiranno, il visionario testardo.

“The impossible is been possible tonight”.

FOTO DI ROBERTO VILLANI

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