Slayer + more @Rock The Castle – Villafranca di Verona, 7 luglio 2019

Il 13/07/2019, di .

Slayer + more @Rock The Castle – Villafranca di Verona, 7 luglio 2019

Prendere l’autostrada, in questa stagione, è sempre un’incognita, e la celeberrima partenza intelligente è oramai una consumata leggenda metropolitana, ragion per cui sai quando entri, ma non quando ne uscirai… Fatto sta che il ritardo accumulato per colpa delle code quasi proverbiali nei weekend estivi ci costringe a perdere tempo prezioso, mancando per un soffio i primissimi gruppi, è con grosso rammarico che mi perdo specialmente i mitici Necrodeath dell’amico Peso (ma non dispero, perché con il gruppo ligure gli appuntamenti saranno parecchi nel corso dell’estate…), ma meno male che, varcato l’ingresso della suggestiva location veneta, si parte comunque alla grande con scariche di speed metal vecchio stampo, ma urticante e fascinoso come non mai, in dotazione a una band storica, i britannici Onslaught che a metà anni Ottanta fecero tremare i polsi, prima con l’oscuro debut-album ‘Power From Hell’ e successivamente con il devastante ‘The Force’, disco che modellò il destino della band di Bristol. Gli anni sul groppone ci sono e sono abbondanti, per un gruppo ritornato brillantemente in circolazione dopo un lungo esilio, e nel quale l’elemento principale è il frontman Sy Keeler, il cui cantato acido e sibilante resta notevole e distintivo, nell’economia di un organico a cui piace affondare il colpo senza tergiversare troppo, spingendo a tavoletta con brani della letale portata di ‘The Sounds Of Violence’, ‘Let There Be Death’, più l’inno ‘Metal Forces’ (trittico essenziale del sopracitato ‘The Force’), ma anche ‘Destroyer Of Worlds’ e ‘A Perfect Day To Die’ alzano di parecchio il termometro, in una giornata bollente già di per sé. Sorpresissimo di ritrovarli così in forma, dopo averli smarriti tra le brume della vecchia Albione.
Si va sempre sull’usato, ma stavolta super garantito, con i successivi Overkill, speed metal freaks newyorkesi che noi tutti amiamo alla follia, e non potrebbe essere altrimenti quando in organico puoi vantare gente del calibro di D.D. Verni e di Bobby ‘Blitz’ Ellsworth, forse uno dei frontman da definire per antonomasia visto come sfoggia carisma, abilità e simpatia: a questi livelli è sempre e comunque una marcia in più… Un autentico tornado la loro esibizione, con gli Overkill che sin dalle iniziali ‘Last Man Standing’, ‘Electric Rattlesnake’ e ‘Hello From The Gutter’ gettano scompiglio tra la folla e gli irriducibili “pogatori” che non attendevano altro che dei professionisti autentici della cattiveria tradotta in musica! Chi li conosce, sa bene di cosa stiamo parlando, e neppure il Castello di Villafranca viene risparmiato dalla veemenza e dall’impeto tipici del leggendario gruppo americano, il quale piazza una serie di classici che più classici non si può, da ‘Elimination’ a ‘Bastard Nation’, da ‘Rotten To The Core’ a ‘Fuck You’, l’immancabile cover dei Subhumans che come da copione chiude i loro concerti, tra gli anthem che più rinfocolano il nostro immaginario collettivo. In soldoni, una sassata in piena faccia.
Pure l’attesissimo ritorno in Italia di Phil Anselmo colpisce duro, durissimo, ma per ragioni opposte, specie per chi, come me, il controverso frontman lo ha vissuto ai tempi d’oro, quando lui era veramente una forza della natura e i suoi Pantera una formidabile band sulla cresta dell’onda, probabilmente l’ultimo grande gruppo partorito dal mainstream rock statunitense. Sul perché del loro scioglimento si son versati fiumi d’inchiostro, certo è che Phil è stato tra le ragioni principali, se non la più impellente, a decretare la parola fine per una delle formazioni metal più amate al mondo. Che, se non ricordo male, suonò per l’ultima volta in Italia nel 2000, il tour era quello di ‘Reinventing The Steel’, con la band già alle prese con i primi grossi problemi con Anselmo, a dir poco impresentabile durante quella tournée europea che, di fatto, sancì la crepa definitiva, tra quei gravi motivi che nel giro di breve portarono al clamoroso split-up. Quindi è anche giustificabile il grande entusiasmo che genera l’arrivo di Phil e i suoi The Illegals, per la maggior parte dei presenti qui a Villafranca è vederlo all’opera per la prima volta, e l’incontro non può che generare aspettative enormi e un riscontro forse non pienamente condivisibile, ma tant’è. Il cantante originario di New Orleans fa il suo egregio dovere, il magnetismo non gli è mai mancato, la voce fa cilecca in più di una circostanza, ma è il pubblico, devoto e appassionato, a togliergli spesso le castagne dal fuoco con grandi cori e una partecipazione che fa la differenza; fatto sta che, nonostante tutto, brani tipo ‘Walk’, ‘Mouth For War’, ‘Fucking Hostile’ o la ‘This Love’ apertamente dedicata alla memoria dei fratelli Abbott, risultano tuttora sferzanti e di grande intensità emotiva. Già, più che un semplice concerto, si è trattato di un autentico evento, che certamente ha creato divisioni. Nel bene e nel male.
Se per i Pantera (e ovviamente Phil Anselmo) posso parlare a braccio scrivendo su di loro veri e propri papiri, con i Gojira forse non basta neppure documentarsi, tanto sono lontani dai miei gusti e dalle mie conoscenze, che si limitano allo stretto necessario. Da sempre guidati dal vocalist Joe Duplantier, i francesi hanno fatto passi da gigante nella loro evoluzione stilistica che li ha portati ad essere uno dei gruppi più attrezzati e seguiti della “nouvelle vague” del techno-death continentale, pur essendo in circolazione da ormai più di un ventennio, ma, personalmente parlando, li ho sempre trovati forse troppo freddi ed estranei alla mia concezione musicale. Tecnicamente ineccepibili e con quel tiro giusto, ad hoc per accontentare anche i fans più smaliziati, dei Gojira in azione sul palco del Rock The Castle mi viene da sottolineare una notevolissima versione di ‘Flying Whales’ (brano nevralgico di ‘From Mars To Sirius’ del 2005 e che dei transalpini è stato forse l’album spartiacque, vale a dire quello che mise letteralmente il pepe al culo alla Listenable), e il più recente ‘L’Enfant Sauvage’, a ricordo di una band più contemporanea la quale, mutevole e per certi versi geniale, ha rivoluzionato dinamiche e modus operandi. Ma, come ho detto, sono spiacente, la chimica non scatta proprio, ed è meglio quindi fermarsi ai saluti e alle formalità di rito…
Ma quello che adesso rende l’aria così acre e pesante, al Castello Scaligero di Villafranca, è la sensazione netta che, sì, stavolta siamo alle strette finali, ragion per cui ognuno di noi si catapulta sotto il palco per tributare il giusto omaggio a chi, coscienziosamente, ha scelto di dire basta. Ma l’essere sotto il palco, il trovarsi nel pit degli Slayer è voler quasi a tutti i costi far da vittima sacrificale, al cospetto di uno dei live act più brutali che la Storia del metal ricordi. Se non il più brutale, probabilmente il più pericoloso, è per i veri temerari, quelli che fan collezione di lividi e cicatrici, affrontare a viso aperto il pit dei californiani… Stasera è per l’ultima volta, e, come agli albori del mio lungo sodalizio con gli Slayer, scavalco la folla e mi piazzo nelle primissime fila, poiché da qui posso regger agevolmente l’impatto, del raggelante ghigno di Tom Araya, affiancato dall’impassibile Kerry King, tanto stentoreo, quanto mortale, come guitar riffing, look e portamento. Conoscete un chitarrista più duro e cazzuto di Kerry? Beh, io no, e credo ne dovrà scorrere di acqua lungo i fiumi prima solo di intraveder l’erede del chitarrista originario di Los Angeles. Il quale anche stasera, ultima tappa italiana del Final World Tour, attacca immediatamente a menar fendenti, con precisione chirurgica e una ferocia direi atavica, senza mai rallentare, senza mai placarsi. ‘Repentless’ è appena terminata, il parossismo iniziale è stato sconvolgente, tra fiammate e croci rovesciate i sacri dogmi della dottrina slayeriana sono pronti per essere adorati, da noi discepoli del Male. Gli Slayer sono il Male. Cupo. Ancestrale. Assoluto. Fateci caso. È una Trinità anch’essa, ma rovesciata, più carnale che spirituale. ‘Evil Has No Boundaries’, qui sono gli Slayer primordiali che innescano la scintilla, e tra ‘Blood Painted World’ e ‘Hate Worldwide’ incastonano una ‘Postmortem’ a velocità lancinante, quasi raddoppiata, mentre sotto il palco è massacro, è follia, non si contano i corpi che si scontrano, sudati e affaticati, è un ritorno alle origini, è un richiamo agli istinti primari. ‘War Ensemble’, ‘Gemini’, ‘Disciple’. Non c’è tregua. Non c’è redenzione. E solo la crudezza di una band tanto grande e spietata come gli Slayer lo può incidere nella carne, inesorabilmente. Tom Araya, in tenuta rigorosamente all black, sorriso satanico e soddisfazione alle stelle, non si perde in chiacchiere ed eleva i ritmi alla massima potenza, se poi alle sue spalle c’è un tipo che risponde al nome di Paul Bostaph, il gioco viene semplice e i cancelli dell’Inferno immediatamente spalancati. Sotto i colpi di ‘Chemical Warfare’ e ‘Payback’ viene lecito domandarsi del perché gli Slayer voglian gettar la spugna, non sempre li abbiamo assaporati a questi livelli, specie di recente. Ma, forse, la grandezza di questa band, votata sì all’oltranzismo ma amata da molti artisti anche insospettabili, sta anche nel volersi congedare all’apice della sua maturità, e stanotte, tra le mura del Castello Scaligero, ne prendiamo atto, quasi con dolore, nel fisico e nella mente. Gary Holt, nel pomeriggio, alla stampa lo ha dichiarato, non ci sarà nessun ripensamento, gli Slayer saranno presto un capitolo chiuso per sempre, e lui, in testa, ha già i passi futuri che lo vedranno parte in causa negli Exodus, la sua navicella madre per il momento affidata a Steve ‘Zetro’ Sousa. Stilare ancora il bollettino di guerra forse non ha più senso, ma ‘Seasons In The Abyss’, ‘Hell Awaits’, ‘South Of Heaven’ e ‘Raining Blood’ sono da tramandare ai posteri, per violenza esecutiva e perversa perversione. Con il livido finale affidato a ‘Dead Skin Mask’, dedicata allo psicopatico Ed Gein che tanto amava vestirsi di pelle umana, e alla controversa, sinistra ‘Angel Of Death’, raggelante affresco sugli orrori di Auschwitz. Un epitaffio tanto violento emotivamente parlando forse lo speravamo, ma non forse credevamo fosse davvero possibile, con un Tom Araya che a fine concerto pare non voler più abbandonare il palco, salutando il pubblico, il suo pubblico, incredulo e spiazzato… Tom, che pure avevo visto all’opera sul palco dell’Hellfest solo due settimane prima, qui a Villafranca è apparso più dispiaciuto e provato, nel congedarsi dai suoi fans italiani, e questo la dice lunga su quanto sia stato speciale il commiato avvenuto in questa seconda edizione del Rock The Castle.

FOTO DI EMANUELA GIURANO

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