Slayer – Siamo sul serio pronti a salutarli?

Il 12/06/2018, di .

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Slayer – Siamo sul serio pronti a salutarli?

Still Raising The Unholy Alliance! Ci avviciniamo all’ora del commiato da una delle band che meglio di molte altre ha saputo tenere fede al proprio istinto metal senza mai svendersi o piegarsi al compromesso, chiamando a sé, sull’onda di uno stile personalissimo, morboso e cruento quanto basta, una fanbase sterminata, composta da legioni su legioni di fedelissimi thrasher pronti davvero a tutto. Da Los Angeles, gli Slayer, probabilmente la più famosa formazione di “metallo estremo” del mondo, i quali, agli albori dei famigerati anni Ottanta, pensarono bene di dare voce alle loro pulsioni adolescenziali e sfogando tutta la loro passione per Judas Priest, Venom e l’hardcore punk così tanto in voga in California. Gli esordi di Tom Araya & Co. son cosa ben nota a tutti, fin dalla loro partecipazione alla storica compilation ‘Metal Massacre’ (proponendo una ‘Aggressive Perfector’ basilare ma estremamente preziosa, per i destini di una band ancora in embrione a livello esecutivo, però salda e coesa nell’ispirazione sonora) promossa da Brian Slagel, mitico fondatore della Metal Blade Records, label sotto la cui ala gli Slayer incisero i pioneristici primi due album, gettando le fondamenta per uno dei live act più parossistici e micidiali che la storia del rock tutto possa ricordare.

Chi scrive, li vide suonare per la prima volta nel maggio del 1987, allo storico Palatrussardi di Milano, al loro fianco gli Extrema freschi di debutto discografico. Trentuno anni più tardi, resto convinto dell’eccezionalità di quell’evento, più che una “semplice” band, un autentico terremoto nel pieno del suo epicentro sismico, con i Nostri allo zenith della loro forza distruttiva – non dimentichiamo che, solo un anno prima, gli Slayer avevano pubblicato ‘Reign In Blood’, capolavoro assoluto e opera omnia da tramandare ai posteri. Vita natural durante. E pure dopo, se vogliamo. Nonostante gli attriti personali che, proprio a cavallo tra l’86 e l’87, minarono parecchio i rapporti tra Dave Lombardo, giudicato “colpevole” di portarsi dietro in tour la moglie Theresa, e gli altri tre del gruppo, con in testa l’intransigente Kerry King che vedeva la signora Lombardo come il fumo negli occhi, una crisi interna che portò il batterista di origine cubana ad abbandonare clamorosamente la band. Alla vigilia di un passo importante, fondamentale come la tournée in Europa, dove gli Slayer si sarebbero giocati le loro carte migliori. Solo un certosino lavoro di diplomazia e più di una “concessione” al drummer, scongiurarono il forfait che, altrimenti, si sarebbe rivelato probabilmente fatale per i destini del gruppo californiano. Un gruppo che, nell’insieme, è sempre stato eccezionale per coesione, precisione chirurgica nelle sue parti musicali e brillantezza compositiva, ma di cui non possiamo dire altrettanto se esaminiamo gli Slayer al di fuori della loro sfera artistica, quattro individui molto diversi tra loro, con in comune forse solo la loro adolescenza trascorsa tra Long Beach e South Gate, popoloso sobborgo a maggioranza ispanica della Contea di Los Angeles. Questa loro diversità a livello personale, paradossalmente, si è rivelata un’arma vincente, snodo decisivo per affrontare (e sconfiggere, implacabilmente) una concorrenza folta e agguerrita ma che, a ragion veduta, non poteva competere con la loro ferocia esecutiva, imbastita a velocità folli e dal fascino morboso.

L’alleanza resta tutt’ora salda, il patto stretto tra Kerry King e Tom Araya, leader “silenziosi” ma incontrastati, è più che mai sigillato anche adesso che ci avviamo verso le battute finali di questa “sanguinolenta” avventura marchiata Slayer, chiamata al passo d’addio dopo quasi quarant’anni di carriera. La tragica morte di Jeff Hanneman, avvenuta cinque anni fa, ha decisamente complicato i piani, per non dire dei rapporti in seno al gruppo in quanto il biondo chitarrista, seppur sempre piuttosto schivo e riservato, aveva comunque importante voce in capitolo, oltre che essere il perfetto “collante” tra le personalità autorevoli e forti di Araya e King. Fatto sta che adesso, mentre sul fronte artistico tutto è pianificato e messo in preventivo fino a quando verrà calato il sipario definitivamente – dopo il tour americano, sarà la volta dell’Europa (una tappa sola in Italia, il 20 novembre al Mediolanum Forum di Assago, una data praticamente già sold-out, come era anche lecito attendersi), e poi toccherà all’Asia, prima di dedicarsi a una serie di festival esclusivi che incendieranno l’estate del 2019 – le priorità si sono trasformate a livello individuale, con Tom Araya che ha deciso di abdicare, e di farlo sterzando in maniera netta in favore della sua famiglia, pare sia finalmente venuta l’ora di dedicarsi completamente al gigantesco ranch che lui e sua moglie Sandra hanno in Texas. Con buona pace di King, il quale, conoscendo la sua fame insaziabile per tutto ciò che “sa” di metallo, lo aspettiamo già in campo per un infuocato giro futuro coinvolgendo magari anche gli altri due “orfani”, Gary Holt e Paul Bostaph specialmente.

FOTO D’ARCHIVIO DI PIERGIORGIO BRUNELLI (1988)

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