Anthrax – Soul Of A New Machine
Il 19/05/2003, di Fabio Magliano.
Polemiche, problemi contrattuali, cambi di line-up, non hanno per nulla inciso sulla voglia di fare musica degli Anthrax che, cinque anni dopo il controverso ‘Volume 8’ tornano alla carica con una lavoro decisamente positivo, ricco di quell’aggressività che ne ha segnato il passo nei primi anni di carriera ma allo stesso tempo moderno e sperimentale come ogni album della band newyorkese. In vista dello show milanese in programma il 25 marzo che già ora si preannuncia incendiario, abbiamo fatto il punto della situazione con un sempre disponibile Scott Ian
Sono tornati per noi. Per dimostrarci, in attesa dei Testament e del come back dei Metallica (anche se, in questo senso, sono in pochi a nutrire speranze) che la vecchia guardia del thrash a stelle e strisce è ancora in grado di fare danni. Dopo tutto, ma questo già si sapeva, gli Anthrax sono come il buon vino che invecchiando migliora, piace agli “attempatelli” che ritrovano in esso tutte quelle caratteristiche che ne hanno delineato negli anni il successo, ma piace pure ai più giovani che ben riescono ad evidenziarne l’ aspetto fresco e, perché no? Alternativamente “trendy”. E ‘We’ve Come For You All’, l’atteso, nuovo lavoro in studio del combo newyorkese, segue fedelmente quanto appena detto, sfoggiando quel thrash che aveva portato gli Anthrax negli anni ottanta a completare quel poker da urlo assieme a Metallica, Slayer e Megadeth e che lo farà ben accogliere dai fans più tradizionalisti, senza però dimenticare quel tocco di freschezza e di folle sregolatezza che ha sempre segnato il passo di John Bush e soci e utile per rendere l’album maledettamente attuale. E poco importa se alcuni contrattempi hanno pesantemente segnato la vendemmia…pardon, la lavorazione del disco. Polemiche post 11 settembre, inserti di nuovi musicisti, problemi contrattuali non hanno affatto segnato la qualità del disco che abbiamo per le mani, né l’umore dell’inossidabile Scott Ian che, rilassato e disponibile come non mai, ha accettato di buon grado di affrontare questo nuovo confronto.
‘We’ve Come For You All’, un titolo che parrebbe quasi un tributo, una sorta di ringraziamento a tutti quei fans che vi sono stati vicini nei momenti difficili…
“Sicuro, è una cosa molto giusta quella che dici! Francamente, potrebbero esserci molte interpretazioni per questo titolo, e potrebbe non essercene nessuna! Alla fine quello che conta è quello che tu vuoi leggerci dentro, ed il suo significato reale è quello che tu vuoi dargli. Io posso dirti quello che significa per me: ‘We’ve Come For You All’ è una sorta di esortazione, siamo noi che vi diciamo: ‘Hey, gli Anthrax sono tornati e questo è il nostro nuovo album. Mettilo su, ascoltatelo e evadi dalla tua realtà, anche se solo per cinquantacinque minuti e vedi di divertirti!’. Dopo tutto questo è un disco: divertimento. E’ come andare al cinema a vederti un film, come leggerti un libro che ti appassiona: è divertimento, è il momento in cui la tua immaginazione galoppa e ti estranea da tutto quello che ti circonda”.
Ti ho posto questa domanda anche basandomi sull’immagine in copertina, tutte quelle mani che paiono volervi tirare fuori di peso da un periodo non particolarmente felice della vostra carriera…
“Anche in questo caso si deve parlare di interpretazione personale, perché è stato l’autore della cover, Alex Ross, a realizzarla basandosi proprio sul titolo del disco. E’ una sua personale idea, è un’interpretazione del tutto soggettiva. A me l’unica cosa che interessa è sapere che ha disegnato la copertina ad uno dei migliori dischi di sempre degli Anthrax. Ora, mi spieghi per favore cosa intendi per periodo non felice per la band?”.
Beh, sino a ‘Volume: 8’ la vostra discografia aveva seguito un corso abbastanza regolare, quindi cinque anni di silenzio intervallati dalla pubblicazione di un greatest hits che lasciava presagire nulla di buono. Se poi ci metti tutte le parole spese dopo l’11 settembre sul vostro nome, i cambi di line-up, il cambio di label e tutto il resto, capisci come, negli ultimi tempi, si sia parlato della tua band più per il contorno che per la sua musica…
“Guarda che cinque anni tra un disco e l’altro non sono affatto tanti! I Guns’n’Roses ce ne stanno mettendo molti di più! A parte questo, sarebbero stati tanti se ce ne fossimo stati con le mani in mano a fare nulla, invece ci siamo sempre tenuti svegli, abbiamo perso un contratto discografico e ci siamo subito sbattuti per trovarne un altro, siamo stati a lungo in tour, personalmente mi sono dedicato agli S.O.D suonando molto dal vivo anche con loro e, nonappena ci sono state le condizioni ottimali, abbiamo iniziato a lavorare al nuovo materiale… ecco perché cinque anni possono sembrare molti ma in realtà non lo sono!”.
Venendo al disco, ‘We’ve Come For You All’ riesce a fare incontrare il lato più moderno ed attuale degli Anthrax, quello espresso in un brano come ‘Superhero’, ad esempio, con la vostra attitudine thrash più classica, così come mostra la splendida ‘Nobody Knows Anything’. Pensi che questa “ricerca” sonora sia stato l’obiettivo della band al momento di incidere il nuovo disco?
“No, non mi piace vederlo così, perché significherebbe andare contro a quella che da sempre è stata la filosofia della band. Quando anni fa, abbiamo iniziato a suonare, abbiamo deciso di non porci mai limiti, di non pianificare mai quello che avremo dovuto fare, quindi avevamo sempre il quadro completo e nitido della situazione solamente una volta ultimata la registrazione del disco. La stessa cosa è successa per questo album: non mi sono mai posto il problema se quel brano suonava troppo moderno, o se quell’altro era troppo classico e, onestamente, non sarei stato capace di dirlo visto il mio grado di coinvolgimento nella realizzazione del disco, non avrei avuto un quadro oggettivo della situazione che mi consentisse di capire che direzione stava prendendo il nostro sound. Oggi che il disco è ultimato posso trarre le mie conclusioni e dirti: sì, ‘We’ve Come For You All’ è un ottimo mix tra il sound di ‘Among The Living’ e il nostro lato più moderno, è un disco completo che contiene tutti gli aspetti migliori del songwriting degli Anthrax, però non è assolutamente stata questa una cosa pianificata in precedenza”.
Come primo singolo avete scelto ‘Safe Home’, una traccia abbastanza anomala, smaccatamente ruffiana e melodica che un po’ si esula dal contesto nel quale è stata inserita. Le ragioni per le quali l’avete scelta come singolo, però, mi sembra non siano puramente commerciali…
“E’ così! La scelta del singolo è caduta su ‘Safe Home’ dopo una lunga discussione e dopo che il disco era stato fatto sentire a più persone. Beh, tutti hanno puntato il dito su ‘Safe Home’ per i messaggi che essa trasmetteva. Certo, è un brano che rimane in testa istantaneamente e viene ricordato al primo ascolto, ma la cosa più importante è quello che vi è alla base. E’ facile oggi identificarsi con ‘Safe Home’, soprattutto alla luce di quanto sta accadendo nel mondo. Il suo significato è semplice ma profondo: non esiste posto al mondo più sicuro della propria casa, qui nessuno ti può fare del male, qui ti senti protetto e schermato da quanto accade fuori. E’ un brano nel quale liriche e musica si fondono in un tutt’uno emozionale nel quale l’ascoltatore si immedesima con grande facilità”.
Hai accennato alla delicata situazione odierna nel mondo, al bisogno di sicurezza avvertito dai cittadini ed io non posso tirarmi indietro dal domandarti qual è stata la prima cosa che hai pensato quando è stato sollevato tutto quel polverone attorno al vostro nome e ad un album quale ‘Spreading The Disease’ in concomitanza con l’allarme lanciato negli States per il pericolo “antrace”…
“La prima cosa che ho pensato? Francamente non la ricordo! Ero davanti alla televisione ed ero inebetito. Avevo ancora davanti agli occhi le immagini delle Twin Towers che crollavano ed ero troppo shockato per farmi un’idea precisa di quello che stava accadendo! Come tante persone allora non credevo ai miei occhi e, se devo essere sincero, ancora oggi fatico a rendermi conto di quello che è accaduto! Riguardo all’ “attacco all’antrace”, la cosa mi ha disorientato non poco, ero confuso, non sapevo cosa fare. Il nome Anthrax lo utilizziamo da più di vent’anni e, per più di vent’anni, l’unico Anthrax (antrace) di cui si parlava eravamo noi. Oggi ci siamo trovati di fronte al “real anthrax” e la cosa ci ha spiazzato. Ci siamo chiesti più volte ‘e adesso cosa facciamo?’, Perché era una cosa troppo seria per essere ignorata, alcune persone sono morte e non potevamo permetterci di prenderla alla leggera! E la cosa che più ci disturbava era il fatto che, prima dell’attacco all’antrace, Anthrax era solo una heavy metal band che voleva portare gioia, positività e divertimento alla gente, mentre dopo è diventato sinonimo di morte. Abbiamo allora sperato che l’allarme cessasse, ed è cessato. Ora la nostra speranza è che Anthrax torni ad essere solamente una fonte di divertimento e nient’altro”.
Cambiando totalmente discorso. In passato avete inciso alcune canzoni con i Public Enemy (celeberrima ‘Bring The Noize’) fondendo per la prima volta il metal con il rap e la cosa fu all’epoca additata come insolita e altamente sperimentale. Oggi questa fusione è cosa assai comune tra le band nu-metal. Vi sentite in qualche modo “padri” di tutti questi giovani gruppi che stanno spopolando ultimamente…
“No, assolutamente, anzi, ad essere sincero non me ne frega niente di quelle band e non le ho mai ascoltate! Nel 1991 volevo lavorare con i Public Enemy e l’ho semplicemente fatto, giusto per soddisfare un mio desiderio artistico. Non ho mai pensato un solo istante alle conseguenze che questo poteva portare, alla strana alchimia tra metal e rap e a quello che i fans potevano pensare. Tra i giovani gruppi, se così si possono chiamare, adoro i Rage Against The Machine per il fatto che sono riusciti a creare un loro sound estremamente personale, ma a parte loro non conosco nessun gruppo nu-metal e non sono interessato ad approfondire questo lato della musica”.
Non ti vedi, quindi, nei panni del “pioniere” in un genere oggi fin troppo inflazionato?
“Rick Rubin, il produttore, lui è il vero pioniere! E’ stato lui il primo a credere nel positivo utilizzo delle chitarre heavy metal in un disco hip-hop e ad attuarlo in un disco di Run DMC. Ed è stato lui ad ispirarmi e a farmi sognare una collaborazione con i Public Enemy. E’ stato lui il primo a far incontrare con fortuna questi due generi ed è giusto attribuirgliene il merito”.
Tra i tanti tour di successo da voi tenuti, ce n’è stato uno particolarmente felice che vi ha portati, nel 1987 in Italia assieme ai Testament. Ricordi qualcosa di quell’esperienza?
“Non ricordo nulla di particolare, di specifico, però ricordo vivamente quel tour perché è stata la nostra prima, grande esperienza live come headliner. E’ stato qualcosa di indimenticabile perché ci ha fatto toccare per la prima volta il successo, è stato un segno tangibile che gli Anthrax non erano più solo una interessante underground band. Tre anni prima ‘Fistful Of Metal’ aveva visto la luce e nessuno sapeva chi fossimo, mentre tre anni dopo eravamo al Palatrussardi di Milano davanti a cinquemila persone…una sensazione strana, credimi, che anche noi stentavamo a comprendere. Era un continuo alternarsi di tour e lavoro in studio e, se da un lato era tutto bellissimo perché eravamo molto impegnati, suonavamo molto, nel gruppo girava tutto alla perfezione… dall’altro mi spiace non aver goduto a fondo di questo momento, proprio perché il lavoro non me lo permetteva! Cosa ricordo di quel tour? Ricordo una sera a Chicago, era dicembre, e noi eravamo reduci da una fortunata serie di concerti negli States. Ad un certo punto ho incrociato lo sguardo con Charlie ed è venuto da chiederci: ‘Che cosa ci facciamo qui?’. Solo sette mesi prima suonavamo davanti a seicento persone, adesso avevamo davanti seimila persone. ‘Come cazzo ha fatto a succedere tutto questo?’. Era qualcosa di incredibile! E non c’era la radio a spingerci, e neppure MTV… è stato tutto un fatto di passaparola, e questo dà ancora maggiore valore a quello che abbiamo ottenuto”.
E’ stato quello il momento in cui hai capito realmente che cosa significava la parola “successo”?
“No, ho capito cosa fosse il successo molto prima, nel 1986, quando ho lasciato la casa dei miei genitori per andare a vivere da solo. Non facevo nessun lavoro, suonavo unicamente nella band, e questo mi dava i soldi per pagarmi l’affitto e le bollette. Questo è per me il successo. Fare ciò che volevo, che mi piaceva e trarre da questo il denaro sufficiente per pagare i miei conti. Non chiedo di più. Non sono la persona da mega villa e auto strafiga, il successo è qualcosa che si prova dentro, è qualcosa di intimo, assolutamente non materiale! Anche oggi, dopo tour in tutto il mondo e decine di dischi incisi, il successo è questo, non ha assolutamente cambiato significato”.
Sei senza dubbio uno degli interlocutori più ciarlieri ed espansivi che un giornalista possa incontrare. Non ti capita mai di annoiarti durante le interviste e trovare noioso rispondere sempre alle stesse domande?
“E’ una cosa strana, perché mi viene sovente da pensare, soprattutto all’inizio di una giornata promozionale, a quanto sia noioso dover star seduto un altro giorno davanti a giornalisti che mi fanno sempre le stesse domande e dover dare sempre le stesse risposte. Poi, però, penso alla mia fortuna, al fatto che non si tratta unicamente di starmene qui seduto e fornirti risposte precotte… ogni volta è un’esperienza nuova, è un incontro con gente nuova, è un continuo confronto che può risultare anche stimolante. Se mi limitassi a risponderti come ho risposto al tuo collega allora sì che sarebbe noioso e mi porterebbe ad addormentarmi, ma se cerco di andare a fondo alle cose, mettendoci il giusto rispetto verso chi mi chiede di parlargli di ciò che io amo fare, allora ogni intervista diviene per me qualcosa di altamente costruttivo”.
A marzo sarete nuovamente in Italia. Che rapporto avete con il pubblico italiano?
“Magnifico! Assolutamente magnifico! Per noi gli italiani e gli spagnoli sono in assoluto i fans europei più caldi e appassionati. Sono pazzi, talmente pazzi da fare in alcuni casi perfino paura! Mi ricordo una volta, qui a Milano; dovevamo suonare al Palatrussardi ed io ero su un taxi che dall’hotel doveva portarmi al luogo del concerto per il soundcheck quando, fuori dal locale, siamo stati bloccati da tantissimi fans in attesa. Un centinaio di persone sono saltate addosso al taxi, c’erano ragazzi che lo scuotevano, che ci salivano sopra, che lo percuotevano…una scena impressionante! Il tassista, che non sapeva assolutamente chi aveva preso su, era terrorizzato, si è messo ad urlare qualcosa in italiano che, presumibilmente, doveva essere qualcosa tipo ‘Levatevi dai coglioni! Lasciate stare la mia macchina!’ eppure i ragazzi non si toglievano. Alla fine ho tirato giù il finestrino e mi sono messo a firmare autografi e a tranquillizzarli, ma era comunque un delirio, perché c’era gente che cercava di abbracciarmi, che mi tirava fuori la testa dall’auto e me la baciava… credimi, erano totalmente…come si dice in italiano? Pazzi! Se saranno così anche il 25 marzo ci sarà da divertirsi!”.