Whitesnake – Ready & Willing

Il 12/02/2011, di .

Whitesnake – Ready & Willing

‘Forevermore’ è l’album che segna il ritorno sulle scene dopo tre anni di silenzio dei Whitesnake. Un disco energico, emozionante, ispirato, in grado di riportare il “Serpente Bianco” ai fasti del passato. A presentarcelo è un David Coverdale in grande forma, pronto a svelarci tutti i segreti del “nuovo nato” prima di un’inaspettata quanto interessante scivolata nel mondo dell’enologia…

I più accorti lo chiamano “vecchio marpione”. I più innamorati, “autentico gentleman”. I più rustici, “grandissimo paraculo”. Tutti e tre, in un modo o nell’altro, ci azzeccano in pieno e, comunque, saranno d’accordo nel definire David Coverdale una “leggenda”. Perché chi ci si para davanti della musica dura ha fatto la storia e forse anche per questo sa come trattare il suo interlocutore. Lo coccola, lo considera, lo tratta da pari, alla faccia di quei giovani parvenu che ancora molto hanno da imparare riguardo al successo ed alla sua gestione. Un piacere doppio, questo, che segue a ruota quello provato dall’ascolto di ‘Forevermore’, la nuova fatica griffata Whitesnake in grado di riportare la band ai fasti del passato, grazie ad un esplosivo mix di blues, hard rock e ammiccamenti radiofonici sempre contrassegnato dall’incredibile voce di “Mr. Loverman”, nostro amabile interlocutore d’eccezione.
‘Good To Be Bad’ ha visto la luce 11 anni dopo ‘Restless Heart’ mentre tre anni sono passati tra ‘Good To Be Bad’ ea ‘Forevermore’. Pensi che i differenti tempi di gestazione abbiano in qualche modo influito sul songwriting dei due album?
“(David Coverdale) Questa è una bella domanda! Diciamo che è cambiata la prospettiva dalla quale sono stati visti e concepiti questi due lavori. ‘Good To Be Bad’ è uscito a distanza di undici anni da un disco che, anche se pubblicato con il marchio Whitesnake, era per me più che altro un disco solista, quindi seppur molto valido ed estremamente importante per la mia carriera, non rappresentava i Whitesnake al 100%. Per questo quando abbiamo iniziato a lavorare a ‘Good To Be Bad’ avvertivamo pesantemente l’esigenza di comporre qualcosa che rispecchiasse a pieno ciò che eravamo, che dicesse al mondo che i Whitesnake erano vivi, vegeti e in perfetta forma. Abbiamo quindi cercato di inserire in un solo disco tutti quegli elementi che ci avevano caratterizzato nel corso della nostra carriera, quasi a voler dire ‘hey, guardate cosa vi siete persi in tutto questo tempo!’. Poi la pubblicazione dell’album è stata preceduta da cinque anni di tour e concerti, e questo ci ha consentito di dare un’impronta molto live a quel disco. ‘Forevermore’ ha avuto una gestazione differente, il processo di songwriting è stato molto più mirato e concentrato nel tempo, in questo modo i brani suonano forse più freschi, più diretti. Pur non volendoci far mancare nulla inserendo tutte quelle che potevano essere le nostre principali influenze, abbiamo realizzato un album che suona energico, potente, molto Whitesnake ma allo stesso tempo di concezione molto moderna. Ecco, rispetto al disco precedente abbiamo voluto puntare maggiormente il dito sull’aspetto più diretto del nostro sound e credo che questo sia facilmente intuibile sin dal primo ascolto dell’album”.
Se guardi ora, che lo hai tra le mani, ‘Forevermore’, cosa vedi in esso?
“Ci vedo un lavoro completo. Dentro è possibile trovare tutto quello che si potrebbe desiderare dai Whitesnake, dal blues al soul, dal rock più duro a hooks più melodici, senza tralasciare le ballate, perché non potrebbe esserci un disco dei Whitesnake senza un tocco di romanticismo. Mi piace pensare che questo possa essere un disco in grado di mettere d’accordo un po’ tutti, abbattendo qualche barriera stilistica che ancora divide i vari generi. Penso che chi ama il rock duro possa amare ‘Forevermore’, così come potrebbe piacere a chi ama il blues. Noi abbiamo voluto realizzare un lavoro onesto puntando il dito su quello che piaceva a noi, senza pensare troppo a quelle che erano le mode o che la gente avrebbe voluto ascoltare. Il risultato è un disco molto vario che, sono certo, incontrerà i favori di più tipi diversi di ascoltatori”.
Tra le tracce di questo lavoro appare quanto mai evidente l’impronta di Doug Aldrich. Quanto reputi importante la vostra particolare chimica al fine della buona riuscita di ‘Forevermore’?
“Con Doug ho un feeling molto forte, e la sua influenza su questo disco, così come era stato per ‘Good To Be Bad’, è molto pesante. E’ una persona molto positiva che infonde positività lavorandoci assieme. Non voglio soffermarmi sulle sue doti tecniche perché penso che sia agli occhi di tutti quanto talentuoso sia come chitarrista, ma lasciami dire che umanamente parlando è un tassello importantissimo per i Whitesnake. Durante la lavorazione di questo disco ha tirato fuori idee, ha creato assoli geniali, ha dispensato consigli… ha messo molto di lui in questo album. Se ‘Forevermore’ suona così energico e diretto, è soprattutto grazie a lui”.
Nell’agosto del 2009 hai dovuto lasciare il palco del Red Rock Amphitheatre di Morrison dopo 4 canzoni a causa di una lesione vascolare alla gola. Oggi, sentendoti cantare su ‘Forevermore’ si direbbe che è tutto risolto…
“Infatti non sono mai stato meglio! Certo, mi sono preso un bello spavento perché per un cantante non riuscire più a cantare, anche solo per una sera, è un vero incubo. Fortunatamente non era niente di grave, bastava solo un po’ di riposo per rimettere tutte le cose a posto e io non ho dovuto fare altro che rispettare le direttive dei medici. Certo, mi è pesato moltissimo dover cancellare quella parte del tour, però con la salute non si scherza… Dalla mia ho avuto la fortuna che nel corso della mia carriera non ho mai avuto seri problemi alla voce, non sono mai stato un malato cronico, quindi una volta trovato il problema e determinata la cura, sono tornato in perfetta forma. Il fatto è che la voce è il più delicato degli strumenti, ed è anche il più imprevedibile. Ho sempre avuto estrema cura della mia voce ma come vedi non è stato abbastanza… però fino a che ci si trova qui a parlare di un incidente di percorso, va più che bene”.
Sinceramente, nel momento in cui si è manifestato il problema, non hai temuto di non essere più in grado di continuare a cantare e di dover chiudere lì la tua carriera?
“Sicuramente nella tua mente scatta qualcosa, ma è più che altro un timore figlio del momento. Io ho avuto la fortuna che in tempi brevi mi è stata comunicata l’esatta entità del problema e sono stato rassicurato sulla perfetta guaribilità della cosa, quindi non ho avuto il tempo di cadere in depressione e indagarmi sulle ripercussioni che questo avrebbe potuto avere sul prosieguo della mia carriera. Quello che è certo è che, a posteriori, ti trovi a chiederti cosa sarebbe successo se il danno fosse stato irreparabile, ti chiedi come avresti reagito in caso di diagnosi negativa, ed inevitabilmente ti trovi a apprezzare molto di più alcuni aspetti della tua attività che prima di allora consideravi trascurabili. Ed infatti la prima prova fatta una volta ristabilito è stata di un’incredibile intensità”.
Ma non ti viene mai da pensare “Ok, il mio l’ho fatto, ormai sono arrivato e posso anche dedicarmi ad altro”?
“Io non mi sento affatto arrivato, se no penso che mi sarei già fermato da tempo. La musica è una sfida continua, puoi solo crescere ed imparare. Io ho sempre adottato questa filosofia di vita in tutto ciò che ho fatto e se oggi continuo a fare dischi, è perché in cuor mio so di poter fare di più”.
Ma dopo aver venduto milioni di dischi in tutto il mondo, dopo aver fatto concerti davanti a folle oceaniche, dopo aver cantato con Deep Purple e Jimmy Page, dopo essere stato inserito tra le voci più influenti nel mondo del rock… qual è questo “di più” per David Coverdale?
“Non lo so, non ne ho la più pallida idea, ed è per questo che vado avanti. Forse è avere in testa quella fastidiosa convinzione e quella malsana ambizione di poter fare sempre di più e sempre meglio. Oggi ti parlo in toni entusiasti di ‘Forevermore’, ma in cuor mio ho la volontà in futuro di incidere un disco ancora migliore, quindi lavorerò per provare a raggiungere questo obiettivo. Non sarà semplice, non è detto che ci riesca, però dopo quasi quarant’anni di carriera vai avanti con la forza degli stimoli, la tua vita è un continuo metterti alla prova, una ricerca di nuove sfide, ed il disco successivo sarà sempre una sfida da vincere a ogni costo”.

WHITE-SNAKE & RED WINE

“Fabio, tu in che parte d’Italia vivi?” Basta una domanda, apparentemente insignificante, per cambiare radicalmente la direzione dell’intervista, deviarla totalmente dall’ambito musicale portandola inaspettatamente su un piano enologico insolito ma non per questo meno affascinante. Già, perché anche Mr. Coverdale, così come altri suoi illustri colleghi, Geoff Tate su tutti, è stato contagiato dal virus di Bacco tanto da arrivare a battezzare con l’effige del “Serpente Bianco” un vino rosso prodotto dalla casa vinicola californiana De La Montanya, un Zinfandel che lo stesso Mr. Coverdale non esita a definire “Molto corposo, dal gusto sfrontato con quel suo retrogusto speziato in grado di renderlo estremamente sexy”. Appreso che il sottoscritto ha radici nella Langa del Dolcetto e del Barbaresco ma, soprattutto, del “re” Barolo, la “voce del rock” non ha esitato a soffermarsi su questa sua grande passione, rivelandosi un vero esperto in materia nonché fine intenditore. “Adoro il Barolo – afferma entusiasta – ho un debole per i vini francesi ma il mio amore per i rossi italiani è immenso. Pensa che fu proprio un bicchiere di un vino proveniente dalla tua terra a svezzarmi quando ero ancora bambino. Avrò avuto dieci anni e una mia zia tornata da un viaggio in Italia ci portò una bottiglia di vino rosso. Ne assaggiai un dito, e pur non essendo ancora in grado di comprendere bene di cosa si trattasse, mi resi conto che doveva essere qualcosa di speciale. Qualche anno più tardi conobbi il piacere di pasteggiare con una bottiglia di Chianti ed in quel momento esplose l’amore. All’epoca ero poco più che un ragazzino, il vino non era bevanda per un esponente della working-class come il sottoscritto, quindi ogni bicchiere aveva un sapore ancora più speciale. Una volta entrato nei Deep Purple, sotto questo punto di vista, cambiò tutto, perché mi si spalancò davanti un mondo. Feci la conoscenza con i vini francesi, ogni viaggio a Parigi era motivo di ricerca e scoperta di nuovi gusti e profumi ed in quel momento la mia “sete” di conoscenza prese davvero il volo”. Tanto da annoverare nella sua personale classifica di vini preferiti, una lunga serie di etichette d’Oltralpe, anche se il Bel Paese, nella “carta dei vini” di Mr. Coverdale, non sfigura di certo. “Mi piace molto il Barolo così come tutti i vini del Nord-Ovest italiano. Ho un debole per il Chianti e giusto l’altro giorno ho stappato una bottiglia di Brunello di Montalcino davvero eccezionale. I miei vini preferiti sono comunque francesi, adoro il Burgundy (rinomato vino rosso prodotto in Borgogna Nda) mentre per le occasioni particolari riservo sempre una bottiglia di Puligny o ancor più di Chassegne Montrachet, un gran cru “da evento”. In ascesa nella speciale lista di gradimento, sono poi i vini americani, in particolar modo quelli californiani che, soprattutto negli ultimi anni, stanno facendo passi da gigante nel mondo dell’enologia “E’ vero, in America il vino è stato riscoperto soprattutto negli ultimi anni. Da europeo fiero e convinto posso dire che i produttori americani sono stati bravi e soprattutto umili nel guardare ciò che succedeva nel mondo dell’enologia in Europa e mettere in pratica quegli insegnamenti che arrivavano dall’altra parte dell’Oceano. Inizialmente snobbavo i vitigni statunitensi, le prime produzioni californiane erano davvero grezze. Poi negli anni i vini sono cresciuti qualitativamente e ora ci sono dei prodotti eccellenti. Se ami il vino, ti consiglio un Cabernet Sauvignon originario della Napa Valley, si chiama Keever ed è davvero ottimo. Ha un che di francese nella sua corposità, sicuramente è un vino di alto livello (e di altissimo prezzo, visto che si parla di oltre 70 euro la bottiglia! Nda)”. E dalla medesima Regione è originario il Whitesnake Zinfandel, il vino nato dalla collaborazione tra David Coverdale e Dennis De La Montanya “Dennis è un grande fan dell’hard rock, in passato aveva già collaborato con Eddie Money producendo un pinot nero ribattezzato ‘Wanna Go Back’ e con i Journey per i quali aveva realizzato un Zinfandel chiamato ‘Revelation’. Quando un comune amico ci ha fatti incontrare è scoccata la scintilla e abbiamo deciso di collaborare. Non nego che, quando mi è stato proposto di dare il nome dei Whitesnake ad uno “zin”, non ero del tutto convinto, perché nel mio modo di vedere il vino, questo nettare deve essere particolare, nulla di canonico (lo Zinfandel è uno dei più comuni vini americani, usato generalmente per pic-nic e barbecue Nda) poi quando l’ho assaggiato, mi sono reso conto che era davvero un ottimo prodotto. De La Montanya vinifica seguendo un metodo tutto suo, ed il risultato è un vino corposo ma meno robusto del Cabernet Sauvignon, dal flavour molto sexy. Esiste anche una versione barricata di questo vino, e devo dire che è notevole. Tra l’altro lo Zinfandel è un vitigno che ha lontane origini italiane, quindi non potevo non andare d’accordo con questo vino!”.

HAMMERTECH
Reb Beach (Whitesnake, Winger…)

Insieme a Doug Aldrich, Reb Beach rappresenta la benzina dei nuovi Whitesnake, un chitarrista di grande spessore avendo avuto modo, negli anni, di mettere la sua ascia al servizio di band del calibro di Winger, Dokken, Alice Cooper, fondamentale con il suo carisma e con la sua esperienza per la perfetta riuscita dell’ottimo ‘Forevermore’.
Come può essere inquadrato da un punto di vista chitarristico, un disco come ‘Forevermore’?
“’Forevermore’ è un disco sicuramente molto ispirato. Abbiamo lavorato a stretto contatto io, Doug e David ed abbiamo tirato fuori degli assoli splendidi che non fanno altro che valorizzare ulteriormente un disco già di per sé eccellente. In generale si tratta di un album molto valido, personalmente lo preferisco a ‘Good To Be Bad’ perché rispetto al suo predecessore ‘Forevermore’ ha seguito una linea molto meno elaborata è più catchy. Trovo ci siano melodie migliori, che si sia voluta valorizzare maggiormente l’anima melodic rock di questo disco e per quelli che sono i miei gusti, è stato decisamente meglio così”.
E’ cambiato qualcosa nel tuo modo di “vivere” i Whitesnake da ‘Good To Be Bad’ a ‘Forevermore’?
“Il mio grado di coinvolgimento in questo disco è stato sicuramente maggiore rispetto al disco precedente. Ho passato molto tempo a casa di David a tirare giù idee, a discutere, a elaborare spunti che si sono poi trasformati in canzoni. Da un punto di vista chitarristico ho avuto più spazio e, cosa che mi riempie di orgoglio, ho cantato molto in questo lavoro. E credimi, avere la possibilità di duettare con Mr. Coverdale è davvero qualcosa di speciale”
Puoi parlarci del tuo equipaggiamento?
“Il mio equipaggiamento varia a seconda delle band con le quali suono. Certamente con i Winger avrò bisogno di una strumentazione differente rispetto a quella utilizzata con i Whitesnake, però in generale non sono uno di quei chitarristi che si presenta sul palco carico di effetti. Datemi la mia chitarra Suhr e il mio ampli Marshall e io sono contento così. Non ho grandi pretese!”.
Quando hai iniziato a suonare la chitarra?
“Ho iniziato a suonare molto piccolo. Avevo cinque anni quando i miei genitori mi hanno fatto prendere le prime lezioni di piano. Poi a 13 anni ho conosciuto i Kiss ed il mio mondo è cambiato radicalmente. E’ grazie a loro se ho iniziato a suonare la chitarra. Gene Simmons e soci mi hanno cambiato totalmente la vita, così come lo hanno fatto con migliaia di altri ragazzi”.
Quante ore al giorno ti eserciti?
“Dipende. Quando sono a casa solitamente compongo ma non mi esercito mai. Quando sono in tour, invece, non mollo la chitarra un secondo. Dopo il soundcheck provo per ore, mi riscaldo a dovere e in genere vado avanti a suonare blues anche per quattro ore filate, perché non c’è nulla di meglio per sciogliersi che un bel blues”.

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