Scorpions – Tornati Per Restare

Il 21/01/2016, di .

Scorpions – Tornati Per Restare

Gustare gli Scorpions dal vivo è da sempre esperienza esaltante, riuscire per di più ad intervistare Matthias Jabs proprio qualche minuto prima del suo accesso al palco, un’opportunità da non farsi scappare!

Cinquanta anni di Scorpions, così citano le locandine sparse per il Forum di Assago di Milano, oggi 11 Novembre 2015. Un traguardo notevole, viziato probabilmente da un’interpretazione si troppo permissiva della parabola creativa del gruppo tedesco, ma che suscita sentimenti di profondo rispetto per una realtà assoluta che ha contribuito in maniera determinante allo sdoganamento del rock pesante negli ultimi quattro decenni (il loro disco di esordio ‘Lonesome Crow’ è stato pubblicato nel 1972). Già, perché gli Scorpions hanno radici profonde, in un periodo lontano nel quale l’hard aveva una dimensione del tutto differente rispetto a quella attuale e gli Scorpions non erano nemmeno avvicinabili alle star planetarie che ognuno i voi conosce grazie al fischiettio iniziale della melensa ‘Wind Of Change’. Una carriera in continuo crescendo la loro, tra copertine eccessive (…e censurate, come quelle di ‘Virgin Killers’ e ‘Taken By Force’) e musica ribollente di ammiccamenti espliciti al gentil sesso (non se ne abbiano le nostre generose lettrici). Un rullo compressore fatto di riff al vetriolo e melodie che si stampano per sempre nella mente che ha schiacciato ogni convenzione piegandola alla logica del puro divertimento, quello che si gode in un’arena bene attrezzata pronta ad accogliere il passaggio della band per incensare l’ultimo nato, quel ‘Return To Forever’, che in pochi si aspettavano. Ad essere biechi speculatori questo concerto dovrebbe far parte di quel tanto declamato tour di addio alle scene imbastito ormai qualche anno fa, ma che ormai non ha più alcuna pretesa di essere rispettato. Primo dalla band e poi da un pubblico sempre ricettivo, pronto ad assumere una buona dose di elettricità e volume davanti alle transenne: sta di fatto che il pubblico assiepato all’esterno del palazzetto milanese rumoreggia numeroso e che una volta di più siamo convenuti, tutti, per godere della magia dell’hard rock senza tempo di cui i nostri sono tempo immemore fedeli autori. Accediamo al parterre desolato, illuminato asetticamente da luci alogene bianche, per incontrare Matthias Jabs, chitarrista solista della band di xxx, disponibile per una godibile chiacchierata prima di una performance che si rivelerà esaltante sotto il punto di vista tecnico (ineccepibile) e personale. Per rompere il ghiaccio l’argomento iniziale della nostra chiacchierata verte sul materiale più recente della band, quello estratto dall’ultimo lavoro in studio (‘Return To Forever’, edito lo scorso Febbraio) e dall’appeal dei nuovi brani nella dimensione live degli Scorpions: “Mi fa piacere constatare che la gran parte dei nostri fan abbia reagito in maniera straordinariamente positiva al nuovo materiale. Siamo una band con alle spalle una storia notevole ed è più che naturale che il pubblico voglia sentire i pezzi più famosi o significativi della nostra carriera; scoprire invece che ‘Going Out With a Bang’ oppure ‘We Built This House’ sono normalmente accolte con lo stesso clamore del resto del set ci ha in qualche modo sorpresi. Eravamo coscienti del potenziale di queste due song, ma la prova del palco è un’altra cosa e già dal primo concerto, lo scorso maggio in Cina, ne abbiamo saggiato la portata. Il tour è in pieno svolgimento, siamo già stati in Nord America ed ora tocca alla cara e vecchia Europa. Ci sentiamo in forma e tutto ci fa pensare che sarà un tour trionfale.” La convinzione di Matthias cerca di essere contagiosa, da scafato attore del circus rock’n’roll, ma avvertiamo una certa malinconia quando il discorso si sposta sull’atteggiamento dei fan, oggigiorno meno coinvolti e sempre più esigenti: “Riuscire a rimanere al passo coi tempi significa capire, o meglio, anticipare il trend. Noi lo abbiamo fatto spesso, restando fedeli però alla personalità di questa band: per riuscirci è stato necessario rivedere i principi dell’entertainment. Negli anni ’70 dovevi saper suonare e stare sul palco significava riprodurre al meglio i tuoi pezzi caricandoli di adrenalina, magari sfruttando più l’improvvisazione che il mestiere. Negli anni ’80, quando tutto era patinato e ricco, dovevi trovare la melodia giusta, saper armonizzare i pezzi per renderli sempre più catchy. I ’90 hanno demolito tutte le convinzioni del rock’n’roll e ci hanno traghettato verso una generazione di fan che passa il concerto col proprio IPhone tra le mani ed assimilano le nostre performance attraverso il display dello smartphone. Come rimanere a galla? Creando uno spettacolo nello spettacolo, usando laser show sempre più imponenti accompagnati da enormi pannelli led dove l’aspetto visuale diventa complementare al sound sprigionato dalla band. Sono trucchi costosi, che in un momento di crisi dell’industria musicale appaiono sempre più difficili da gestire, ma è anche l’unico modo per rimanere contemporanei e scacciare l’onta di dinosauri del rock che molti ci vorrebbero cucire addosso!” Il chitarrista è ancora più esplicito circa la divulgazione della musica, oggi sempre più impersonale: “Siamo sopravvissuti a tre ere geologiche: quella del vinile, quella del CD e quella attuale, della musica digitale. Ai tempi del vinile dovevi curare ogni dannato dettaglio e l’artwork di copertina diventava il tuo biglietto da visita verso il mondo esterno. Puoi immaginare da solo l’attenzione capitale circa l’impostazione grafica, personale e comunicativa che una band doveva applicare. Con il CD questa attenzione si è notevolmente ridotta, andandosi quasi a spegnere del tutto con l’era digitale, dove le copertine dei dischi sono visibili alla stregua di minuscoli francobolli. Però c’è un aspetto positivo per band di catalogo come noi: siamo stati capaci di rimettere sul mercato i nostri vecchi album almeno tre volte, no?” Ed è proprio solleticando il passato del musicista di Hannover che il ghiaccio si rompe definitivamente, andando a ripescare addirittura i primi momenti di Matthias negli Scorpions (si parla del 1979 ragazzi): “Mi sono unito alla band sostituendo un mostro del calibro di Uli John Roth, che tra l’altro conoscevo personalmente provenendo dalla stessa area geografica. Entrare nella band è stato come trovare la quadratura del cerchio per gli Scorpions: Uli aveva uno stile molto vicino a quello di Jimi Hendrix, cosa che non aveva alcuna soluzione di continuità con la direzione intrapresa a quei tempi dal gruppo. Il mio sound, seppure fossi in grado di replicare quello di Uli, si proponeva come trait d’union tra l’hard classico dei primi album ed un contributo più personale che fosse in grado di creare quel sound distintivo (letteralmente segnature sound, pronuncia Matthias) che poi ha dato fisionomia agli Scorpions come la maggior parte del pubblico conosce. Senza peccare di superbia, credo che fu proprio ‘Lovedrive’ (1979) a segnare il cambio di passo, accompagnato poi da ‘Blackout’ (1982), il disco della definitiva celebrazione internazionale. Pensa che nell’anno in cui fu pubblicato, ‘No One Like You’ fu il singolo più trasmesso dalle radio americane. A quei tempi non c’era altro, la radio rock era solo ed esclusivamente americana e noi raggiungemmo un successo senza precedenti. Tra i due album fu pubblicato ‘Animal Magnetism’ (1980), un disco che soffrì sin troppo dell’eccessiva premura legata alla pubblicazione: solo 6 settimane, tra registrazione, missaggio, editing e stampa. Per assurdo l’intervento chirurgico […alle corde vocali] a cui fu sottoposto Klaus (Meine, il cantante) ci permise di ottenere il massimo risultato proprio da ‘Blackout’. Sei mesi di tempo, un periodo fantasticamente lungo nel quale concentrare la nostra attenzione circa ogni dettaglio. Se permetti, il risultato ha pagato abbondantemente l’attesa!” La curiosa ricettività del mercato americano ha, secondo Matthias, plasmato anche il modo di stare sul palco della band: “Noi ci siamo fatti letteralmente le ossa in america, come gruppo di apertura, per parecchio tempo. Negli Stati Uniti il concerto era una forma di espressività diversa rispetto a ciò che accadeva in Europa: da noi Eric Clapton saliva sul palco, suonava divinamente per un’ora e mezza e non diceva una parola. In America c’era Ted Nugent che tra un pezzo e l’altro inseriva sermoni incandescenti per incendiare il pubblico. Quello era vero entertainment. Motor City Madman, lo chiamavano, e noi eravamo rapiti dal suo stile. Suonare per il pubblico a stelle e strisce significava saper tenere il palco e noi facevamo di tutto per apprendere questa arte unica. Considera che suonare in Europa, nella migliore delle ipotesi, consisteva nel fare dieci date in Germania, tre in Italia e poi passare attraverso le maggiori capitali. In America suonavi per sei mesi di fila, addirittura nove col tour di ‘Crazy World’ (1990). Gli USA sono diventati rapidamente il nostro target, per il quale ci siamo formati e grazie al quale abbiamo raggiunto il successo vero e proprio.” Segue una interessante disamina di come prende forma un pezzo degli Scorpions: “Il nostro modo di scrivere è cambiato col tempo: quando sei giovane vuoi scrivere di tutto ciò che per te è nuovo, che sia una nuova città, una ragazza conosciuta chissà dove, oppure un’esperienza mistica vissuta in condizioni non proprio consone. Con l’esperienza impari a gestirti ed il tuo pensiero si rivolge ad situazioni diverse, più spirituali se vuoi, ma altrettanto potenti: ‘The Zoo’, ad esempio, è stata scritta per celebrare la devastazione della 42° strada di New York a fine anni ’70. C’erano locali, prostitute e spacciatori ed il nostro manager ci portò li per conoscere qualcosa in più della Grande Mela. Oggi non scriveremmo più lo stesso pezzo, privilegiando magari l’aspetto sociale della cosa. Capisci cosa intendo? Tu sei li per catturare il momento e come artista cresci facendo esperienze, la tua musica riflette esattamente quello che stai vivendo nell’esatto momento e sei bravo se sei in grado di tradurlo per tutti.” C’è però un elemento assoluto che plasma una canzone, che la rende riconoscibile per sempre: “Credo fermamente nel potere del riff. Si tratta della chiave di volta attorno alla quale ruota tutta una canzone: c’è una app, chiamata Soundhound (ragazzi fatela vostra, si tratta di una specie di Shazam ma con una marcia in più secondo esperti del settore, nda), che ti permette di capire se un determinato riff è già esistente sulla piattaforma Youtube o, più in generale, nella rete. Questo aiuta molto quando si tratta di comporre un nuovo brano. Dopotutto il riff rappresenta la porta di acceso di una canzone ed il compositore deve stare molto attento per evitare di ripetersi o copiare qualcosa (anche a livello subliminale, del tutto involontario) che già è stato pubblicato. Il riff è nella nostra cultura, dalla musica classica con Beethoven a quella contemporanea radio friendly (si lancia nel canticchiare il tema principale della sinfonia n°9 del compositore tedesco bissato dallo stile tamagotchi di qualche melodia insulsa). Mi conforta pensare che gli Scorpions siano stati capaci di scolpire nella pietra alcuni tra i riff più riusciti dell’hard rock contemporaneo, questa è una delle motivazioni che ci permette di tirare dritto contro tutti i detrattori.” Aria di pensione per loro? Boh, noi ci crediamo poco.

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