Slipknot + Amon Amarth + more @Bologna Sonic Park – Arena Joe Strummer, 27 giugno 2019

Il 15/07/2019, di .

Slipknot + Amon Amarth + more @Bologna Sonic Park – Arena Joe Strummer, 27 giugno 2019

È uno dei giorni più caldi dell’anno a Bologna, forse il più torrido in assoluto in questa estate fin qui bislacca e altalenante, non c’è modo di ottener refrigerio se non cercando di ignorare un “supplizio” tale, ma certo non è cosa semplice. Entro al Bologna Sonic Park un poco in ritardo sulla tabella di marcia, spiacente per Black Peaks ed Eluveitie, ma accontentar tutti spesso è arduo, e poi, se davvero voglio esser così “rosolato” a fuoco lento, allora preferisco iniziare a farlo con i Corrosion Of Conformity che mi ululano nelle orecchie. Che band, quella dei C.O.C. partiti da basi prettamente hardcore, ma di quello bello marcio e politicamente impegnato, tra i padrini di quel crossover punk parecchio in voga nei primi anni Novanta e, infine, solidificatisi in un granitico blocco che vede riunite insieme diverse anime musicali, un ibrido sporco e maleodorante in cui spicca il southern metal e lo stoner’n’sludge, ovviamente rivisitati in versione iper-vitaminizzata. Con lo storico Reed Mullin, batterista e unico componente originale, e con un ceffo da galera qual è il chitarrista e cantante Pepper Keenan (forse l’elemento che oggi traina su di sé tutte le attenzioni, merito anche della sua militanza nei Down e di una partnership concreta con i Metallica, con James Hetfield è amico per la pelle e diverse le collaborazioni che può vantare con i quattro di Frisco) tutto è possibile, anche ritrovarsi a celebrare, a distanza di ben venticinque anni dalla sua pubblicazione (!), un caposaldo dell’importanza di ‘Deliverance’, quarto full-length che non solo firmò il debutto per la major label Columbia, ma ne rivoluzionò abbondantemente le fattezze stilistiche: di fatto, con questo album, il quartetto di Raleigh, North Carolina, si trasformò in un gruppo nuovo quasi del tutto. Visti i tempi ultra stretti, ‘Deliverance’ qui a Bologna esplode grazie alla sfacciata prepotenza di ‘Seven Days’, ‘Albatross’ e soprattutto ‘Clean My Wounds’, ma domandiamoci anche che razza di brano è ancora oggi ‘Vote With A Bullet’, canzone nevralgica estratta da ‘Blind’, altro eccellente disco marchiato Corrosion Of Conformity. Una manciata di pezzi, lo avrete capito, ma tanto, fottutissimo feeling. Sanguigno e tormentato. Con il sud non si scherza mai, tantomeno in America…
Notevole il colpo d’occhio di pubblico che si presenta quando, attorno alle 17, scendono in campo i nostri Lacuna Coil, i quali meritano gli applausi soltanto per lo sfidare apertamente l’infernale canicola bolognese con le loro pesanti tuniche da scena e il face-painting destinato a farsi benedire entro breve, ma queste son bazzecole di poco conto per il gruppo milanese, abituato a ben altre sfide, a lottare in ogni situazione, pur di averla vinta. Nonostante il sole cocente e un orario non proprio favorevolissimo per esibirsi, il quintetto sfodera comunque una prestazione di grande spessore, a partire dall’opener ‘Our Truth’, brano portante di ‘Karmacode’ e tra i più belli della loro già nutrita discografia, con una Cristina grintosa e cazzuta come solo lei riesce, a far sì che il concerto prenda subito la piega giusta, improvvisando perfino una ‘Highway To Hell’ a cappella pur di ovviare a dei classici inconvenienti di natura tecnica che si presentano a inizio concerto, mettendo subito al pepe al culo a una folla che risponde alla grande. ‘Trip The Darkness’, ‘Blood, Tears, Dust’, ‘The House Of Shame’, solo grandi brani oggi in scaletta, suonati da una band che va come un orologio svizzero, nel cui ingranaggio si incastra magnificamente il lavoro fatto dal bassista Marco Coti Zelati (o Capitan Maki, che dir si voglia, dato che a tale vezzeggiativo ci tiene, e pure parecchio!) e da Diego Cavallotti, dopo quasi tre anni dal suo ingresso in formazione si può dire che l’acquisto è stato azzeccato, vista la bravura e la velocità con cui il chitarrista si è integrato. La sinergia vocale tra Cristina e Andrea è tra le peculiarità assolute dei Lacuna Coil, non la scopriamo certamente ora, anche qui a Bologna sublimata e portata alla massima potenza da canzoni che possono soltanto inorgoglire. ‘Enjoy The Silence’, ‘Heaven’s A Lie’ e ‘Nothing Stands In Our Way’, l’immenso trittico finale regalato da una band prossima alla rentrée discografica, l’imminente nuovo full-length album, ‘Black Anima’, bussa già alle porte, annunciato per ottobre. E noi siamo già pronti a giurare sulla sua eccelsa qualità.
La zona pit comincia a essere bella compressa, quando attaccano a menar le danze i Testament guidati dal nativo americano Chuck Billy, uno di quei personaggi storici particolarmente amati dal popolo metal di casa nostra, con il quale si ha quasi uno speciale rapporto confidenziale, per l’intesa che sempre si viene a creare tra il gigantesco frontman e il suo pubblico italiano, arrembante e appassionato sin dalle prime avvisaglie, con l’opener ‘Brotherhood Of The Snake’ che mette subito in chiaro che, con i californiani, non è il caso di scherzare. Formidabile per coesione, grinta, un bagaglio tecnico che mette spavento – basti elencare soltanto la sezione ritmica, Steve DiGiorgio al basso e Gene Hoglan alla batteria, be’, credo che una coppia del genere non abbia davvero rivali, e non solo contemplando il ristretto campo del thrash metal – una bravura assoluta nel saper maneggiare il palco, la storica band di Oakland non risparmia energie e non fa prigionieri. Liscio come l’olio, anche al Bologna Sonic Park si consuma il consueto massacro, specie poi quando entrano in circolo i classici “evergreen” che hanno fatto la Storia dell’intero thrash metal made in Bay Area, da ‘Into The Pit’ a ‘Electric Crown’, a ‘Over The Wall’, per non dire della sincopata ‘Low’, forse la track che ha entusiasmato di più, con la botta d’urto generata da un fantastico Alex Skolnick, autentico mattatore alla chitarra nonché perfetto alter-ego di Eric Peterson. Un nome, una garanzia, quello dei Testament. Merita una nota a margine il divertente siparietto concesso dal buon Gene Hoglan, tirato a lucido come non mai, dimagrito e sorridente, il quale, tra un concerto e l’altro, è spesso capitato tra il pubblico, regalando autografi, strette di mano e battute che, vi assicuro, spesso fanno sganasciare. La grandezza di certi artisti, spesso, si misura anche da queste piccole cose…
Se Chuck Billy & Co. sono da sempre una sicurezza assodata e che conoscevo già benissimo, resto invece letteralmente a bocca aperta con la devastante entrata in scena dei successivi Amon Amarth, che non vedevo live da tempo immemore (forse l’ultima volta era stata a un Evolution Festival sul lago di Garda, ma parliamo di preistoria quasi, e praticamente di un’altra band…) e che non credevo si fossero evoluti talmente tanto, è con maestria tattica e un furore reale, ma controllato, che gli scandinavi azzannano il palcoscenico prima con ‘The Pursuit Of Vikings’ e poi con ‘Deceiver Of The Gods’, un’accoppiata che, così di getto, stroncherebbe un elefante! Un palco addobbato con la loro classica, maestosa scenografia vichinga e numerosi lanciafiamme a surriscaldare ancor più l’atmosfera, per uno spettacolo nello spettacolo, affrontato da una band indomita e fremente, e con piena, totale consapevolezza dei propri mezzi. Baciato dalla benevolenza degli Asi e della loro guida spirituale Odino, il barbuto Johan Hegg fa letteralmente man bassa, il suo cantato e il suo temperamento affondano nella tradizione e nella mistica norrena, incitando allo scontro e aizzando un pubblico desideroso di sangue e sudore. Tra i momenti topici dello show, una grandiosa ‘As Loke Falls’ e una ‘Death In Fire’ particolarmente avvincente, prima di congedarsi con le monumentali ‘Guardians Of Asgaard’ e ‘Twilight Of The Thunder God’, per un finale d’autore da tramandare ai posteri. Ne hanno fatta di strada gli svedesi, levigando secondo coscienza quel death metal in origine primitivo e forse prevedibile, chiamando in causa un imprinting più maturo e moderno, con dalla sua degli arrangiamenti decisamente più accattivanti, si comprende anche così il grosso successo di cui gli Amon Amarth godono anche in America, un Paese solitamente poco avvezzo a certe sonorità. Mostruosi, semplicemente mostruosi…
Cosìccome è mostruosa l’attesa, che si fa a dir poco spasmodica con i ventimila e passa fans che premono e reclamano a gran voce i nove mascherati dell’Iowa (Slipknot che proprio quest’anno festeggiano il ventennale del fortunatissimo, omonimo debutto su Roadrunner Records, prima di sconvolgere definitivamente gli increduli partecipanti di quel famoso Gods Of Metal svoltosi a Monza, poiché nessuno si aspettava la botta di adrenalina e il clamore che questa nave di folli era capace di scatenare…), i quali partono scattando a testa bassa, come un toro, con tre classici uno più feroce dell’altro, dall’apripista ‘People = Shit’, tra i loro manifesti per eccellenza, a ‘(sic)’, a ‘Get This’, giusto per ribadire quanto fu decisivo e anticonvenzionale quell’album di cui si parlava prima. Uno stage set in grado di far impallidire i più scafati di noi, sulle cui futuristiche rampe si dimena una band pazzesca, che probabilmente potrà non piacere, ma che è impossibile ignorare, vuoi per l’impatto e il senso di disagio che porta con sé, vuoi per l’influenza che ha sulle nuove generazioni, le quali recitano come neppure fosse un mantra il verbo nichilista propagandato da Corey Taylor e il suo manipolo di svitati. È un’autentica bolgia il pit che accoglie la furia distruttiva del nine-piece di Des Moines, che macina impazzito brani della virulenza di ‘Disasterpiece’, ‘Before I Forget’, ‘The Heretic Anthem’, perfino il nuovissimo ‘Unsainted’ viene inglobato come nulla fosse, “digerito” da una folla letteralmente in balia di un organico deciso a far male, spingendo sull’acceleratore e non perdendosi in stronzate. È un vero plebiscito, la risposta del pubblico, a dir poco smanioso nel partecipare a quel rito urbano che altro non è che il live show degli Slipknot. ‘Vermilion’ piace pure a me, e ‘Sulfur’ magari non me l’aspettavo così, ma ‘Spit It Out’, piazzata in posizione strategica negli encores finali, deflagra senza alcun pudore, per quello che è probabilmente uno dei migliori concerti tenuti in Italia dalla band, sicuramente tra i più violenti mai suonati. Due appunti in negativo, ma forse microscopici: l’assenza in scaletta di ‘Wait And Bleed’, non possono non suonare il loro brano simbolo per antonomasia, e capisco infine tutto il vespaio di polemiche nate attorno alla nuova maschera di Corey Taylor, eh sì, è davvero brutta, e non rende spessore al personaggio, come invece dovrebbe. Ma è giusto robetta, tanto per alimentar gossip estivi…

FOTO DI ROBERTO VILLANI

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