Heineken Jammin’ Festival @Autodromo di Imola, 13/14/15 giugno 2003

Il 13/06/2021, di .

Heineken Jammin’ Festival @Autodromo di Imola, 13/14/15 giugno 2003

Mai come quest’anno la prestigiosa kermesse estiva con sede a Imola si è concessa all’heavy metal, chiamando a sé sia gruppi storici quali Metallica e Iron Maiden, sia alcune tra le nuove leve più agguerrite, tra cui molte di scuola italiana. E noi di Metal Hammer non potevamo mancare all’appuntamento con l’Heineken Jammin’ Festival, che nei tre giorni di durata ha totalizzato ben oltre 100 mila spettatori! Alla faccia di chi lo reputa un genere di nicchia…

Maledetta canicola… Io e Massigna, collega e fedele compagno di “sventure”, ci stiamo letteralmente arrostendo dentro l’indistruttibile Fiat 600 che ci sta trasportando in loco, poiché prender l’autostrada in estate è sempre e continuamente un’incognita. Pare si mettan d’accordo tutti assieme, nell’aprir cantieri su cantieri nei mesi più critici dell’anno e congestionare così la percorribilità stradale che in Italia è già di per sé imbarazzante. Ma il Belpaese è questo, volenti o nolenti, ci vien da pensare amaramente… Fossimo partiti da Bari, potrei capire, ma avendolo fatto da Rimini, a un tiro di schioppo da Imola, i conti proprio non tornano, cominciano ad esser troppe le ore trascorse bloccati in autostrada, direzione Bologna. Tra un “cazzeggio” e l’altro, dopo l’ennesimo litro d’acqua scolato istantaneamente, decidiamo di uscire e tagliare per la via Emilia, e così facendo ci complichiamo ancor più la vita, visto che tutto il mondo sembra aver avuto la nostra stessa idea. Colonne di Tir strombazzanti ad imballare il traffico tra Faenza e Imola, che fanno presagire il peggio, che inducono a pensare che noi all’Heineken non metteremo mai piede! Già, l’Heineken Jammin’ Festival da anni tappa fissa per ogni maniaco dell’ottima musica, meglio se consumata all’aperto e con in lizza sempre nomi di primissimo piano, una manifestazione festivaliera di gran blasone legata a doppio filo con l’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola. E che mai come quest’anno si è aperta al metal, arrivando a sfoggiare come headliner sia Metallica che Iron Maiden, ovverosia il “non plus ultra” che il genere possa vantare, i due gruppi metal più amati al mondo. Senza scordarci di Bon Jovi, il patinato headliner invitato a capeggiare il bill di sabato 14, che in un modo o nell’altro può rientrare nella categoria. Sì, per la prima volta in sei anni l’Heineken ha lasciato campo libero al metal e alle sue formazioni più autorevoli e rappresentative, al cospetto delle quali si sono presentate decine di migliaia di fedelissimi, dando un’atmosfera speciale al tutto, come si vedrà…

Nel frattempo il Massigna si è rivelato un provetto driver e, con manovre al limite del codice penale, facendo filotto tra sorpassi, sgommate e carambole nella corsia opposta, ha azzerato il gap accumulato. Sarà l’aria di Imola, Patria di gloriosi, rombanti motori, fatto sta che ci troviamo all’ingresso stampa che neanche ce ne accorgiamo, strenuamente impegnati a tagliare il traguardo… Venerdì 13 giugno 2003, giornata di apertura dell’Heineken affidata a gruppi come i nostrani Karnea, Extrema e Punkreas, come gli Stone Sour di Corey Taylor che lotta come un dannato nel prendere le distanze dagli Slipknot, come i Flint che altri non sono che l’omonima band dell’eccentrico ex frontman dei Prodigy, Keith Flint. Oppure i Placebo, probabilmente l’unico gruppo che decisamente stona nel contesto della giornata, ma che a mio avviso resta comunque una delle espressioni rock più valide del Regno Unito. Sui Metallica c’è qualcosa da dire, se non che la stragrande maggioranza dei presenti è qui per loro, noi compresi? Questo è un inconfutabile dato di fatto, sono i quattro californiani l’indiscussa e principale attrazione della giornata, pare scontato semplicemente dirlo. Grazie alle nostre autostrade all’avanguardia, i gruppi ce li siam persi tutti, il sole – altro elemento implacabile torturatore – va finalmente attenuandosi, e i Metallica son schierati sulla griglia di partenza. Dalle impressioni ricavate su coloro che si sono avvicendati sul palco, un’accoglienza più che buona l’hanno ricevuta gli Stone Sour, scortati da brani quali ‘Monolith’, ‘Inhale’ e l’hit ‘Bother’, che non poteva certo mancare. Con un Corey Taylor che è apparso più a suo agio senza maschera e tuta. Ma non solo per ovvie questioni di comodità… Meno bene sono andati i Flint, anche se Keith resta un gran bell’animale da palcoscenico, un invasato e carismatico istrione che sa fare bene il suo mestiere. Forse i più non sapevano neanche chi fosse, senza contare che il debut a firma Flint, ‘Device#1’, è arrivato nei negozi solo a luglio: una sorta di debuttante allo sbaraglio, quindi. Sui Placebo, invece, si sono concentrate le ostilità della folla che, oramai traboccante, spazientita e massacrata dalla calura, ha cominciato ad invocare i Metallica, dando il là al becero bottigliamento selvaggio, uno sport sempre più pericolosamente in voga in Italia. E per il quale all’estero siamo malvisti, visto che determinati gruppi ci pensano due volte prima di varcare le Alpi. Asseragliati sotto un fitto lancio di bottiglie e oggetti vari, Brian Molko e soci hanno resistito lo stesso, portando faticosamente a termine la loro sofferta performance, performance che ovviamente ha risentito della tensione venutasi a creare. Vero, son i rischi del mestiere (a Donington, ai tempi del leggendario Monsters Of Rock, gli inglesi facevan di peggio, lanciavano le bottiglie-munizioni riempite con liquido organico per dimostrare al gruppo se era di loro gradimento o meno!), ma questo vizio sempre più italico va condannato a priori, e non ci son ragioni che tengano. Dopo averli incrociati nell’area backstage, non c’è che da fiondarsi sotto il palco per assistere al ritorno dei Metallica, assenti in Italia dal Gods Of Metal ’99 e da un paio d’anni incappati in una serie di vicissitudini negative tali da stroncare un toro! Prima l’abbandono di Jason Newsted (e conseguente crisi sia artistica che personale), poi il ricovero semi-forzato di James Hetfield affinché potesse liberarsi dalla schiavitù dell’alcool, che ha richiesto mesi e mesi di degenza e che ha rischiato di compromettere il futuro stesso della band. Ora, con il nuovissimo ‘St. Anger’ appena pubblicato e saldamente in testa alle charts americane ed europee, tutto sembra passato, ma c’è stato da temere per l’avvenire di uno tra i complessi che han fatto storia. Tuttora venerato da milioni di fans sparsi per il globo. L’illuminazione si spegne di colpo, e non appena fuoriescono le note della morriconiana ‘Ecstasy Of Gold’ scatta il panico, il pubblico rumoreggia impazzito, per esplodere all’unisono all’ingresso di James, Lars, Kirk e Rob, scortati da una furibonda ‘Battery’: mica male come biglietto da visita iniziale… I nostri hanno una maledetta voglia di picchiare duro, e dimostrare di non essersi rammolliti, martellando a più non posso sin dalle prime battute. ‘Master Of Puppets’ è cantata a squarciagola dai 40mila fans presenti, sull’onda d’urto provocata da una band che sa alla perfezione come rendere indimenticabile un concerto, e qui a Imola lo ribadisce con rabbia e coerenza. James è il “solito”, indistruttibile animale da palcoscenico, sfoggia tatuaggi uno dietro l’altro e come ai bei tempi aizza ferocemente la folla, letteralmente ai suoi piedi. Kirk “ondeggia” da una parte all’altra del mastodontico palco, seviziando la propria chitarra, mentre Lars con regolarità detta i ritmi, che si fanno sempre più accesi mano a mano che i classici si susseguono. Sorpresa assoluta, il nuovo entrato Robert Trujillo, un’autentica forza della natura, dallo stile tecnicamente perfetto e che sul palco si muove come una tarantola, uno spettacolo vederlo piegarsi su se stesso arpionando il basso! ‘Ride The Lightning’, ‘Welcome Home (Sanitarium)’ e ‘For Whom The Bell Tolls’, una triade che porta ancor più scompiglio, l’entusiasmo è alle stelle, e il four-piece macina note su note che è una meraviglia! Con ‘Creeping Death’ a far da spartiacque, l’intermezzo centrale è affidato agli unici due brani estratti da ‘St. Anger’, ovverosia ‘Frantic’ – che dal vivo suona ancor più agitata e fremente – e la stessa title-track, a rappresentare l’ira degli odierni Metallica. Splendidamente supportati da una folla che pare aver già metabolizzato il nuovo album, per come canta le due canzoni appena pubblicate. Ma stasera Hetfield e la sua esagitata gang non hanno alcuna intenzione di concedere sconti, e, in rapida successione, sparan fuori tre bordate del calibro di ‘No Remorse’, ‘Seek & Destroy’ e ‘Blackened’, che annichiliscono definitivamente l’audience. Siamo pressochè all’epilogo dell’evento live celebrato sul palco dell’Heineken, e la prima porzione di bis risponde al nome di ‘Harvester Of Sorrow’, della toccante ‘Nothing Else Matters’ (omaggiata con centinaia di accendini accesi) e della livida ‘Damage, Inc.’, ad esacerbare ancor più gli animi. La band stessa è consapevole di quanto lo show è stato speciale stasera, visibilmente soddisfatta per ciò che ha dato e ha ricevuto, da parte dei suoi fedeli che altro non volevano che vederla così in forma, agguerrita e spietata nei momenti che contano. Gli ultimi fiotti di adrenalina pura son provocati da ‘Sad But True’ ed ‘Enter Sandman’, a suggellare un’esibizione semplicemente spettacolare, che ci ha restituito una leggenda che ritenevamo forse già perduta. Una leggenda che agli inizi del prossimo anno sarà nuovamente sui nostri palchi, da quel che gli stessi Metallica ci hanno anticipato durante la loro performance. Metal up your ass, è proprio il caso di dirlo, e noi poveri cronisti un po’ attempatelli siam già sfiancati, ragion per cui optiamo per un break saltando la giornata successiva, il sabato che vedrà all’opera gli headliner Bon Jovi, il frontman dei Depeche Mode Dave Gahan, in veste solista, i sorprendenti The Music e la rockeuse Anouk, più una serie di battaglieri contendenti. Più che altro perché domenica ci attende un giorno di quelli tosti, da dedicare quasi completamente agli Iron Maiden, in vista dell’imminente nuovo album ‘Dance Of Death’, che sarà presentato alla stampa in concomitanza della loro data all’Heineken Jammin’ Festival.

Meglio risparmiar energie, allora… Dubbiosi fino all’ultimo se sia o meno il caso di noleggiare l’elicottero, stavolta invece la marcia verso Imola fila che è un piacere, e riusciamo ad essere sul posto in tempo per la performance degli opener Domine, che come loro solito fanno incetta di consensi. Viene semplice quando si ha in dotazione un metal sound alquanto avvincente e personale (e decisamente estraneo alla corrente neoclassica italiana che non sa più che pesci prendere!) e una formazione che non sbaglia un colpo, con in testa un vocalist del calibro di Morby, autore di una prova davvero significativa e bravissimo nel tenere in pugno la folla. Quaranta minuti abbondanti a sua disposizione, durante i quali l’act toscano snocciola i suoi brani più d’impatto, cavalli di battaglia come l’anthem ‘Thunderstorm’, il dirompente ‘Dragonlord’ e il conclusivo ‘Defenders’, ad arroventare una giornata già bollente di suo. Notevoli i Domine, veramente notevoli, presto chiamati a pubblicare il nuovo ‘Emperor Of The Black Runes’, un album di cui possiam già anticipare la sua (alta) qualità. Rubando qua e là informazioni sul giorno prima, vien da dire che forse non abbiam fatto male a rinunciare, se è vero che Jon Bon Jovi e la sua omonima band han lasciato l’amaro in bocca sia per il poco tempo concesso al pubblico (meno di due ore di spettacolo! E meno male che erano headliner…) che per una performance che non ha reso credito alla fama (antica) dell’illustre complesso americano, apparso svogliato e poco convincente nell’esecuzione dei classici di ieri e di oggi. Pure gli altri invitati sembra non abbian combinato granché, eccezion fatta per la rivelazione The Music e il carismatico Dave Gahan, ma si sa, la classe non è acqua… Un gioco da ragazzi quindi per il leader dei Depeche Mode conquistare l’audience imolese, pur essendo in “solitaria”… Domenica 15 giugno, giornata finale dell’Heineken 2003, è decisamente all’insegna del metal vero e proprio, e i primi gruppi a rappresentarlo sono tutti di nazionalità italiana, motivo in più per esserne orgogliosi. Così, dopo la band del Morby, spetta a un’altra formazione toscana impossessarsi del palco, vale a dire i Vision Divine capitanati da Olaf Thorsen e Fabio Lione. Rodati dall’esibizione al Gods della settimana prima, i nostri si fanno ben valere grazie a brani oramai collaudati quali ‘Send Me An Angel’, ‘Exodus’ e ‘New Eden’, con un ottimo gioco di squadra e la sinergia che regna indiscussa tra i due leader della band: Fabio è un frontman con gli attributi in bella evidenza, e sa bene come soggiogare la platea, idem dicasi per Olaf, chitarrista di grande spessore e notevole presenza scenica, alla base di un complesso tra le rivelazioni in senso assoluto, che anche a Imola ha ribadito di che pasta è fatto. A completare il “trittico” tricolore, i Lacuna Coil, probabilmente la band più internazionale della nostra scena, quella che al momento sta riscuotendo un successo più che considerevole specialmente all’estero. Difatti, appena tornati da una tournée americana assieme agli Opeth, i milanesi che si dedicano ora al pubblico di casa, con una serie di esibizioni lungo la Penisola, ripartiranno nuovamente per gli States per un tour di due mesi in compagnia di Type O Negative, prima, e Anthrax, successivamente. Della “tranche” italiana, quello con l’Heineken Jammin’ Festival è l’appuntamento più importante, vuoi per il prestigio della manifestazione, vuoi per l’oceanica folla accorsa, e i Lacuna Coil lo onorano alla grande, confermandosi una realtà live pressochè perfetta. Senza perdersi in inutili chiacchiere, la band parte a spron battuto snocciolando in rapida successione ‘To Live Is To Hide’, ‘Swamped’ e ‘Heaven’s A Lie’, “triumvirato” che scuote immediatamente il pubblico che, eroicamente, sta combattendo contro l’inesorabile calura. Cristina e Andrea appaiono in gran forma, spalleggiati del resto della truppa che, baldanzoso, fa quanto di meglio nel rafforzare ancor più le canzoni. Nel cui lotto emergono distintamente la bellissima ‘Senzafine’ e la magniloquente, espressiva ‘Daylight Dancer’, track con la quale il sestetto cala l’ideale sipario sulla suggestiva e dirompente performance tenuta all’Heineken. Se l’Italia ha fin qui orgogliosamente sfoggiato alcune delle sue più avvincenti realtà metalliche, non altrettanto si può dire per una parte del suo pubblico presente alla manifestazione emiliana, dato che spetta ai successivi Murderdolls sorbirsi le bottigliate, come da copione. Guidati dal chitarrista Joey Jordinson (noto ai più per essere al tempo stesso il drummer degli Slipknot), questi inquietanti glamsters che paiono usciti da un film di Ed Wood sono tra le odierne espressioni più interessanti d’America, per il loro stile che chiama in causa glam e punk, dissacrante ironia e passione per tutto ciò che è horror. Poco o nulla da commentare sull’esibizione del multicolorato quintetto, preso in contropiede dall’infelice accoglienza del pubblico, se non quel poco che ha suonato è parso più che soddisfacente, tipo ‘Dawn Of The Dead’, ‘Die My Bride’ e ‘Zombie’. Peccato che per qualche imbecille… Ovviamente, sono da rivedere, e in un contesto tutto loro. Mentre il sole va (finalmente!) tramontando, colorando tutto di rosso sangue, non può che scoccare l’ora dei vampiri Cradle Of Filth, una band che dal vivo non mi ha mai detto granché. E anche a Imola conferma la mia atavica repulsione, verso una band che on stage mi annoia mortalmente, la cui massima aspirazione è quella di assecondare il frontman Dani oramai smarritosi nei meandri del suo spropositato ego. Sarà che lo stile della band inglese non mi ha mai entusiasmato troppo (anche se tanto di cappello all’ultimo ‘Damnation And A Day’, un album eccellente), ma non mi pare plausibile incentrare uno show contando quasi esclusivamente sullo sguaiato growling del singer, apparso goffo sul palco, per non parlare della sua grossolana prova vocale. Assieme a vecchi classici quali ‘Dusk And Her Embrace’, ‘From The Cradle To Enslave’ e ‘Cruelty And The Beast’, sul palco è arrivata pure qualche bottiglia… Magari qualcuno che la pensa come il sottoscritto? Io, di sicuro, non sono il più indicato per giudicarli, per me i Cradle Of Filth sono spariti anni fa, quando suonavano concerti di tutt’altra caratura. Come di tutt’altra caratura sono gli Iron Maiden, incontrastati leader della scena metal mondiale legati a doppio filo con l’Italia e i suoi fedelissimi fans, ai quali Steve Harris e compagni si dedicano anima e corpo ogni qualvolta c’è da incendiare le assi del palcoscenico. Una band intramontabile, che si appresta a pubblicare il suo nuovo album ‘Dance Of Death’ (in uscita l’8 di settembre) e che per tenersi in allenamento si sta togliendo lo “sfizio” di sbancare mezza Europa, con spettacoli ultra gremiti di gente e affrontati col piglio del più forte. Unica data italiana estratta dal Give Me Ed… Til I’m Dead Tour, la partecipazione appunto all’Heineken Jammin’ Festival, preso di mira anche questa sera da quasi 40mila spettatori, accomunati dalla bruciante passione per la Vergine di Ferro.

Nessuna sorpresa dunque, se all’attacco dell’opener ‘The Number Of The Beast’ sotto il palco si rischia il collasso, per l’impeto della folla che all’improvviso si scatena! La formazione inglese gradisce tanto entusiasmo ricevuto, e sfodera tutto il proprio carisma e la sua scintillante classe, dando il là agli immortali cavalli di battaglia maideniani. Da ‘The Trooper’ a ‘Hallowed Be Thy Name’, a ’22 Acacia Avenue’, tirando perfino in causa canzoni non più frequenti da tempo nel set-list, è il caso di ‘Die With Your Boots On’ e ‘Revelations’, capisaldi del lontano ‘Piece Of Mind’. Il sestetto si presenta in forma smagliante, con il sempiterno Bruce Dickinson a macinare chilometri su chilometri lungo il gigantesco palco, senza mai perdere lucidità e potenza vocale, e il trio alle chitarre impegnato nelle caratteristiche scorribande maideniane, guidato da un Dave Murray particolarmente ispirato. Il tempo di godersi la nuova ‘Wildest Dreams’ (dal marcato appeal rock’ n’ roll) e le più recenti ‘The Wickerman’ e ‘Brave New World’, che per il sottoscritto è ora di “accalappiare” i fortunati lettori di Metal Hammer che hanno adesso l’opportunità di salire sul palco assieme ai Maiden, per i cori di ‘Heaven Can Wait’. Dopo un rapido conciliabolo con la security e con i responsabili dell’operazione (un grazie di cuore va a Dorina della EMI Italia), il gruppetto marchiato Metal Hammer viene infine fatto posizionare dietro il palco, mentre il clamore di ‘The Clairvoyant’ si va stemperando. E’ appunto il turno di ‘Heaven Can Wait’, e c’è chi comincia a sudar freddo, come in fondo è giusto che sia, qualcuno mi chiede come ci si deve comportare, altri che non stan più nella pelle. Alla fine decido di salire anch’io, è la mia seconda volta, ma è sempre una grande esperienza, di quelle che non si dimenticano facilmente. Ci raggiunge altra gente, c’è perfino Dani dei Cradle Of Filth (che temporeggia fino all’ultimo, ma poi si tira indietro), e lo stesso Dickinson staziona sopra gli amplificatori guardandoci meravigliato. Il ghiaccio è ormai rotto, entriamo in scena alla ricerca del microfono più vicino, gustandoci la botta di adrenalina e lasciando che i secondi scorrano il più intensamente possibile. E’ tempo di tornare indietro, giusto per assistere all’exploit finale da sotto il palco, con il leggendario complesso che regala bis uno dietro l’altro, specie se poi si chiamano ‘Iron Maiden’, ‘Bring Your Daughter To The Slaughter’ e ‘Run To The Hills’, il congedo è ancor più trionfale. Come sempre grandiosi, i Maiden sono sinonimo di garanzia assoluta, questo è poco ma sicuro, un mito che tra non molto potremo rivedere in azione sui nostri palchi, precisamente il 27 ottobre al Filaforum di Milano e il 28 al Palasport di Firenze, non appena la band sarà rientrata dalla tournèe statunitense assieme a Dio e Motorhead (e se un tour del genere non fa ravvedere una volta per tutte gli americani, allora mettiamoci una pietra sopra!). Ottobre non è poi così lontano…

FOTO DI ANDREA RIGANO (Metal Hammer, agosto 2003)
Trascrizione e memorabilia a cura di Gianfranco Monese

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