Bad Bones – Demolition Derby

Il 03/11/2016, di .

Gruppo: Bad Bones

Titolo Album: Demolition Derby

Genere: , ,

Durata: 42 min.

Etichetta: Sliptrick Records

80

‘Smalltown Brawlers’ (2008) era la storia di tre ragazzi nati e cresciuti nelle vallate del Cuneese, mossi dall’amore per l’hard rock dei Motorhead e dei Ramones, degli Ac/Dc e degli ZZ Top, trovatisi davanti a qualcosa di più grande di loro. Un disco grezzo, sfrontato, a tratti acerbo, capace comunque di aprire loro quasi inaspettatamente le porte dell’America attraverso l’ingresso privilegiato, quello del Whisky A Go Go…Non tutto è oro quel che luccica, però, soprattutto se il sogno di cui si parla è quello americano, ed infatti i Bones a modo loro l’America arriveranno a conquistarla, però solo dopo mille peripezie degne dei “migliori” Anvil. ‘A Family Affair’, anno di grazia 2010, era la storia di “quell’America”, raccontata con musica e parole direttamente dal deserto del Mojave. Il suono è andato facendosi più pulito, ma poco importa: tutte le antenne sono puntate sui racconti: della vita in uno scantinato di Wilmington, della paura dei cani randagi che si aggirano in branco di notte nei sobborghi di LA, della fame, del timore di un face to face con una pallottola sparata da qualche gang latina, di un indiano pazzo che raccoglie in strada questi tre desperados alla deriva dando finalmente il là al sogno americano. Quindi la rivoluzione. 2012. Il cantante Meku Bone fa un passo indietro dedicandosi solo alla chitarra, entra Max “Bone” Malmerenda ed i Bad Bones cambiano volto ed identità. Perdono il fascino selvaggio originario, perdono l’aura maledetta che li aveva accompagnati nell’epopea americana. “Come se i Motorhead chiamassero Seb Bach dietro al microfono: un cantante pazzesco ma i Motorhead cesserebbero di essere la band che tutti conosciamo” il paragone più gettonato, anche per rendere merito alle eccellenti doti vocali del nuovo singer. Che esordisce registrando ‘Snakes And Bones’, una manciata di pezzi fondamentalmente validi (alcuni anche notevoli) che mostravano comunque un gruppo ancora in rodaggio, alla ricerca di una propria identità dopo un avvicendamento per una band sempre traumatico, come quello del frontman. Poi qualcosa si rompe ancora: è Meku Bone a non ritrovarsi più in questa nuova realtà; rallenta, si chiama fuori e tutto pare doversi fermare definitivamente. Ma il colpo di scena incredibile “alla Bones” è dietro l’angolo: la band per onorare l’ultimo concerto chiama l’amico di vecchia data Sergio Aschieris, il ragazzo si impara le canzoni sul van in viaggio tra Torino e Brescia, quindi sale sul palco e…magia. Il feeling è assoluto, la chitarra dei Bones pare essere stata da sempre nelle sue mani, ed incredibilmente la macchina si rimette in moto, con rinnovato entusiasmo. Qualche data in giro per l’Europa giusto per oliare gli ingranaggi e non perdere il vizio, e giunge il momento della prova in studio, con la realizzazione di un disco cruciale, quello che prenderà per mano la band e l’accompagnerà tra qualche mese a spegnere le 10 candeline sulla torta. Il disco è questo “Demolition Derby” ed è una storia tutta nuova, raccontata (forse) per la prima volta unicamente dalla musica e, credetemi, è un piacere lasciarglielo fare. Sopiti quegli echi americani che per anni avevano predominato con il loro fascino l’universo Bones facendo passare quasi in secondo piano l’aspetto musicale, inglobati alla perfezione, i due “nuovi” membri, la band si lancia sul mercato con un disco coinvolgente, incredibilmente ruffiano quando entra in modalità “cazzeggio” ma ugualmente in grado di toccare le corde dell’anima quando l’atmosfera si fa seria ed i temi profondi. L’influenza americana qui si fa sentire a livello di sound, con una serie di brani che paiono nati sul Sunset Strip nell’epoca dorata dell’hard rock, mentre Max Bone, ora davvero a suo agio sia dietro il microfono che con la penna in mano, dà sfogo ad un amore mai negato per il rock radiofonico tessendo melodie clamorose destinate a fare presa sin dal primo ascolto. E’ il caso del primo singolo ‘Me Against Myself’, pezzo facile facile, persino un po’ naif con il suo “uoh…oh..” nel chorus, però sfido chiunque a non muovere il piedino davanti a questo sfrenato rockettino. Che deflagra nella meravigliosa ‘Endless Road’, brano allegro, arioso, ancora una volta in possesso di un refrain strappa orecchie, capace però di celare nella sua anima un pensiero triste, con la mente che corre ai quattro musicisti cuneesi tragicamente scomparsi lo scorso marzo in un incidente sulla A1 mentre ritornavano da un concerto, e una riflessione su quell’incrollabile amore per la musica che spinge i musicisti a percorrere chilometri e chilometri, spesso per pochi euro, solo per inseguire il loro sogno. I Bones “d’annata” ritornano in ‘Some Kind Of Blues’, come recita il titolo un blues sporco, viscerale, che attinge a piene mani dalla tradizione americana. ‘Stronger’ e ‘Rusty Broken Song’ tornano a fare correre la fuoriserie: pochi fronzoli, basso e batteria sparati a mille, chitarra perfettamente al suo posto e Max che fa ciò che vuole tratteggiando melodie ancora una volta vincenti. Il nucleo del disco è rappresentato dai Bones così come nessuno li aspetterebbe. Si parte con ‘Rambling Heart’, un pezzo anomalo con i suoi oltre sei minuti di durata, una ballata anomala ed incredibilmente elegante, che pare uscita dalla penna dei Whitesnake più sornioni, uno svolgimento sensuale destinato ad aprirsi in un chorus dal forte impatto radiofonico. Quindi ‘Red Sun’, ancora una volta brano elegante che va a cozzare con quell’idea di band sporca ed ignorante che ha accompagnato i Bad Bones nei primi lavori. Una ballata emozionante, con l’hammond di Del Vecchio a darle un tocco retrò e lo straordinario Roberto Tiranti a duettare con Max Bone sino a ricreare un brano caldo, avvolgente, dal forte impatto spirituale, nel quale SerJoe dà il meglio di sé con una performance carica di feeling. Bones riflessivi e ammorbiditi? Non proprio, perché chiusa questa piacevolissima parentesi il disco ritorna a correre con la sculettante ‘Perfect Alibi’, rock’n’roll senza se e senza ma, fotografia di una band che diverte e si diverte senza porsi troppi problemi. ‘Shoot You Down (El Mariachi)’ arriva a ricordare a Steve Bone i suoi trascorsi di metallaro impenitente, un pezzo dal flavour epico, con chitarra, basso e batteria a costruire un robusto wall of sound sul quale Max scolpisce un chorus a metà strada tra Dio e i primi Skid Row. ‘The Race’ è l’anello debole, se così lo si può definire, del disco, un rock interlocutorio senza quel mordente che ha caratterizzato le precedenti composizioni, fortunatamente subito riscattato dalla title track con la quale il disco va a compimento, un pezzo scoppiettante, con la batteria a menare le danze, chitarra e basso ad emergere con prepotenza nell’inciso e la chitarra a sfornare l’ennesimo solo di gran gusto. Il tratto conclusivo di un disco che emoziona dall’inizio alla fine, forse non originale (per il senso che può avere oggi la parola originalità), sicuramente onesto e sincero, e nel mondo plastificato della musica, sbagliare facendo parlare il cuore è davvero difficile.

Tracklist

01. Me Against Myself
02. Endless Road
03. Some Kind Of Blues
04. Stronger
05. Rambling Heart
06. Rusty Broken Song
07. Red Sun
08. A Perfect Alibi
09. Shoot You Down
10. The Race
11. Demolition Derby

Lineup

Max Bone: vocals
SerJoe Bone: guitar
Steve Bone: bass
Lele Bone: drums