Decades of Aggression: maggio 2024

Il 08/06/2024, di .

In: , .

Decades of Aggression: maggio 2024

Countdown to zero, ignition (warning)
Rising in smoke, glowing fire
Thrusting into the sky of the morning (warning)
All system down
Mayday
Mayday
Mayday
Mayday

Perché… conoscete forse un modo migliore per annunciare un articolo sui cinquantennali, quarantennali e trentennali del mese di maggio, anche se messo fuori nel mese di giugno neanche parlassimo dell’ambasciata di un governo in esilio? Personalmente no, e anche se ci occuperemo dell’incredibile debutto omonimo di Midnight e soci a tempo debito (tra due anni, per chi ci sarà), è sempre l’ora di un po’ di US Power a tutto volume…

Nella quota seventies di questo mese, due sono i dischi di rilievo qui segnalati. Il primo è un disco più citato che conosciuto, benché faccia parte della mitica coppia di debutto di questo incredibile tastierista britannico secondo solo al sommo Keith Emerson nelle classifiche di quegli anni. Stiamo parlando di Rick Wackeman e del suo ‘Journey to The Centre of The Earth’, registrato dal vivo alla Royal Festival Hall di Londra con un ensemble di tutto rispetto tra voci e orchestrali, a ridosso della lavorazione di ‘Tales from Topographic Oceans’ degli Yes e dopo aver stretto il sodalizio che si rivelerà duraturo con i membri dei Black Sabbath, conosciuti in tour e subito supportati in studio per ‘Sabbath Bloody Sabbath’. Per i più attenti ai dettagli, è l’epoca in cui Wackeman si farà servire un pollo al curry sul palco in segno di disincanto per le evoluzioni progressive dell’allora band madre, e tuttavia ‘Journey…’ rappresenta – assieme al precedente debutto solista ‘The Six Wives of Henry VIII’ – un canale preferenziale per prendere confidenza con il genio del biondo tastierista. Tra le narrazioni delle avventure del professor Lidinbrook, l’innesto di grandi partiture classiche (tra cui la citazione di ‘In the Hall of the Mountain King’ di Edvard Grieg) e momenti decisamente più “leggeri” che rappresentano comunque un ottimo esempio di commistione tra rock e musica colta, va segnalata la partecipazione di Wil Malone come arrangiatore (poi dietro la consolle del debut degli Iron Maiden) nonché la presenza di un vero e proprio sequel uscito nel 1999, dal titolo ‘Return to the Centre of the Earth’, vero e proprio spin off della storia originale di Jules Verne. Con ospite alla voce il nostro Madman preferito, neanche a dirlo!

Sembra detto così per dire, ma ‘Phenomenon’ degli UFO è uno dei dischi fondamentali dell’epoca. Per parlare di questo scintillante cinquantenne possiamo iniziare a lodarne l’inquietante copertina in pieno stile Hipgnosis, o magari i pregevoli residui di space rock di ‘Crystal Light’, il mood blues-based americaneggiante di ‘Oh My’ e ‘Built for Comfort’, le evoluzioni a metà tra Black Sabbath e Scorpions della conclusiva ‘Queen of the Deep’, ma significherebbe girarci attorno come un gatto con la preda: il motivo per cui questo disco è sull’Olimpo è l’arrivo alla corte di Moog e Way del Wunderkind per eccellenza, Michael Schenker, fresco fresco di pubblicazione del debutto degli Scorpions, in cui aveva eseguito partiture incredibili ancora minorenne. Suo il tratto distintivo su tutte le tracce, sua la responsabilità per la nuova direzione decisamente hard rock intrapresa dal gruppo, suo il marchio su i due pezzi degli UFO per antonomasia, le arcinote ‘Doctor Doctor’ e ‘Rock Bottom’, un manuale della chitarra elettrica validissimo ancora oggi. Per non parlare di ‘Lipstick Traces’, antesignana degli episodi strumentali disseminati nei suoi futuri dischi solisti, come ‘Bijou Pleasurette’.

Approdiamo agli anni ’80, con uno dei dischi più rappresentativi dell’epoca, ‘Stay Hungry’ dei Twisted Sister! Dell’album si è occupato diffusamente e in modo assolutamente esauriente il nostro Giuseppe Bellobuono, perciò non occorrerà aggiungere altro… se non riguardare il video dell’inno generazionale ‘We’re Not Gonna Take it’, sequel o prequel di ‘I Wanna Rock’ conta poco, alla luce del cipiglio fermo ed efficace di Dee Snider dinanzi agli inquisitori del PMRC. Un vero e proprio “film nel film”, un po’ come quelli delle interminabili mattinate di inizio estate su Italia 1…

Dei Battleaxe e di quanto fossero purtroppo fuori tempo massimo già all’epoca del debutto abbiamo parlato già nel numero di febbraio, riferendoci al decennale del loro allora comeback ‘Heavy Metal Sanctuary’. Al di là di tutto, ‘Power From The Universe’ era l’espressione di un heavy sanguigno e marcatamente “europeo”, uno degli ultimi figli della NWOBHM con un occhio alle sonorità rocciose di Accept e Judas Priest, e un’attitudine stradaiola e quadrata mutuata dai maestri AC/DC. Varrà la pena di citare la saxoniana ‘Fortune Lady’, le anthemiche ‘Chopper Attack’, ‘Metal Rock’ e ‘Licence to Rock’, per un disco che i defenders più incalliti hanno il dovere di non lasciare nel dimenticatoio…

Nella valutazione della discografia di Yngwie Malmsteen le opinioni su dove piantare il cippo di confine tra “imperdibili” e “trascurabili” sono molteplici e spesso particolarmente difformi. Certo è che, pur riconoscendo la superiorità e l’importanza storica dei primi tre album, a questo ‘The Seventh Sign’ che apre la nostra carrellata anni ’90 tocca un posto particolare in quanto possibile ultimo baluardo dei dischi “tutti belli / all killer, no filler” dello svedesino tutto pepe. Che poi non è neanche vero, perché già il precedente ‘Fire and Ice’ mostrava alcune crepe, che qui sinceramente sono già un ricordo del passato, con una tracklist stellare che spazia dalla classica opener al fulmicotone ‘Never Die’ all’oscura ‘Pyramid of Cheops’ (dal vivo eseguita con una Flying V – caso più unico che raro!), passando per la bella strumentale ‘Brothers’ poi oggetto di “sinfonizzazione”, per gli episodi più hard rock del calibro di ‘I don’t Know’ o ‘Bad Blood’ e per le ballatone ‘Forever One’ o ‘Prisoner of Your Love’, dal ritornello tanto pacchiano quanto azzeccato alla musa del momento, quella Amberdawn che nel tour del successivo ‘Magnum Opus’ sarà (per così dire) il pomo della discordia tra il lider maximo e Mike Vescera. Dategli un ascolto se ve lo siete perso all’epoca, non fosse altro che per godervi la possente voce di un Vescera a pieni cilindri appena reduce dei Loudness, forse l’ultimo singer davvero degno al 100% del nome del Maestro, le telluriche scariche di Mike Terrana e le pregevoli partiture del compianto Mats Olausson, ben evidenti sia sulla classicheggiante ‘Crash and Burn’ che in tutto quel fantastico documento del tour di supporto all’album che è il ‘Live at Budokan’.

Le recensioni dell’epoca di ‘Fear, Emptiness, Despair’ dei Napalm Death parlavano di un disco “più leggero dei precedenti”. Ovviamente la definizione divenne uno degli inside joke per eccellenza della nostra combriccola, dato che già l’opener ‘Twist the Knife (Slowly)’ mostrava l’ugola di Barney Greenway in piena forma, e tuttavia va riconosciuto che dopo il manuale del grind scritto e codificato dai primi due album con Lee Dorrian e le incursioni nel death metal più feroce mai apparso sino ad allora sotto lo stendardo della Union Jack con ‘Harmony Corruption’ e ‘Utopia Banished’, questo quinto album appariva senz’altro debitore delle influenze groovy imperanti all’epoca. Sempre e comunque nello stile di Shane Embury e soci, come dimostra l’anthemica (a modo loro) ‘More than Meets the Eye’. A proposito, occhio alla line-up: Mark “Barney” Greenway, Jesse Pintado, Mitch Harris, Shane Embury, Danny Herrera… è o non è il dream team delle formazioni dei Napalm Death?

Probabilmente il mondo si divide tra chi è rimasto stregato dall’operato di Evan Seinfeld e Billy Graziadei, e chi passa oltre senza neanche pensarci più di tanto. Personalmente, l’apparizione di un pugno di hardcore/punks sulle frequenze di MTV mi fece sgranare e non poco gli occhi, seppure al netto di un taglio sin troppo vicino al rap/core (ce ne fossero ora, di gruppi così) dispiegato dai Biohazard, suggellato dalla loro partecipazione alla prestigiosa colonna sonora di ‘Judgment Night’. Probabilmente invecchiato un po’ così così, ‘State of the World Address’ resta una vivida fotografia delle istanze e delle urgenze dell’epoca, con episodi grondanti sudore e fumo metropolitano come ‘What Makes Us Tick’, ‘Tales from the Hard Side’, ‘Five Blocks to the Subway’ e ‘Cornered’, minacciose sin dai titoli, per non parlare della loro partecipazione dell’epoca al tributo ai Black Sabbath ‘Nativity in Black’ con una versione muscolare del deep cut ‘After Forever’.