Frantic Fest Day 2 @ Francavilla al Mare (CH), Tikitaka Village, 15 agosto 2025
Il 28/08/2025, di Francesco Faniello.
“Volevo sape’ come stai messo pe’ Ferragosto”, diceva Enzo ai suoi malcapitati interlocutori telefonici nel classicone verdoniano “Un Sacco Bello”… eh niente, a Metal Hammer Italia sappiamo sempre la risposta a questa domanda, con buona pace del proverbiale Sergio. A giudicare dalla linea rossa col Direttore, saremo sembrati per un attimo personaggi di un improbabile remake, ma ne è valsa la pena: la triade degli inviati storici del Martello al Frantic è ricostituita, e abbiamo avuto con noi anche la solerte Federica, preziosissimo supporto per i contenuti video realizzati in loco.
A questo proposito, il caldo e la controra meridiana wertmülleriana ci hanno fatto inopinatamente perdere, oltre al già citato podcast bonettiano e al Sarapanda, le esibizioni dei promettentissimi Xenos A.D., Dewfall e Feral Forms, a cui vanno le nostre scuse – ma grazie a Federica siamo riusciti a recuperare in corner almeno gli Xenos A.D., per un’intervista relativa alle ultime mosse dei thrashers siciliani. Si impone qui una breve riflessione sull’ampio spazio storicamente concesso dal Frantic alle band italiane, anche se stavolta spicca la loro assenza nella “parte alta della classifica” e (quasi) conseguentemente sul palco grande, eccezion fatta per i Necrodeath. Pura casualità dovuta alla congiuntura annuale, immaginiamo, anche se nei nostri cuori resta l’edizione 2022 anche per questo motivo – nonché per essere stata quella che ha visto il debutto della nostra/vostra triade di inviati!
I Winterfylleth sono già sul palco al nostro arrivo, e sin dalle noste che giungono dal parcheggio capiamo che i blacksters britannici, fuori con il loro ultimo ‘The Imperious Horizon’, hanno subito la gradita influenza dei Paradise Lost ma anche dei Type O Negative, a giudicare dalle aperture corali che puntellano un set altrimenti caratterizzato dalla ferocia d’ordinanza. Intanto, al Tent Stage prende posto un’eccellenza mai troppo riconosciuta, un vero e proprio stendardo per gli amanti del doom “a modo nostro”, i Doomraiser! Lo stage set è semplice ma efficace, richiamando il loro ultimo album “bianco” (‘Cold Grave Marble’) da cui la band pesca a piene mani indulgendo anche su quelli che ormai sono piccoli classici di qualche anno fa come ‘Chimera’. I cinque riempiono letteralmente l’etere con i suoni tondi di estratti come ‘Profondo Nero / Life in Black’ impreziositi da quelle accelerazioni sabbathiane della title track ‘Cold Grave Marble (Winter Moon)’ nonché dall’acidità di fondo di riff pesanti come macigni. Da supportare sempre.
Si torna al Main Stage, dove Panzerfaust hanno travolto il Frantic con uno show potente, oscuro e teatrale. La loro miscela di black metal denso e atmosferico ha catturato l’attenzione fin dalle prime note, portando il pubblico in una dimensione solenne e apocalittica, dominata dalla torreggiante figura del singer Goliath. Anche sotto la luce del tardo pomeriggio, il loro impatto è stato totale: una performance che ha lasciato il segno, e sebbene l’espressione “suono dell’Apocalisse” venga ampiamente abusata, il suo impiego è qui più che giustificato dai rantoli di Goliath. Di tutt’altro tono l’esibizione dei crossover thrashers Insanity Alert, che ci accolgono con un intercalare mezzo in italiano e mezzo in inglese tra un pezzo e l’altro, oltre che con il loro inconfondibile sound. L’attitudine tongue-in-cheek del quartetto di Innsbruck si esprime decisamente cn titoli come la ‘Moshemian Thrashody’ (chiaro, no?), ‘Why Is David Guetta Still Alive?’ e con la loro versione di ‘Run to the Hills’, che diventa l’occasione per urlare crossover thrash is all we need! L’esibizione va così, tra nichilismo, thrash/core a profusione, i cartelli da teatro brechtiano branditi dal cantante Heavy Kevy (“Mosh for your life”!), la réclame del döner kebab che scorre sul piccolo schermo e un basso alla Nuclear Assault a coronare il tutto. Grandissimi.
Uno dei dischi più importanti degli Orange Goblin si chiama ‘Time Travelling Blues’ e il titolo risulta quanto mai azzeccato in questa occasione. L’esibizione dei britannici risulta come tra quelle più attese da un pubblico che ha portato tutto il suo calore dinanzi a quella che sarà l’ultima data italiana di Ben Ward e soci e che pertanto assume un sapore molto particolare. I primi riff della Les Paul di Joe Hoare ci catapultano appunto nel decennio celebrato da Davide Pansolin con il suo ‘Kiss the Sun’, con i polsi che tremano al primo accenno di ‘Saruman’s Wish’, tratta dal primo album e scelta all’epoca da Lee Dorrian in persona per far parte della sua ‘Dark Passages vol. II’. Davvero, non possiamo credere sia la loro ultima volta, e tuttavia questo rende ancor più imperdibili i momenti vissuti da un pubblico letteralmente in visibilio, travolto dall’energia di ‘The Filthy and the Few’, della britannicissima ‘Renegade’ opportunamente dedicata alla memoria di Lemmy, della stoogesiana e recentissima ‘(Not) Rocket Science’ e della motorheadiana ‘The Devil’s Whip’, tutti efficaci contraltari agli esordi lisergici che ci invitano al contempo a rispolverare una discografia ricca e multiforme. Ci mancherete, decisamente.
Il bello del Frantic, come già detto, sta nella miscela di suoni e nel melting pot di gruppi provenienti da esperienze apparentemente agli antipodi. Ecco perché i Groza appaiono come la prosecuzione più naturale del festival, senza che vi sia digrignare di denti, né tra gli amanti delle sonorità più estreme né da parte di chi ha in quelle più polverose il suo habitat naturale. I nostri incappucciati suonano un black disperato e misantropico con voci sofferenti, ma senza quelle timbriche stridule che hanno marchiato a fuoco il genere. Molto meglio così, perché ricordano da vicino MGLA ma anche Coil Commemorate Enslave e ciò è un bene. Interessantissimo l’intreccio tra i due axemen, uno fautore di chitarre a zanzara e l’altro dispensatore di arpeggi a profusione: un set a cui valeva la pena davvero di assistere.
Non ci sono dubbi: una buona fetta di pubblico è qui per i Leprous, e a noi non resta che prenderne atto. D’altronde, Baard Kolstad è una forza della natura dietro le pelli, e senza la sua eccellente caratura il loro neoprog da Circolo Polare Artico non sarebbe neanche pensabile. Che piacciano o no, episodi come ‘The Price’ lasciano decisamente il segno, anche perché vengono da un periodo in cui i norvegesi si apprestavano a dire la propria in un panorama decisamente inflazionato ma che li ha accolti con tutti gli onori, come è evidente. Il legittimo rilievo è che lo show abbia assunto sempre più la connotazione di un’esposizione internazionale di meccanica di precisione, con l’attacco di ‘Illuminate’ che ci fa davvero interrogare su quali siano i rischi di abuso della formula neoprog – gli stessi che c’erano nei decenni scorsi, dopotutto. Il fatto è che si ha l’impressione che Einar Solberg si sia collocato stabilmente al centro della scena, non solo in quanto frontman, ma anche in quanto showman/ginnasta alla maniera di Matt Bellamy o dei Coheed and Cambria. Tutt’altra storia i Leprous rispetto ai due esempi citati, certo, ma l’indulgere sulla forma chanson non allontana il dubbio di essere dinanzi a una dimostrazione muscolare più che di enfasi sonora. Che poi, come saprete, Solberg è il cognato di Ihsahn: deve essere uno spasso immaginarli alle cene di famiglia, con due dramatis personae che sembrano agli antipodi e che ricordano la dicotomia tra Jake Fratelli e Francis Fratelli nei Goonies, che però invece di scambiarsi idee sul melodramma lo fanno sulla produzione dello Steven Wilson solista e no. In definitiva, show impeccabile ma non si sentiva tanto solipsismo dai tempi in cui DeFeis furoreggiava sui palchi cari ai defenders…
La notte è inoltrata, ma c’è ancora tempo per godersi il taglio black votato al folk degli Hexvessel, il cui set ci fa pensare alle suggestioni dei Darkthrone più classicheggianti (quelli di ‘The Underground Resistance’, per intenderci) intinte nei saltarelli rinascimentali. Abbiamo particolarmente apprezzato le attestazioni di stima per Steve Sylvester e Paul Chain da parte del leader Mathew Kvohst McNerney, ma tant’è: che la fama dei nostri poeti, santi e navigatori contemporanei fosse giunta fino alla Scandinavia è notizia ormai risaputa, come sa bene un certo Tobias Forge…
Testo di Francesco Faniello e Federica Sarra
Foto di Alex Ventriglia