Motorhead – Bastardi e Duri a Morire

Il 20/08/2014, di .

Motorhead – Bastardi e Duri a Morire

Gli anni passano ed i Motörhead restano – forse – una delle poche certezze in ambito heavy rock. Ma se gli acciacchi minano la credibilità del gruppo, come reagire? Senza panico, selezionando le apparizioni e lavorando su di un disco di cover…semplice, no?

I Motörhead sono Lemmy, questo è fuori discussione ed i clamori mediatici, se così si possono definire, generati da uno stato di salute evidentemente precario rischiano di essere l’unico elemento di discussione attorno al quale si arrovellano le opinioni dei fan. Dall’altra parte però, la ritrovata ispirazione artistica del gruppo, manifestata lo scorso anno con l’ottimo ‘Aftershock’, fa ben sperare quella pletora di devoti (in America sempre più numerosi, per assurdo) che si è orientata verso le sole uscite da studio della band. Ponderando i due opposti, dobbiamo temere l’avvicinamento al capolinea per i gloriosi Motörhead si o no? Il calo prestazionale dal vivo è innegabile – ed il concerto tenuto dalla band nell’ambito dell’Alfa City Sound di Milano ne è purtroppo testimone evidente – ma l’opportunità di colloquiare col drummer Mikkey Dee ci rassicura parecchio, grazie a parole che rifuggono nettamente la circostanza, ma mettono in campo una credibilità da leoni che farebbe invidia anche ai più giovani tra voi lettori. Dubbi e perplessità a parte, temporale permettendo, ci siamo appartati con l’affabile Mikkey il quale ci ha raccontato molto della sua storia di musicista e qualche gustoso aneddoto che lo ritrae come l’ago della bilancia di una delle più longeve realtà heavy rock contemporanee…
“Sono un batterista perché sono un totale idiota. Avrei potuto scegliere il triangolo, ad esempio, strumento sicuramente più semplice e probabilmente più redditizio, ma visto che provengo da una famiglia di batteristi mi sono lasciato condizionare ed eccoci qui. La cosa è iniziata sotto forma di un hobby che lentamente si è trasformata in una vera e propria ossessione; dovevo diventare un atleta, ero molto forte in quasi tutte le discipline sportive, dallo sci all’hockey su ghiaccio, dal football all’atletica in generale. Questo accadeva quando vivevo ancora in Svezia e poi, lentamente, tutto si è trasformato, ho cominciato a suonare costantemente con alcune band della zona e la necessità di crescere come batterista si è resa evidente. Ti parlo del 1979, al massimo del 1980…è stato a quel punto che la musica ha cessato di essere una semplice copertura dei tempi morti lasciati dallo sport ed è diventata la mia assoluta priorità.” Lo stile di Mikkey Dee è molto “fisico” ed atletico, quasi parte della sua vena di puro sportivo si sia trasferita anche nel suo stile dietro ai tamburi… “Beh, sicuramente ci sono infinite analogie tra lo sport e la musica, specialmente se il tuo genere preferito è l’hard rock, dove per un batterista è necessario picchiare duro e riempire lo spazio tra le note, ma non ho scelto di diventare un batterista “fisico” per questa ragione. Il mio stile è maturato nel corso del tempo, diciamo dagli ultimi 35 anni in avanti: da ragazzo ero affascinato dal blues e dal jazz e se analizzi il mio stile quando stavo con King Diamond noterai che ero molto più attento alla tecnica ed alle dinamiche rispetto al mio sound attuale. Tutto è cresciuto col tempo, anche se ammetto di aver sempre picchiato duro.” Proprio dal genio di King Diamond ha avuto inizio l’escalation che poi ha condotto Mikkey alla corte di Lemmy… “Esatto, ho conosciuto King dopo essermi trasferito a Copenhagen per unirmi ai Geisha, una band locale che aveva un discreto seguito. Giravamo per i locali a caccia di ragazze ed entrai in stretto contatto sia con Timi Hansen che con Michael Denner (entrambi in forze nei Mercyful Fate), col quale ho addirittura vissuto per qualche periodo. Da loro fui informato che King cercava un nuovo batterista per la band, salvo scoprire, qualche tempo dopo, che l’intenzione reale di King era quella sciogliere i Mercyful Fate e proseguire proprio con Timi e Michael. Da li è iniziato un periodo magnifico dove noi quattro abbiamo veramente spaccato il mondo: in tre anni, dal 1986 al 1988, siamo passati dall’essere degli illustri sconosciuti a stregare gli USA. Ricordo tour sold out, ragazze che impazzivano per la band, ma non è durato; alla fine del 1988 ho notato che qualcosa era cambiato, che la band stava disgregandosi con King da una parte, assoluto protagonista della scena e noi dall’altra, dei gregari costantemente in secondo piano. Ho cercato di parlare con King della cosa, di farlo ragionare, ma non c’è stato nulla da fare: eravamo una band, ognuno di noi aveva dato il suo contributo per farci uscire dall’underground e tutto stava filando a meraviglia! Alla fine la cosa più onesta nei confronti di noi stessi e dei fan fu di separarci. King ed Andy (LaRoque, chitarrista) da una parte, io ed Hal (Patino, bassista) dall’altra. Così me ne andai ed entrai per qualche tempo alla corte di Don Dokken.” L’incontro con Lemmy non pare però così fortuito, visto che Mikkey gravitava nell’area Motörhead da molto tempo prima del suo ingresso ufficiale in formazione… “Vivevo a Los Angeles da qualche tempo, suonavo con Don ed ero sostanzialmente libero di fare quello che volevo; un bel giorno, credo attorno alla fine del 1990, ricevo una chiamata da Lemmy che mi invita ad ascoltare il loro nuovo album, quello che fu poi ‘1916’, chiedendomi opinioni circa il lavoro di batteria di Philthy (‘The Animal’ Taylor, drummer storico della band). Ho dato il mio modesto contributo senza concedermi troppe speranze poi, alla fine del 1991, sono stato chiamato per entrare come session per ‘March Ör Die’ (1992) un disco nettamente di transizione. La band cercava di capire in quale direzione andare ed il mio contributo è stato determinante nel ritrovare la potenza e la voglia di picchiare duro: ‘Bastards’ (1993) è il perfetto condensato di quello che ti sto dicendo, un disco senza fronzoli, possente e devastante come pochi altri nella discografia del gruppo.” Mikkey porta quindi una ventata di aria fresca nel sound ma anche un maggiore equilibrio nella vita della band… “Penso di essere una specie di consigliere, quello che guarda con razionalità alle varie situazioni. Oggi io e Phil Campbell scriviamo il 90% della musica e Lemmy si occupa delle armonie e dei testi. Si tratta di un risultato notevole, ottenuto dopo anni di interazione tra caratteri forti che difficilmente si tirano indietro davanti al prossimo.” I Motörhead hanno affrontato anche situazioni difficili legati ad uno stile di vita non proprio tranquillo. Ma come pensare di continuare? “Semplice, selezionando il numero di apparizioni. Se nel 2000 suonavamo 150 date all’anno senza problemi, nel 2015 ne suoneremo solo 30 in posti selezionati dove poter essere noi stessi. Non esiste una dimensione ideale per noi, ma non è più pensabile comparire in piccoli club dove la temperatura sul palco si aggira attorno ai 50°. È come comprarsi una Ferrari e fare del fuori strada, non ha senso. Tutto deve avere una dimensione accettabile, la chiave necessaria per evitare qualsiasi problema. In questo gruppo, negli ultimi 20 anni, abbiamo affrontato ogni tipo di situazione senza paura: ad esempio, ricordo che quando c’era Würzel (Michael Burston, scomparso lo scorso 9 luglio 2011 a causa di un infarto) in formazione era tutto un casino. Beveva di brutto e stare sul palco in condizioni del genere penalizzava notevolmente le performance degli altri; ne abbiamo parlato tra noi con la solita diplomazia che ci contraddistingue ed abbiamo risolto la cosa, no?” I risultati di ‘Aftershock’ sono stati considerevoli, ma quando tornerete di nuovo in studio? “Non sappiamo esattamente quando, ma forse l’anno prossimo faremo qualcosa. Per il momento è in uscita la ‘Tour Edition’ di ‘Aftershock’ e questo mi fa piacere, anche se avrei preferito avere un DVD piuttosto che un CD live bonus. Aspettatevi un disco di cover, è da diverso tempo che ne parliamo tra di noi e potrebbe essere l’occasione ideale per togliere un po’ di polvere dalle nostre radici. Certo, non sarà semplice selezionare i brani visto che ognuno di noi ha ispirazioni diverse. A me, ad esempio, piacerebbe lavorare su qualche pezzo dei Rush, ma lo immaginate Lemmy cantare ‘Xanadu’ o ‘The Trees’? Ah ah (ridacchia canticchiando il pezzo come farebbe Lemmy, nda). Oppure immagino quel bastardo di Phil preparare ‘Livin’ On A Prayer’ di Bon Jovi, spassoso a dire poco. In realtà le nostre origini si incontrano ad inizio anni ’70 e quindi ci concentreremo su Deep Purple e Rainbow, giusto per fare un paio di nomi.”

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