The Dead Daisies – Veri Rocker!

Il 29/01/2021, di .

The Dead Daisies – Veri Rocker!

Saranno i quarant’anni oramai superati da un po’, ma le interviste con figure che hanno segnato il mondo della chitarra o del rock negli anni Ottanta sono quelle che preferisco. Figure che ho imparato a idolatrare quando ero adolescente e che sono sopravvissute fino ad adesso, facendosi forse involontaria bandiera di un genere – il nostro preferito –  che in quattro e passa decadi dal suo massimo splendore ha cambiato volto e forma innumerevoli volte. Di questa risma sono i quattro immarcescibili capelloni componenti attuali dei The Dead Daisies: Doug Aldrich, Deen Castronovo, David Lowy e – ultimo arrivato – il gradissimo Glenn ‘The Voice Of Rock’ Hughes. Proprio col biondo chitarrista parliamo del nuovo album ‘Holy Ground’, dei piani futuri e di cosa vuol dire essere un rocker vecchio stampo nel 2020…

Quest’anno non si può iniziare non parlando della pandemia… Quanto questo avvenimento ha impattato i vostri piani per l’album nuovo?
“In realtà nella produzione dell’album nuovo, la pandemia globale ha impattato decisamente poco… l’album di fatto era già pronto prima che le cose cominciassero a farsi gravi. Certo, ha impattato su tutto quello che c’è stato dopo. L’attività live azzerata ci ha convinto a spostarlo avanti di diversi mesi per poterlo promuovere adeguatamente, e anche così non si sa come finirà. L’album era pronto e così abbiamo fissato una data per gennaio del 2021.”

Deve essere stata dura, vero?
“Direi che la situazione è stata dura in tutto il mondo, e lo è stata anche per noi, discorsi sull’album a parte. Vedi, la musica è essenziale per la salute mentale. Almeno per me. Penso che tanti musicisti hanno dovuto trovare degli equilibri diversi per quella che è il ruolo della musica nella loro vita, e nessuno se l’aspettava. È stata dura e lo sarà per i prossimi mesi ancora. Ma dobbiamo resistere”.

Se la pandemia non ha impattato sulla creazione dell’album sicuramente l’avrà fatto la presenza del nuovo entrato, nientemeno che Glenn Hughes, “The Voice Of Rock”! Che ci puoi dire su come è avere uno come lui in squadra?
“Che ti devo dire? Impatta tutto, a qualsiasi livello. Dopo tutto, è di Glenn che stiamo parlando. È un cantante fenomenale, ma ti assicuro che è anche un bassista fenomenale. Ha un suo modo di suonare così groovy che non può non impattare sui pezzi che vengono composti collaborando assieme. Però devo dirti che non ci sono state difficoltà dovute alla sua presenza nella scrittura dell’album. Lo conosco da tanto tempo, andiamo molto d’accordo, e siamo riusciti a lavorare benissimo assieme.”

Quindi anche comporre assieme a Glenn è facile? Non ha una personalità forte che tende a imporsi?
“Sì, ha la sua personalità, ma lavorare con lui è stato bello lo stesso. È pieno di talento come ti ho detto, ma la cosa più incredibile è l’ispirazione che ti porta mentre ci lavori insieme. È un vulcano di idee, mentre stai lavorando, ti può uscire con una soluzione, una linea melodica, così, dal nulla. È come se parlassimo la stessa lingua, lavorare con lui è… ‘ispirante’, ecco. Ispirante anche per me.”

E che mi dici degli altri? Anche loro sono personaggi noti e con bei caratteri… qual è il segreto per mantenere in armonia un supergruppo? Come si collabora efficacemente tra artisti ciascuno con una solida carriera solista e un nome ben noto e conosciuto da proteggere?
“Il segreto è quello che ti consiglio di avere anche nella vita: il rispetto. Siamo tutte menti che scrivono e che propongono idea, a ognuno fa piacere che la propria idea non venga modificata, ma se ascolti un attimo quello che gli altri hanno da dire e ragioni per il migliore risultato possibile, alla fine arriverai sempre a un equilibrio che soddisfa un po’ tutti. E posso dirti che ognuno di noi è rispettoso degli altri. Quindi non ci sono problemi ancora, per fortuna”.

Per una volta abbiamo un’opener che è anche la prima canzone composta per l’album, ‘Holy Ground’. Tra l’altro una bomba di canzone, che introduce perfettamente l’approccio potente e dinamico degli altri undici brani. Come è venuta fuori questa particolare composizione?
“Si, era uno dei primi brani su cui decidemmo di lavorare. CI trovammo insieme nell’agosto dell’anno scorso (intende il 2019, ndr.) e quella che sarebbe poi diventata ‘Holy Ground’ era una delle bozze che Glenn aveva portato per quelle prime sessions, per lavorarci sopra tutti assieme. Propose l’idea generale sulla chitarra acustica, capimmo subito che era un grande pezzo, ci lavorammo un po’ ma poi non è stata la prima canzone a essere terminata. La prima credo sia stato ‘Righteous Day’, che venne fuori molto facilmente. Poi però, qualche tempo dopo, mentre cercavamo nuove idea, ci ricordammo di quel pezzo di Glenn. La semplificammo un po’, io decisi di appesantirne decisamente il suono e ci trovammo con l’apertura perfetta che ancora ci mancava.”

Bel racconto! Che mi dici invece di ‘Far Away’? È un pezzo più lungo e complesso, e l’avrei visto bene al centro dell’album, magari prima di un paio di pezzi più semplici e diretti. Che mi dici di quel brano? Come mai è stato messo in fondo?
“In effetti questa canzone è un po’ la pietra angolare dell’album secondo me. Un po’ lo rappresenta, pur essendo diversa nello stile. L’ho sentita suonare da Glenn anche questa, come bozza di idea futura, e ho intravisto diversi modi in cui poteva evolvere. Ci abbiamo lavorato così tanto che è diventata una ‘mini epica’! Comunque, non la considero ‘il pezzo conclusivo dell’album’. Non mi importa la posizione. È il pezzo più diversificato dell’album, ecco, quello sì.”

Si è parlato di un tuo lavoro, Doug, come produttore… ma non è il caso di quest’album, vero?
“No, non sono il produttore di ‘Holy Ground’ e nemmeno ci sono stato coinvolto. Ti parlo dalla prospettiva di compositore e guitar player, che sono la mia dimensione. Ovviamente ho lavorato con tutti quanti per creare le canzoni che andassero bene per quello che volevamo, ho dato dei consigli in regia… ma quel lavoro è stato svolto da altri.”

Lasciando l’album e tornando all’attività dal vivo e promozionale, so che c’è un pano per suonare con i Judas l’anno che viene, covid19 permettendo… ce ne parli?
“Già! Il piano c’è e si farà, ma non sono qui a poterti dire tutte le date… comunque è una grande opportunità. Suoniamo qualcosa di un po’ diverso ma penso che potrà essere una bella occasioni per tutti. Io sono felice, loro sono i Metal Gods! No?! Penso che concentreremo la proposta sulla nuova produzione… abbiamo Glenn alla voce adesso, l’album è potente e adatto all’audience e non c’è motivo di non prendere il massimo possibile da li. Ovviamente ci saranno anche pezzi dagli album precedenti, dopotutto abbiamo pezzi di successo anche da li… penso che in molti vorranno sentirle.”

Di sicuro scegliere tra i vostri brani deve essere difficile visto che sono tutti dannatamente buoni… per ‘Holy Ground’ ad esempio avete fatto uscire tre singoli (‘Righteous Days’, ‘Unspoken’ e ‘BUstle & Flow’), ma sulla base di cosa sono stati scelti per presentare l’album? C’erano molte altre canzoni che potevano candidarsi…
“Ecco, la pandemia ha cambiato però l’ordine e le scelte che abbiamo avuto come singoli. ‘Unspoken’ non l’avevamo mai pensata come primo singolo, e ‘Bustle & Flow’, non doveva esserlo proprio. Uno dei singoli doveva essere ‘Holy Ground’, che come hai detto te rappresenta appieno le sonorità dell’intero lavoro… ma la quantità di brani pubblicati nel corso dell’anno – ben tre – ci hanno convinto a tenerla da parte. Insomma, avendo rimandato l’album ci siamo trovati a dover pubblicare più brani come singolo, e quindi alcune scelte poi sono cambiate… ma abbiamo fatto tutto lavorando da vera squadra e siamo felici del risultato.”

Ho una curiosità da chiederti. Quando guardiamo le foto promozionali dei The Dead Daisies, vediamo dei veri rocker. I ‘rocker’ propriamente detti, quelli che hanno creato questa immagine negli anni Ottanta. Adesso la figura del rocker è… beh, qualcos’altro. Come è portare avanti la bandiera di questo tipo di immagine ora, nel 2020?
“Cazzo, è difficile. Davvero difficile. E pure la tua domanda (ride, ndr.). Il punto è anche come siamo arrivati a fare quello che facciamo. Ai tempi, negli anni Settanta, dovevi comprarti un ampli… fare un po’ di casino nel garage, girarti un po’ di gente anche scarsa. Dovevi respirare quella vita li, sperando di raggiungere un obbiettivo, di diventare qualcuno. E quello era un modo di vivere, in qualche modo. Adesso è completamente diverso. Per i nuovi artisti ci sono nuovi modi di iniziare, nuovi modi di portare la propria arte, che non passa da questi steps. Quindi immagino che se anche sia più difficile emergere adesso dalla massa di gente che può produrre musica grazie alla tecnologia, sia anche più difficile fare quelle esperienze che caratterizzavano i rocker come noi.”

Prima di chiudere con l’intervista ti chiederei se puoi lasciarci un ricordo su Eddie Van Halen…
“Potrei dirti di quanto era bravo, talentuoso… di quanto ci ha dato con la chitarra, ma ho anche un ricordo che mi terrò sempre di lui. Stavo registrando un disco, ed ero con Andy Johns che lo produceva… avevamo dei problemi con la strumentazione che ci serviva e lui mi disse ‘possiamo andare a chiederla a Eddy Van Halen, ce la presta lui’. Io ero: ‘eh? Come? Van Halen ci presta la strumentazione?’. Ero sconvolto di quanto fosse stato disponibile e alla mano in quella situazione. In seguito aprii una show per lui, e fu grandioso per me. Be’, è uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, e anche una grande persona. Così voglio ricordami di lui.”

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