In Flames – L’Undicesimo Capitolo

Il 20/09/2014, di .

In Flames – L’Undicesimo Capitolo

Björn Gelotte si confida alla vigilia della release del nuovo ‘Siren Charms’, undicesima fatica discografica degli IN FLAMES, un disco che segna un passaggio importante nella storia di una band che proprio quest’anno compie 20 anni di carriera. Metal Hammer ripercorre la storia, passato e presente si fondono nel dipingere un quadro unico e di grandissimo interesse.

Undicesimo disco in studio. Gli In Flames arrivano a questo traguardo con un po’ di novità in tasca. Primo album su major label, primo disco con il contributo in studio di Niclas Engelin (sul disco precedente, anche se accreditato, non suonava nulla), primo lavoro mixato ai mitici Hansa Studios di Berlino, che altro? Indubbiamente ‘Siren Charms’ ha il compito difficile di confermare il successo di ‘Sounds Of A Playground Fading’ i cui numeri sono stati impressionanti sia da un un punto di vista di vendite che di critica. Critica che sembra sempre essere il tormentone che accompagna la band, soprattutto in Italia dove non si capisce come mai sembra esista uno zoccolo duro di palati iper-sofisticati che non perde occasione nel criticare la band di Gothenburg (ma poi come si scrive? Göteborg alla svedese, Gothenburg all’inglese o usiamo l’italiota arcaico Gotemburgo?????). Noi senza tanti mezzi termini lo abbiamo chiesto a Björn Gelotte, mastermind musicale della band.
“Alle volte alcuni sostengono che siano molti a criticarci, ma alla fine non è proprio così. Certo ci sono delle critiche, ma sono convinto che questo è come devono essere le cose. Per fare un esempio, non posso dire di aver amato tutto quello fatto dai Metallica, mi piacciono i primi cinque album, ma non mi sono piaciuti né ‘Load’ né ‘Reload’, ma non è importante. Io posso scegliere. Posso comunque decidere cosa ascoltare, e se voglio ascoltare i primi dischi, loro sono lì ad aspettarmi. E’ questo il bello della musica, nessuno ti può dire che cosa ti deve piacere. Ognuno di noi ha questa lussuosa libertà: possiamo scegliere. Non importa se ci sono persone cui oggi non piace quello che facciamo, in fondo noi scriviamo innanzitutto per noi stessi, la ragione per cui amiamo ancora quello che facciamo è che i primi destinatari siamo proprio noi: ogni canzone la scriviamo prima per noi e per nessun altro. Se non ti piace, se non riesci ad apprezzarlo… peccato, ma va bene così, hai comunque tutto il mio rispetto per la tua scelta.”
La citazione dei Metallica è intrigante, si tratta di un’altra band che ha cambiato tanto, al punto che di cercare di recuperare la propria identità cadendo nell’autocitazione e nella sagra della minestra riscaldata (adesso mi aspetto un profluvio di mail di fuoco). “Secondo me” dice Björn “ci sono band che possono tranquillamente auto-rigenerarsi citandosi all’infinito. Non è da tutti ovviamente, ma per certe band è legittimo. Se prendi band come AC/DC o Iron Maiden, alla fine hanno un loro sound, un loro modo di scrivere le canzoni. Anche cambiando qualcosa nella loro ricetta rimangono identificabili, hanno una loro identità precisa. Per band come noi invece sarebbe estremamente pericoloso rifare qualcosa che abbiamo già fatto. Cadremmo in uno strano paradosso in cui saremmo i primi a perdere interesse in quello che facciamo. Forse non riusciremmo più a divertirci. Nel passato ci hanno chiesto: ma perché non fate un nuovo ‘Clayman’ o un nuovo ‘The Jester Race’. La risposta è che li abbiamo già fatti una volta. Non possiamo rifare qualcosa nello stesso modo. Siamo invecchiati, non pensiamo più le stesse cose che pensavamo allora, non abbiamo più lo stesso produttore… ci sono così tanti ingredienti che oggi sono diversi. Sono convinto che sia meglio guardare in avanti e portare nella nostra musica quello che abbiamo imparato nel corso degli anni. Ovviamente ci portiamo dentro le nostre radici, è qualcosa che fa parte di noi e ci porteremo dentro sempre, ma al tempo stesso, negli anni abbiamo accumulato esperienze, abbiamo imparato cose nuove che si aggiungono a ciò che avevamo dentro di noi agli esordi. Fondere le radici con quanto abbiamo fatto nostro nel tempo è ciò che rende interessante quello che facciamo, che ci dà divertimento e che ci rende genuini quando ci esibiamo dal vivo. Noi non facciamo cover, non abbiamo un repertorio costruito per piacere a qualcun altro, noi suoniamo quello che amiamo. Penso anche che questo sia il motivo per cui siamo ancora insieme dopo oltre vent’anni… non tutti… ma l’essenza degli In Flames è quella ed è rimasta tale. Non suoniamo canzoni che ci fanno schifo (“we do not play shit songs”, le parole esatte di Björn, n.d.a.), magari a qualcuno potranno non piacere, ma è impossibile prevedere e accontentare i gusti di tutti. Quando ci mettiamo a comporre, i primi cui deve piacere quello che viene fuori siamo noi cinque: sentirsi felici, orgogliosi ed eccitati dal disco che sta prendendo forma è fondamentale. Se è così allora va bene, stiamo lavorando nella giusta direzione. Nessuna casa discografica, management o audience potranno mai cambiare quanto avremo prodotto, perché noi ne siamo felici.” Il modo di esprimersi è quindi cambiato… “Ovviamente oggi abbiamo un linguaggio completamente diverso e soprattutto nuove possibilità di poterci esprimere”.
Un riferimento al linguaggio mette in campo una vasta pletora di elementi da analizzare. Il linguaggio è verbale ma non solo, soprattutto per una band la musica stessa fa parte della semantica utilizzata per comunicare. Gli In Flames sembrano in una costante evoluzione stilistica che rende ogni uscita una sorpresa, ma nel dettaglio che cosa è cambiato?
“Quando abbiamo iniziato le canzoni erano scritte e pensate essenzialmente per essere registrate. Era un modo molto naïf di comportarsi. A suonare dal vivo e soprattutto andare in tour non ci pensavamo nemmeno. Soprattutto non pensavamo al fatto che i brani che avevamo scritto andavano poi suonati live, su un palco e con i limiti che ci sono rispetto ad uno studio di registrazione. Oggi non posso che definirlo naïf come ho già detto. Ancora oggi quando assembliamo una set list con materiale recente e più vecchio appaiono chiari tutti i limiti dei brani scritti allora. Per farla breve quelle canzoni non erano scritte nel modo giusto. Io sono molto fiero di tutto quello che abbiamo fatto e su disco non ci sono problemi, ma dal vivo le cose cambiano completamente. Si tratta di approcci completamente diversi alla musica. Noi passiamo il 99% della nostra carriera musicale suonando dal vivo e in studio di registrazione ci andiamo una volta ogni tanto. E’ corretto comporre cercando di assemblare il miglior disco possibile, ma non ci si può scordare dall’aspetto live. Questa è la differenza principale dalla prima fase della nostra carriera. Sui primi dischi avevamo così tante partiture di chitarra, doppiature, armonie che cercavamo di mettere in ogni canzone… ma non c’era nessuna dinamica, la canzone in sé funzionava, ma era in realtà una carenza che emergeva soprattutto dal vivo. Nel frattempo abbiamo raggiunto anche una maggiore apertura mentale che ci consente oggi una sperimentazione maggiore. Non abbiamo paura di metterci in discussione, siamo consapevoli di quello che siamo e di cosa possiamo fare. L’unico modo per essere onesti è di amare ciò che si fa. Anche come persone siamo oggi diversi, nel tempo cambi le tue preferenze, ovviamente non le radici, hai nuovi strumenti tecnologici che puoi utilizzare, ci sono un sacco di elementi che si inseriscono e hanno effetti sul tuo modo di comporre e di suonare per cui un’evoluzione è inevitabile. Anche nel mio caso specifico. Io ho un set up molto semplice in studio, eppure ho cercato di registrare anche alcune parti di tastiera sopra a quelle di chitarra, anche solo per sentire che cosa veniva fuori. Prima non l’avrei mai fatto. Anche su un disco come ‘Clayman’ (Björn cita in tutta l’intervista ‘Clayman’ come momento nodale della carriera della band, quasi esista una realtà prima di ‘Clayman’ ed una diversa dopo) non avremmo mai fatto cose di questo genere. Senza contare che oggi siamo probabilmente dei musicisti migliori di allora e che è giusto fare qualcosa che costituisca una sfida. Non puoi sempre ‘play safe’, devi sempre porti delle nuove sfide… questo non vuol dire cercare di fare dei soli alla Malmsteen, non sarei mai in grado di suonarli, ma le sfide sono proprio nel songwriting, negli arrangiamenti, nei suoni. Dal mio punto di vista siamo in un’epoca in cui è veramente interessante scrivere e comporre e sono molto contento di come lo stiamo facendo. Siamo cresciuti come musicisti, ma anche come persone. Ho quasi quarant’anni, non ne avevo nemmeno venti quando sono entrato negli In Flames, non posso essere lo stesso di allora. Ho il doppio degli anni e se da allora mi sono evoluto è anche normale. Il mio modo di vedere la vita, le mi aspettative e il mio modo di essere non possono certo essere rimasti quelli di allora. Certo la mia… la nostra evoluzione non può essere condivisa da tutti, ma non è questo il punto.”
Uno degli aspetti prettamente musicali che ha accompagnato l’evoluzione del sound degli In Flames è stato il cambio di accordatura delle chitarre divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica. Soprattutto quando sono passati al Drop in La# il suono della band ha subito una trasformazione acquisendo un’identità tutta sua… “In verità abbiamo cambiato accordatura due volte. Agli inizi suonavamo in Mi standard (per un approfondimento su questo aspetto vi rimandiamo al box specifico) o forse sotto di un solo semitono. Ma quando siamo arrivati a ‘The Jester Race’ abbiamo cominciato a desiderare un suono più dark e pesante. L’unico modo che conoscevamo per ottenere questo genere di suono era togliere molto gain e distorsione dalle chitarre ma soprattutto accordarsi più in basso, così ci accordammo in DO. Ovviamente questo ci costrinse ad usare delle corde più spesse, che con una saturazione inferiore, ci consentirono un suono molto più soddisfacente. Avevamo trovato la profondità che prima ci mancava. Utilizzando questa configurazione abbiamo fatto un paio di dischi poi (credo che fu ai tempi di ‘Clayman’) ci venne l’idea di droppare ulteriormente la sesta corda di un tono fino al LA diesis. In questo modo avevamo a disposizione un sistema completamente diverso di costruire i riff. Con un’accordatura di questo tipo sei costretto a mettere le dita in un modo differente da quello standard ma al contempo ti si aprono nuove possibilità creative e il suono ne guadagna in modo netto. Credo che dal vivo la differenza sia molto nitida, ma all’atto pratico non ci vuole molto a passare da un set up all’altro. E’ stata una scelta che non ha comportato grossi problemi, ripeto, s’è trattato di un passaggio semplice, ma che ci ha dato molto in termini di riff e che oggi amo veramente utilizzare.”
Parlare di suoni e di riff dobbiamo giocoforza atterrare sul nuovo disco. Fin dal primo ascolto appare chiaro che c’è stato uno spostamento del mood generale verso uno stile più dark e profondo.
“Il modo con cui vorrei descrivere il disco… o meglio quella sorta di vibrazione che mi trasmette è riassunta dal termine malinconico. C’è sicuramente un componente dark, ma non in modo univoco. Non va tutto in quella direzione. C’è un alone cupo che ammanta il lavoro, ma come nella vita, non può essere tutto così oscuro. La negatività è quello che ci aiuta ad apprezzare in momenti buoni e felici. Definirlo quindi malinconico mi sembra più appropriato perché riassume un sentimento umano.”
Un sentimento che è mutevole. Appare chiaro dalla sequenza dei brani che dall’inizio più violento ed in linea con la tradizione della band (‘In Plain View’ e la veloce ’Everything’s Gone’) si arriva ad un brano di passaggio come ‘Paralyzed’ che introduce il trittico prettamente dark composto da ’Through Oblivion’, ‘With Eyes Wide Open’ (più energica ma con passaggi di pura decadenza) e la title track ‘Siren Charms’. Un vero e proprio percorso di ascolto.
“Ecco un punto importante. Un po’ come quando metti insieme una set list per un concerto live, ci deve essere una dinamica ed una logica. Anche sul disco noi poniamo la massima attenzione alla sequenza dei brani. Noi cerchiamo proprio di suggerire un percorso di ascolto. Da questo punto di vista, quello che facciamo con i nostri dischi riflette il nostro gusto personale di ascoltatori. Quando prendo uno dei miei vecchi vinili, non metto su una canzone per ascoltare questo o quel brano, ma metto su tutto il disco, dall’inizio alla fine, per sentirlo nella sua globalità. C’è sempre un motivo per cui c’è un brano all’inizio ed un’altro alla fine… secondo me è così che deve essere fruita la musica. Non quindi come esce da una radio o su iPod con la funzione shuffle attiva, dove le canzoni vengono eseguite in modo casuale e disordinato. C’è un ragionamento dietro ogni cosa e anche noi facciamo le cose seguendo una logica, anche nel decidere la sequenza dei brani. E’ quindi assolutamente corretto notare che su ‘Siren Charms’ c’è un percorso di questo genere.”
E poi si arriva a ‘The World Explodes’, una brano che se non rappresenta una svolta poco ci manca.
“E’ un brano che ha sorpreso moltissimo anche me. O meglio mi ha stupito molto la sua resa finale. Nell’immagine che mi ero fatto del brano si trattava di un diretto in piena faccia, una di quelle canzoni fatte per scatenare il pubblico dal vivo con una progressione dinamica fino all’apertura del ritornello che avrebbe dovuto essere una sorta di apoteosi. Non mi ero mai immaginato di inserire una voce femminile. L’idea del female vocals non è mia, credo sia di Anders o di Daniel (Anders Friden e Daniel Svensson, rispettivamente cantante e batterista degli In Flames, n.d.A.), ma non mia. Ad ogni modo, quando l’ho sentita per la prima volta sono rimasto a bocca aperta. E’ la cosa più cool che abbia mai sentito. La tensione che si crea fra la violenza e la cattiveria del cantato di Friden e la serenità e la purezza del ritornello è fantastica. E’ qualcosa di epico e al contempo di cinematografico. E’ un brano in grado di creare immagini nella mente di chi ascolta. La voce di Emilia (è un soprano con un talento incredibile) riesce anche se presente solo in un brano e solo nel ritornello a rappresentare l’intero disco. Lei è la Sirena, anche se la canzone non è la title track dell’album, e lo caratterizza in modo unico. Alla fine questo brano è totalmente diverso da quello che era all’inizio con le sole parti vocali di Anders (che strillava – ride-). E’ stata un’esperienza incredibile anche per me.” Sotto la voce di Emilia, ci sono delle voci maschili a dare un tocco ancora più dark all’insieme. “La cosa divertente è che si tratta di una canzone d’amore (ride). Il testo non è spiccatamente dark, anche se ha una bivalenza che consente questo tipo di chiave interpretativa. Questo è il bello delle parole. Le puoi scrivere in un certo modo, ma poi hanno sfumature diverse fino ad assumere significati completamente differenti da quelli originali. Quindi è vero è un brano con un’anima oscura, ma rimane una canzone d’amore. E’ fantastico rimanere stupiti da una canzone. Ti fa sentire vivo e all’erta. Stiamo anche pensando di avere Emilia dal vivo per almeno qualche concerto per poter eseguire il brano e vedere la reazione del pubblico. Tutto il disco è pensato per poter essere eseguito in concerto, compresa ‘The World Explodes’. Per noi rimane un aspetto fondamentale. L’idea dietro ogni canzone di ogni disco è quella di suonarla su un palco e renderla possibilmente anche migliore che in studio.”
Quello che comunque appare impressionante sono i suoni di questo album. Fin dai primi secondi di ascolto si nota l’equilibrio e la potenza sonora di questo album. Non ci si stancherebbe mai di alzare il volume fino a rimanerne completamente storditi. Björn spiega: “Abbiamo lavorato con lo stesso ragazzo che aveva curato i suoi di ‘A Sense of Purpose’ e ‘Sounds Of A Playground Fading’: Roberto Laghi. Ha registrato tutto lui e ha un orecchio incredibile. Ha un metodo di lavoro molto meticoloso, non lascia nulla al caso e cura tutto nei minimi dettagli. Ci mette un po’, ma siamo certi che alla fine ottiene sempre il prodotto migliore possibile. Alle volte il lavoro in studio può essere veramente noioso, ripeti sempre le stesse cose, ascolti un singolo colpo di batteria un milione di volte… ma a lui piace, si diverte. Ormai ci conosciamo a vicenda molto bene: noi il suo metodo di lavoro e lui le nostre aspettative e desideri. E’ un connubio ottimale. Il disco è stato registrato agli Hansa Studios di Berlino. Lì c’era anche questo ragazzo svedese che si chiama Michael Hilbert al missaggio. Anche se ha un suo passato agli esordi nel punk, si occupa prevalentemente di pop (Hilbert è diventato famoso nel mondo per il lavoro fatto con i Roxette, ma ha lavorato anche con Avril Lavigne ed altri artisti pop di fama mondiale, N.d.A.), e noi non siamo affatto un gruppo pop. Devo dire che ero preoccupato. Ma anche lui ha un orecchio fantastico e ci siamo resi conto che non è importante su cosa lavori di solito se hai un orecchio dotato. Ha preso tutto quello che avevamo registrato è gli ha dato i giusti spazi e riesci a sentire veramente tutto. Qualsiasi strumento o partitura. C’è tutto. E’ quasi un approccio alla produzione da musica rock, che non è il massimo da dirsi quando si parla di un disco metal, eppure funziona in modo eccezionale. Non ti perdi una nota di basso, qualsiasi sfumatura della voce di Anders è restituita alla perfezione. Non importa che ascolti il disco piano o a volume molto alto. Suona sempre alla grande e non si perde nulla… ed è un ottimo segno.” E infatti suona meglio di qualunque altro disco si sia ascoltato di recente… “E’ probabilmente il nostro disco che suona meglio in assoluto. Abbiamo fatto parecchi dischi con Fredrik “Fredman” Nordström. E’ un produttore incredibile. Ha fatto ‘Slaughter of the Soul’ degli At The Gates, i primi dischi degli Hammerfall (senza contare Dark Dranquillity, Soilwork, Opeth, The Haunted, tanto per citare i più noti, N.d.A.), tutti dischi che suonano alla grande e che hanno un suono tipicamente metal. E’ anche vero che è un produttore che ha un suo sound. I dischi che ha fatto con noi erano fantastici nel momento in cui sono usciti, per le canzoni che avevamo allora (Nordström è il produttore di quasi tutti gli album degli In Flames fino a Clayman compreso, N.d.A.) ma quando siamo arrivati a ‘Reroute to Remains’ sentivamo di aver bisogno di qualcosa di diverso e abbiamo scelto Daniel Bergstrand, che aveva già lavorato con noi soprattutto sulle parti vocali. Daniel ha prodotto due dischi per noi (‘Reroute to Remain’ e ‘Soundtrack to Your Escape’ nel 2002 e nel 2004, N.d.A.) ma non era la stessa cosa. I dischi suonavano bene, ma gli mancava quel tocco hi-fi che avevano i dischi prodotti da Fredman. Quando per questo disco siamo arrivati da Michael gli abbiamo chiesto che l’album suonasse maestoso, imponente… non pulito in senso letterale, ma volevamo si sentisse tutto. Quando Michael è tornato con i mix dei primi pezzi, siamo rimasti folgorati. Era veramente impressionante. La prima sensazione che ricordo è quella di una grandissima felicità. Da lì in poi è stata solo una questione di tempo. Non mi ricordo esattamente se ci sono volute una o due settimane per mixare il tutto. E lo ha fatto completamente da solo, senza nessuna nostro interferenza.”
‘Siren Charms’ è un disco poliedrico che spesso lascia spiazziati, con cambi continui e repentini. Il marchio di fabbrica della band di certo si sente, ma anche le sorprese non mancano. Sembra un disco meno immediato del precedente ‘Sounds Of A Playground Fading’ che era per certi versi più diretto e di chiara lettura.
“Trovo intrigante che un disco possa stupire o che non sia veramente immediato. E’ un modo per catturare l’attenzione dell’ascoltatore. Se avessimo suonato quello che abbiamo fatto in passato, quello che le persone o anche noi stessi ci aspettiamo e sappiamo di saper fare non sarebbe stato stimolante allo stesso modo. Non abbiamo paura di quello che può pensare chi ci ascolta. Uno dei nostri punti di forza da sempre è stato di decidere quello che volevamo fare. La gente può anche lamentarsi di quello che produciamo e ha tutto il diritto di farlo. Lo stesso vale per le case discografiche e per gli addetti ai lavori. Se quello che facciamo non piacesse a nessuno non andremmo in tour e non andassimo in tour faremmo qualcos’altro. Nessuno venisse ai nostri concerti vorrebbe dire che tornerei a fare l’elettricista, o qualcos’altro. Non importa. L’ho già fatto quando ero giovane e ho amato ogni secondo di quel lavoro e lo rifarei volentieri. Noi facciamo quello che sentiamo e vogliamo fare, non abbiamo nessun timore del giudizio degli altri.”
Primo disco su una major come la Sony.
“La ragione per cui non è mai successo prima… non è che non ci fosse interesse da parte delle major. Noi abbiamo la nostra integrità e incidere per una major, da quello che ho sentito da colleghi e amici, sembrava sempre che si dovesse pagare pegno, quasi le major comunque pretendessero una parte della tua anima. Il loro primo interesse è vendere dischi e noi ci siamo sempre sentiti ostili nei confronti di questo mondo. Abbiamo sempre pensato che se avessimo firmato per una major forse ci avrebbero forzati o cambiati in qualche cosa. Quando eravamo già impegnati nelle registrazioni del disco ed eravamo senza contratto (abbiamo cominciato a comporre e registrare infischiandocene del fatto che fossimo senza con contratto, ci siamo detti facciamo il disco e se qualcuno sarà interessato lo commercializzerà) è arrivato questo ragazzo della Sony qui in Svezia. E’ venuto lui in studio da noi. Credo ci stesse inseguendo da qualcosa come quattro dischi. Ci ha veramente pregato di fare qualcosa insieme a noi. Siamo sempre stati restii a lavorare con le major. Ne avevamo paura, ma ci ha tranquillizzato molto. Ci ha assicurato che non avrebbero interferito nel nostro lavoro, anche se non hanno granché di metal nel loro catalogo avrebbero accettato qualunque cosa avessimo prodotto. Così ci siamo decisi. Sono persone in gamba, lavorano per una ‘macchina’ enorme e ci siamo detti perché non provarci almeno una volta nella vita. Se funziona sarà eccezionale, altrimenti nessun problema. Nella nostra carriera abbiamo lavorato con etichette di ogni dimensione, dagli esordi su Wrong Again alla Nuclear Blast e alla Century Media fino all’approdo su una major e abbiamo avuto sempre dei benefici. Magari questa volta riusciranno anche a far arrivare il disco in mercati per noi nuovi. ‘Sound Of A Playground Fading’ non ebbe alcuna distribuzione in Australia, che è incredibile a dirsi. La Sony ha uffici anche in Australia, quindi potrebbero quanto meno presentarlo, poi se alla gente non piacerà pazienza, ma questo è un discorso diverso, ma almeno sarà disponibile.”
Gli In Flames rimangono una band prettamente europea ma negli anni ha potuto saggiare le audience di quasi tutti i paesi del mondo. Dal palco notate delle differenze dal passato?
“Penso che se mi avessero chiesto dieci anni fa le differenze fra il pubblico delle varie nazioni, sarei stato in grado di delineare con esattezza le caratteristiche di ciascun tipo di audience. Avrei potuto descrivere quello che facevano di diverso in America o in Giappone, la passione dell’Europa mediterranea (fantastica!!! Non c’è niente di paragonabile altrove). Oggi le cose sono cambiate parecchio. Probabilmente è una questione generazionale. Il fatto che oggi ci sia una così vasta diffusione di internet e di YouTube con tutto questo materiale disponibile, la gente ha visto come ci si comporta ai concerti metal e il mondo è diventato molto più uniforme. Ovviamente rimangono delle differenza da nazione a nazione, ma non come era in passato. Anche l’età secondo me gioca una parte importante. Ci sono persone che oggi vengono ai nostri concerti e che quando abbiamo cominciato non erano nemmeno nati. Abbiamo fan che hanno 15 o 16 anni e che non hanno potuto vivere i nostri esordi. Poi c’è un fattore culturale, nei paesi in cui c’è un grosso seguito del calcio (Italia, Germania, Sud America), sembra che le persone siano più abituate a stare in grosse audience e sanno come ritagliarsi uno spazio ai concerti per essere protagonisti.”
La scena svedese… Gothenburg… c’era una scena svedese ben precisa, o ce la siamo immaginata noi scribacchini?
“Essere parte di qualcosa è spesso vissuto in modo inconsapevole. E’ difficile vedere quello che accade quando sei nel mezzo. Non riesci ad estraniarti e a vederlo in modo distaccato. E’ come essere in una bolla da cui non puoi uscire. Prendiamo ‘The Jester Race’. E’ uno di quei dischi che vengono sempre citati come esempio della scena denominata Gothenburg Sound, eppure quando l’abbiamo registrato non ci pensavamo proprio. Siamo andati nello stesso studio che usavano Dark Tranquillity, At The Gates e Arch Enemy in quegli stessi anni. Siamo andati lì perché volevamo un certo suono e sapevamo che Fredman ce lo avrebbe dato. Lui era un grande produttore e volevamo lavorare con lui. Noi eravamo ragazzini. Il ricordo che ho di quegli anni è di un gruppo di ragazzi che voleva divertirsi, che s’è scolato una marea di birre (noi come le altre band citate prima). Quando la gente ha cominciato a parlare di Gothenburg Sound, di Swedish Death Metal Scene a me sono tornate in mente le bevute e quei ragazzini. Penso che sia qualcosa che è stato utile, soprattutto ai giornalisti che hanno sempre bisogno di etichette e definizioni per raccapezzarsi. Per come la vedo io già allora eravamo tutte band molto diverse fra noi e oggi lo siamo ancora di più. Certo, soprattutto il fatto che con i Dark Tranquillity all’inizio ci sia stato uno scambio di membri, ha reso più semplice accomunare le band. Gli At The Gates per esempio hanno sempre avuto un loro percorso, senza contatti con noi o altri. Io credo che quel sound non fosse proprio delle band, ma essenzialmente di Fredrik ‘Fredman’ Nordström. Era lui in studio che, lavorando con il suo stile, ha contribuito ad avvicinare le band e i loro album. Secondo me la cosa più corretta da dire è che non è mai esistito un Gothenburg Sound, ma un Fredman Sound.” Quindi una sorta di regista dietro le quinte… “Esattamente. Ma non penso che nemmeno lui ci abbia mai pensato. Era molto giovane anche Fredrik (è nato nel 1967, nel 1994 aveva appena 27 anni quando si occupò del missaggio dei primi lavori degli In Flames e meno di trenta quando registrò ‘Whoracle’, N.d.A.) e penso onestamente che stesse solo facendo il suo lavoro. Aveva clienti di cui si occupava. Solo che lo faceva a modo suo, con il suo talento e la sua sensibilità e questo a reso quei lavori identificabili. Ma la realtà è che non esisteva una scena. C’erano un paio di locali dove era possibile suonare, oggi ce ne sono decisamente di più. Penso che alla fine ci fosse solo una sana competizione fra band nell’emergere, non c’era invidia, ci si guardava gli uni con gli altri e non ci si denigrava, anzi si prendeva spunto nel tentativo di migliorarsi. Abbiamo imparato molto reciprocamente. Era diverso da oggi. Forse più naïf, ma non c’era nessun movimento coeso. Tutto ruotava attorno allo studio di Fredman e basta. Per noi era solo un divertimento, lo è ancora, ma in modo diverso. Suonare è una benedizione è quello che rende la mia vita completa. Certo ho una famiglia meravigliosa, ma senza la musica sarebbe stato qualcosa di totalmente differente. E’ qualcosa di cui sarà grato per sempre. Anche allora ero così felice di suonare. Solo l’idea di ascoltare un disco in cui avevo suonato… ricordo ancora quando ho sentito i rough mix di ‘Graveland’ da ‘The Jester Race’ sullo stereo della macchina di Glenn (Glenn Ljungström era il chitarrista originale degli In Flames, dopo Whoracle il suo posto alla chitarra fu preso proprio da Gelotte che prima suonava la batteria, N.d.A.), una sensazione incredibile. Mi sembrava la cosa più bella del mondo. Le etichette non rappresentano questi stati d’animo, ma poi le usiamo tutti. Lo facevo anche io. Mi ricordo di un periodo in cui avrei comprato qualunque cosa prodotta da Scott Burn (produttore di Death, Cannibal Corpse, Sepultura, Obituary, Atheist, Malevolent Creation, Cynic… ecc, N.d.A.) o che usciva dai Morrisound Studios di Tampa in Florida. Qualunque cosa venisse fuori di lì era ottima. Lo stesso è successo qui a Gothenburg con Fredman.”
E oggi come butta in Svezia?
“E’ molto diverso. C’è un sacco di talento in giro in Svezia. Se penso alle band locali che aprono per noi sono stupito. Sono tutti ottimi musicisti, hanno una buona comprensione delle regole del songwriting, soprattutto hanno un approccio fresco a certi aspetti del fare il musicista. Penso che Internet sia un grosso motore per travasare il talento, per raggiungere le persone e condividere conoscenza ma al contempo può anche soffocare, essere brutale e diretto. Credo sia importante conoscere bene internet e come usarlo. Anche noi, per esempio, quando abbiamo dovuto aggiornare il sito della band ci siamo scontrati con qualcosa che non ci aspettavamo nemmeno. Dall’idea di struttura di pagina in poi… all’inizio avevamo delle pagine chilometriche. Oppure, se penso a quando di colpo ci siamo ritrovati un milione e duecentomila fan sulla pagina Facebook… non ci avevamo nemmeno pensato. L’idea di condividere materiale (di qualunque genere) è qualcosa che solo pochi anni fa non si poteva nemmeno immaginare. Quando abbiamo cominciato noi nel ’95-’96 il mondo era totalmente diverso. Penso che oggi le band abbiano un’alleato potente e sono molto brave ad utilizzare questo strumento. Il problema nasce probabilmente dall’affollamento: è difficile farsi notare.”
L’uomo Björn Gelotte…
“Sono un uomo comune, veramente. Un football lover, beer drinking e barbecue maniac!!! Sono una persona molto socievole cui piace stare con gli amici. Amo stare con la gente… organizzo spesso dei barbecue e mi piace avere gente attorno. E’ una cosa positiva ma che ha anche risvolti negativi. Alla fine non sei mai solo… nel bene o nel male. Mi piace andare in giro con gli amici e soprattutto adoro vedere la gente ridere, mi piace vedere che hanno passioni e stimoli. Sono veramente una persona normale. Sia dentro che fuori dal music business. Sono molto appassionato di quello che faccio e sono molto serio al riguardo. Ma mi voglio anche divertire. Come chiunque altro. Ho una band eccezionale e degli amici straordinari con cui passo la vita in tour. Ho la fortuna che la gente è interessata non solo a quello che faccio, ma anche a quello che dico. Ho una vita eccezionale.”

L’ACCORDATURA DELLE CHITARRE DEGLI IN FLAMES

Come citato da Björn nell’intervista gli In Flames hanno cambiato accordatura due volte nella loro carriera.
Agli esordi la band suonava con un’accordatura Mi standard: Mi-La-Re-Sol-Si-Mi (E-A-D-G-B-E) o probabilmente un semitono più basso in Re# (Re# Sol# Do# Fa# la# Re# – D# G# C# F# A# D#).
Più tardi la band è passata ad accordarsi in Do, ovvero Do-Fa-La♯-Re♯-Sol-Do (C-F-A♯-D♯-G-C) o come spesso viene codificata Do-Fa-Si♭-Mi♭-Sol-Do (C-F-B♭-E♭-G-C). Questo tipo di accordatura è riconoscibile dei primi full leght album della band almeno fino alla vigilia di Clayman.
La band ha poi modificato questa impostazione adottando il drop La# (Drop A#). Si tratta di un’accordatura in Do in cui la sesta corda viene ulteriormente abbassata (drogata) di un tono: la#-Fa-La♯-Re♯-Sol-Do (A#-F-A♯-D♯-G-C). Questo genere di accordatura consente di eseguire dei powerchord tra la 5° e 6° corda anche a corda vuota (o con un barrè su entrambe le corde man mano che si sale lungo il manico della chitarra). Essendo la 6° e la 4° accordate sulla stessa nota con un’ottava di differenza, un barré sulle prime 3 corde consente power chords molto profondi e potenti facilmente inseribili in riff molto veloci.
Per poter accordare la chitarra in questo modo è necessario adottare un set di corde molto più spesse del normale (ne esistono diversi in commercio delle varie marche) con una scalatura 13-60 o acquistare un set per una chitarra sette corde montando solo le 6 più spesse.
Un altro accorgimento è che un accordatura in drop dà problemi con i ponti mobili delle leve vibrato (tipo Floyd Rose) in quanto la tensione delle corde non è uniforme. Si tratta quindi di un’accordatura che non richiede accorgimenti su chitarre a ponte fisso, mentre per su sistemi come il Floyd Rose sono necessari pezzi speciali appositi per il drop tuning.

IN FLAMES WE TRUST… SINCE 1994
Dieci album prima… vent’anni di storia alla lente di ingrandimento.

‘Lunar Strain’ (1994)
E’ il debutto della band ed anche l’unico disco con Mikael Stanne alla voce poi entrato nei Dark Tranquillity. Del suono caratteristico della band ci sono già le prime tracce. Il disco non pecca di grande originalità ma colpisce per un songwriting tutt’altro che banale. La matrice è death scandinavo puro (matrice heavy classico con un growl esasperato costante). E’ un disco che riporta indietro nel tempo. Chi ha vissuto quegli anni dovrebbe riascoltarlo almeno una volta al mese, il death naïf degli In Flames ha un sapore che oggi manca in tanti dischi di esordio.
VOTO 75

‘The Jester Race’ (1996)
Arriva Friden alla voce e Gelotte alla batteria. La musica della band si fa decisamente più matura rispetto al precedente. La matrice diventa veramente riconoscibile. Il cantato è meno piatto di quello del disco di esordio anche se la matrice death è comunque dominante. Il disco colpisce il mercato con una certa veemenza. L’attenzione per la scena svedese è molto alta e il disco riesce subito ad emergere: il gusto per l’heavy classico trasporto in chiave heavy degli In Flames non ha quasi eguali. Non sono ancora pienamente consapevoli della loro forza, ma ‘The Jester Race’ li mette in grande evidenza. Tutti li aspettano al varco adesso.
VOTO 83

‘Whoracle’ (1997)
Passa appena un anno da ‘The Jester Race’ e la band pubblica un nuovo album (un cocept esattamente, ma noi odiamo i concept album). E che disco! ‘Whoracle’ è l’apoteosi della prima fase di carriera della band. Il Death Melodico degli In Flames non può più essere accostato ad altri per paragoni che sarebbero impietosi. La band ha una marcia decisamente superiore rispetto ai concorrenti. Musicalmente è il disco che sancisce la regia musicale del duo Gelotte/Strömblad. Il disco non ha praticamente punti deboli (se non alcune ripetizioni, a riprova di un songwriting maturo, ma ancora in crescita). Anche il suono è decisamente migliore delle prove precedenti. Seppur prodotto da Fredman, il disco suona più potente ed epico. Tutto di questo disco dovrebbe essere considerato un classico (compresa la cover di Andreas Marshall). La cover di ‘Everything Counts’ dei Depeche Mode fece dire a Luca Signorelli lontano da orecchie indiscrete: “I Depeche Mode sono il più grande gruppo metal che non abbia mai suonato metal in vita sua”. Dimostrando con lungimiranza come le cover metal dei DM funzionano sempre alla grande, le costruzioni armoniche di Gore sono le stesse che si usano anche nel metal, solo che si basano sui synth. La title track di chiusura è un episodio unico di furia acustica e frenesia tribale. Nulla del genere viene ripetuto in seguito.
VOTO 93

‘Colony’ (1999)
Passano due anni e la band torna alla carica con un disco che a posteriori possiamo considerare di transizione fra i primi tre dischi e il resto della loro carriera. Ai tempi della pubblicazione è sicuramente un disco straordinario per due motivi. Il primo è la maturità compositiva che la band sfodera. Sotto appaiono le prime tastiere a testimonianza che certe soluzioni ortodosse cominciano a stare strette al gruppo. La seconda è la dinamica dei brani. Dall’opener ‘Embody the Invisible’ a ‘Ordinary Story’ a ’Scorn’ alla title track (una delle canzoni che ha la miglior dinamica di sempre nella discografia della band) appare chiaro che la band ha costruito un disco per creare la massima devastazione live. Andate su YouTube a cercare live d’epoca la band ha una carica live devastante e ‘Colony’ è la chiave di questa esplosione. Chi scrive li vide al Wacken del 2001: annichilirono i presenti (band comprese). Su questo disco Gelotte passa alla chitarra. Il voto di questo disco paga lo scotto di essere rilasciato oggi che sappiamo che l’anno dopo uscì ‘Clayman’ un disco che da sempre credo sia stato annunciato dalla band nel brano ‘Insipid 2000’ che condensava nelle sue scelte sonore e nelle diverse sequenze in cui è diviso molte delle sonorità del disco successivo.
VOTO 91

‘Clayman’ (2000)
A solo un anno di distanza da ‘Colony’ esce ‘Clayman’. E’ il disco che pone gli In Flames come vertice assoluto della scena scandinava. Non solo nel death sia chiaro. Gli In Flames nel passaggio di millennio sono la band più hot del vecchio continente in assoluto. ‘Clayman’ per certi versi riprende il songwriting di ‘Colony’ ma gli dà una nuova potenza espressiva. Ci sono due pietre miliari come ‘Pinball Map’ e ‘Only For The Weak’ ma sono le sterzate soprattutto nel cantato di ‘Bullet Ride’, ‘Square Nothing’ e ‘Satellites And Astronauts’ che preconfigurano il futuro della band con Friden che abbandona spesso e volentieri gli eccessi death per usare una voce pulita . Il disco non ha formalmente punti deboli. Il songwriting è vario, strutturato, mai banale e il disco è da conservare negli annali. Stiamo scrivendo a 14 anni allora e oggi possiamo dire che ‘Colony’ e ‘Clayman costituiscono un duo inscindibile nella storia della band. Sono i dischi della piena maturazione, la band è cresciuta da poter spaziare a 360° in tutte le direzioni e fare quello che vuole. Veloce, lento, dark, epico… hanno tutto, sono tutto. Un pezzo come ’Swim’ il 99% delle band se lo può solo immaginare (ed è uno di quei brani che non ricorda mai nessuno, pensatevi gli altri). Tra l’altro la band dimostra di riuscire a comporre in maniera sintetica ed efficace senza mai sforare i 5 minuti di lunghezza. La chicca del disco? All’inizio dell’album è stata inserita la registrazione della classica puntina che si appoggia sul vinile (con corrispondente fine disco al fondo di ‘Another Day in Quicksand’). Geniale.
VOTO 96

‘Reroute To Remain’ (2002)
Questo è il disco che complica la vita degli In Flames. In effetti con questo album la band cambia rotta. I pezzi perdono la carica anfetamina che ancora in ‘Clayman’ aveva fatto la fortuna del gruppo. Gli In Flames rallentano (almeno in parte, perché poi ci sono momenti di attacco furioso come su ‘Drifter’). Per la prima volta nell’opener che è anche la title track si piegano alla legge del ritornello arioso e la fanbase rimane spiazzata. ‘Reroute To Remain’ è un disco di passaggio da tutti i punti di vista. Il songwriting è a tratti confuso. Qualcosa di nuovo sta prendendo forma, ma non è una trasformazione ancora compiuta. Cosa ricordare? Non possiamo di certo dire che sia un disco mediocre anzi, gli spunti sono talmente tanti. Ma complice anche una produzione poco illuminata e caotica il disco sembra mancare dei punti di evidenza più importanti. Il brano migliore e che ancora oggi la band esegue live è ‘Cloud Connected’ (meglio live che in studio). Il resto fatica a rimanere nella memoria: troppo fracasso. E’ il disco che comunque ha il merito di aprire il mercato americano alla band (complice anche la partecipazione all’OzzFest). Esistono estimatori di questo lavoro che gli tributano più meriti di quelli che effettivamente ha.
VOTO 70

‘Soundtrack To Your Escape’ (2004)
Altro disco di passaggio poco brillante è ‘Soundtrack To Your Escape’. Anche qui la produzione di Daniel Bergstrand non premia gli sforzi della band con un sound al di sotto delle aspettative. Qui i brani sono indubbiamente di qualità superiore e decisamente orientati al mercato americano (alzi la mano chi ascoltando ‘The Quiet Place’ non ha sentito la fredda ombra di Marylin Manson aleggiare sulla band svedese) anche se non manca una certa ripetitività espressiva. I due dischi prodotti da Bergstrand sono forse i meno significativi della storia della band e hanno il demerito di coprire la fase centrale della carriera del quintetto di Gothenburg. Non è il rallentamento o la prossimità al nu-metal americano che lascia interdetti, quanto piuttosto l’incapacità di Frinden e soci di mantenere fede alle proprie origini quando le radici di metal classico erano tanto palesi e caratterizzanti.
VOTO 75

‘Come Clarity’ (2006)
Pur sulla scia dell’esperienza dei due album precedenti, gli In Flames nel 2006, autoproducono ‘Come Clarity’ e di colpo i tasselli che per due dischi sembravano sparsi a caso e non riuscivano a ricostruire in modo corretto il quadro generale vanno a posto. ‘Come Clarity’ è un disco enorme per intensità, potenza e soprattutto per coerenza. Tutto il lavoro si muove come un monolite omogeneo, pieno di dettagli e particolarità, ma la qualità delle canzoni che è una spanna abbondante sopra i dischi precedenti. I brani sono sparati in una sequela che non conosce soluzione di continuità tenendo l’ascoltatore incatenato dall’inizio alla fine. Anche il cantato femminile che compare su ‘Dead End’ non stona e rende il disco solo più vario e appetitoso. ‘Come Clarity’ è un album diretto, facilmente fruibile ed equilibrato. La stessa title track, una ballad, è funzionale al lavoro nella sua totalità. Il pezzo imperdibile è la title track mancata ‘Crawl Through Knives’. Un disco fondamentale e da avere (magari se trovate la versione che aveva il dvd video con tutto il disco suonato in studio dalla band).
VOTO 92

‘A Sense of Purpose’ (2008)
Il nono album in studio degli In Flames è uno strano caso di discone mancato. Non sappiamo come mai ma il songwriting di Gelotte/Strömblad sembra essere in una strana secca con qualche carenza di idee. Tanto era ricco ‘Come Clarity’ tanto ‘A Sense of Purpose’ lascia interdetti. Le prime due song ‘The Mirror Truth’ e ‘Disconnected’ iniziano con un riff quasi identico, alcune idee sembrano continuare a ripresentarsi qua e là per il disco. ‘Alias’ è il brano più semplice da ascoltare e leggere con un’immediatezza tutta sua. Ai metalhead la canzone che probabilmente piace di più è ‘I’m The Highway’ un brano che sembra riprendere a pieno le radici della band anche se con uno sviluppo molto americano. Inspiegabilmente il solito riff dei primi due pezzi ricompare anche nella più cadenzata ‘Delight And Angers’… non si capisce proprio perché, soprattutto per una band che non è mai stata ripetitiva. Brano di valore è ‘Move Through Me’, di difficile lettura è ‘The Choosen Pessimist’ intimista e malinconico. La chiusura del disco è affidata ad un manipolo di brani molto solidi: ‘Sober And Irrelevant’, ‘Condamned’, Drenched in Fear’ e ‘March On The Shore’, pur non avendo la vena fertile del precedente ‘Come Clarity’ consentono al disco di porsi al di sopra di ‘Reroute…’ e ‘Soundtrack…’. E’ l’ultimo disco di Strömblad con gli In Flames, l’ultima prova di colui che la band l’aveva formata.
VOTO 79

‘Sounds Of A Playground Fading’ (2011)
Passano tre anni segnati inevitabilmente dall’abbandono di Strömblad. I dubbi sono molti, Gelotte prende su di sé tutta la responsabilità di comporre le musiche. Quando il disco esce la sorpresa è enorme. ‘Sounds Of A Playground Fading’ è decisamente uno dei migliori dischi della band. Preceduto dal singolo ‘Deliver Us’ (un brano decisamente commerciale, dobbiamo dirlo) il disco è invece un coacervo di idee e spunti. Fin dalla title track messa in apertura la band regala un metal solido e potente (forse uno dei migliori brani di apertura di un disco da anni e anni). La svolta melodica a tratti è palese, ma la convinzione con cui anche l’ascoltatore più ritroso viene catturato è totale. ‘Sounds…’ prende il percosso intrapreso dopo ‘Clayman’ a compimento lottando testa a testa con ‘Come Clarity’ e spuntandola di un’incollatura per la sua varietà e ricchezza. Non un pezzo di questo album appare debole. La stessa ‘Deliver Us’ appare convincente e concreta, ci sono brani come ‘Fear is The Weakness’ o ‘Ropes’ o ancora ‘A New Dawn’ dove prepotentemente ritornano le radici di metal classico (una volta nei fraseggi intermedi, le altre nelle intro maideniana/british metal), passaggi intimisti come le miniature di ‘The Attic’ e ‘The Jester Door’ con la sua esplosione strumentale, ma anche brani dalla dinamica imponente fatte per scatenare il pubblico come ‘Where The Dead Ship Dwell’ (più orecchiabile) o ‘Darker Times’ (più spigolosa). Da avere.
VOTO 95

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