The Library (4) – La Red Special Di Brian May

Il 02/01/2016, di .

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The Library (4) – La Red Special Di Brian May

copertinaNell’accostare una chitarra al suo proprietario si usa solitamente l’espressione ‘estensione del corpo’. Ci sono però casi diversi, dove l’intimità del rapporto strumento-suonatore oltrepassa tutte le barriere del significato. Dissimili sono le occasioni dove si può riscontrare la veridicità dell’ultima affermazione: talvolta gli strumenti vengono creati su misura dell’artista, in talune circostanze il legame strumento-persona è talmente potente e inscindibile che il primo prende il nome del secondo, ma c’è una situazione ancor più particolare, nella quale è l’uomo a dar vita al proprio congegno d’espressione artistica. Quest’ultima è la combinazione che contraddistingue la relazione fra Brian May e la Red Special. Si sa, dare vita a delle opere d’arte è difficile, estenuante e la maggior parte delle volte è lo straordinario a prender vita autonomamente, arbitrariamente. Ebbene ci sono molteplici variabili che influiscono nella creazione di un qualcosa di memorabile, due di queste sono il genio ed il bisogno. Per quanto riguarda Brian May erano presenti entrambe. Sul genio del chitarrista dei Queen v’è poco da discutere, l’ha dimostrato nel corso della sua carriera e non (laureato con lode in Fisica e dottorato nel 2007 in Astrofisica), più v’è da concentrarsi sul ‘bisogno’. Oltre al non trascurabile costo di una chitarra elettrica negli anni ’60, per May il vero significato di ‘bisogno’ risiedeva nel forgiare qualcosa di proprio, che riflettesse se stesso e lo restituisse al mondo come un catarifrangente del’io uomo e musicista, senza distorcerlo più del necessario. Dal genio e dal ‘bisogno’ nasce dunque la Red Special, lo strumento homemade più popolare nell’ambiente rock.
Grazie al lavoro dell’attenta Tsunami edizioni viene proposto in lingua italiana (traduzione di Raffaella Rolla) il libro, scritto a quattro mani da Brian May e Simon Bradley, ‘La Red Special di Brian May’ (titolo originale ‘Brian May’s Red Special’), nel quale si possono scoprire tutte le fasi del processo che ha portato alla realizzazione della sei corde mayiana ed assaporare alcuni curiosi aneddoti della storia, a tutti gli effetti d’amore, fra il musicista e la sua creatura.
Non volendo rivelare troppi dettagli sulla pubblicazione, nonostante i fans sfegatati dell’artista e dei Queen si saranno già accaparrati sia l’edizione inglese (del 2014) che questa italiana, possiamo senza alcun dubbio dire che questo testo è una vera miniera d’oro non solo per gli appassionati del celeberrimo chitarrista inglese, o del gruppo in cui ha militato, ma per tutti coloro che amano la chitarra e la musica in tutte le loro sfumature. Il percorso in cui May e Bradley ci accompagnano è cronologico, dai primi incontri del futuro fenomeno chitarristico con la musica fino all’indimenticabile esibizione alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi del 2012 sul tetto di Buckingham Palace. Impressionante è la quantità di immagini presenti all’interno del volume, a partire da quelle d’epoca (dove si possono ammirare il giovane Brian e il suo primo strumento), passando per alcuni scatti con i Queen, arrivando a qualche istantanea assieme a Paul Rodgers, Adam Lambert e Kerry Ellis. Ma la vera protagonista, anche della sezione fotografica, è lei, la Red Special. Passo a passo, pezzo per pezzo, con descrizioni che si potrebbero definire positivamente e squisitamente maniacali, si avvicendano fotografie dei progetti originali, del corpo, del colore, del binding, del battipenna, dei pickup, dello switching system, del ponte, dei controlli, del truss rod, del manico, della tastiera, della paletta ed anche del delicato restauro che la Old Lady (altro nome della chitarra) ha dovuto subire nel 1998 a scopo di conservazione. Proprio in quest’occasione si sono potuti ricavare alcuni degli scatti più sorprendenti del libro, ovvero quelli delle radiografie. Delle istantanee ‘rivelatrici’, com’è scritto nel volume, che esibiscono particolari sino a quel momento inediti, come la serie di viti che tengono unite le due metà del corpo in listellare. Alcuni dei procedimenti descritti in ‘La Red Special di Brian May’ sono irresistibilmente affascinanti. Basti nominare il metodo con cui Brian ha ottenuto il caratteristico colore dello strumento: “Ero certo del colore che avremmo scelto. Volevo fosse una specie di mogano che sembrasse naturale – un marrone rossiccio – dove il rosso risultasse un po’ più di una semplice verniciatura a legno nudo”. Altro argomento estremamente intrigante è la creazione dei pickup, condito da descrizioni precise di carattere tecnico: “Pensavo ai pickup e capii che, in qualche modo, la corda di acciaio doveva perturbare il campo magnetico di questi magneti, che erano avvolti da una bobina, in modo da generare una corrente elettrica che variava a man mano che la corda si muoveva e produceva quel segnale specifico -cioè l’informazione che doveva essere amplificata.” Per non parlare dell’uso della moneta dai sei pence al posto del classico plettro (su cui potete trovare un box dedicato all’interno del paragrafo sulla tastiera della chitarra), una delle peculiarità dello stile di Brian May. In calce a questa recensione desidero, in prima persona, parlando a nome mio e non della redazione, dedicare qualche riga alla traduzione. Sono venuto a conoscenza di aspre critiche nei confronti della traduttrice di questo volume e della casa editrice che “viene accusata di aver voluto andare al risparmio, evitando di contattare un professionista” (fra virgolette riporto frammenti da un post ufficiale di Tsunami pubblicato qualche tempo fa su Facebook). Dunque, avendo io stesso consultato l’originale, non trovo che il testo sia “farcito di errori, con troppi concetti snaturati nel significato e termine tecnico” e che la traduzione “sia gravemente deficitaria, probabilmente eseguita in maniera grossolana da una fan con l’ausilio di google translate”. Da traduttore professionista (come Massimo Baroni, revisore dello scritto, il quale difficilmente credo si possa far sfuggire delle oscenità linguistiche) posso senz’altro affermare che il lavoro svolto da Raffaella Rolla sia piacevole alla lettura; magari i detrattori si stanno lamentando della struttura e della forma linguistica che non sono perfettamente coincidenti con la nostra lingua (prima falla che si scorgerebbe nella mente del criticante, dato che non mi risulta che l’inglese appartenga alle lingue romanze e ne abbia le caratteristiche), oppure della mancata alterazione del testo che danza agevolmente e libra leggiadro nelle traduzioni degli scaffali dei supermercati. Un grande traduttore, recentemente scomparso (che i nostri cari denigratori non conosceranno di certo), mi ha insegnato: “Nella traduzione mai cambiare per capriccio”. Questo è bene tenerlo a mente, perché il mestiere del traduttore è sporco, ma qualcuno dovrà pur farlo, ammesso che non impariate tutte le lingue del mondo. Alla prossima!