Metal Cinema (10) – Mandy

Il 19/07/2019, di .

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Metal Cinema (10) – Mandy

Cosa potrebbe venir fuori se l’estro onirico di David Lynch si fondesse con l’estetica putrida di Rob Zombie? E se poi il tutto fosse condito con echi del Robert Rodriguez più scatenato e del Nicolas Winding Refn più delirante?
La risposta è in ogni fotogramma di ‘Mandy’, piccola perla horror del 2018 che, stando alla frenesia entusiastica di buona parte della critica, può già vantare lo status di cult. Presentata in anteprima al Sundance Film Festival e nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, la seconda opera del greco Panos Cosmatos (figlio del grande e compianto George P. Cosmatos) è, e deve essere, considerata innanzitutto come una allucinante – e allucinata – esperienza psichedelica, in grado di avvolgere totalmente lo spettatore anche a rischio di stordirlo, snervarlo o, nel migliore dei casi, conquistarlo.
Gli intenti del cineasta sono ben chiari fin dalla didascalia iniziale (ispirata vagamente dall’ultimo discorso del condannato a morte Douglas Alan Roberts): “When I die/Bury me deep/Lay two speakers at my feet/Wrap some headphones around my head/And rock and roll me when I’m dead”. Tali parole sono altamente profetiche: l’immaginario offerto da Mandy è un perfetto mix di morte e rock ‘n’ roll, dicotomia in grado di esaltare oltremodo gli amanti di tutte le sottoculture artistiche più estreme (dal black-metal ai fumettacci), ma che potrebbe risultare indigesta a chi non è cresciuto – tra i Settanta e gli Ottanta – a pane, fuoco, sangue e “metallo pesante”.

L’immaginario offerto da Mandy è un perfetto mix di morte e rock ‘n’ roll, dicotomia in grado di esaltare oltremodo gli amanti di tutte le sottoculture artistiche più estreme ma che potrebbe risultare indigesta a chi non è cresciuto – tra i Settanta e gli Ottanta – a pane, fuoco, sangue e “metallo pesante”.

Ambientato nel 1983, il film è suddiviso in due parti ben distinte tra loro per stile e ritmo; nella prima, visivamente e concettualmente più accattivante, ci viene presentata la “lisergica” intimità di Red Miller e Mandy Bloom. I due si amano follemente e vivono isolati in un bosco, in totale simbiosi con la natura circostante (assai suggestiva è la trovata della camera da letto con pareti e soffitto vetrati). Lui è un taglialegna, lei una pittrice. In questo primo atto, dalle atmosfere estremamente rarefatte, l’attenzione del regista si concentra soprattutto sul personaggio di Mandy che, affascinata da letture esoteriche e dalla cultura dark, trasmette un enigmatico magnetismo dai connotati quasi sovrannaturali e “stregoneschi”. È proprio questo aspetto ad attirare il malsano interesse di Jeremiah Sand, leader di un gruppo di hippie fanatici di Gesù e dell’LSD. L’uomo, coadiuvato dalla sua banda di pazzi, interrompe bruscamente e sadicamente la tranquilla vita della coppia, scatenando così la successiva vendetta di Red, il quale diventa l’esagitato e “fiammeggiante” protagonista di una seconda parte forse sì meno incisiva, ma assai liberatoria.
Punto di forza assoluto dell’opera è sicuramente l’improvviso cambio di registro: da un incedere catatonico e sognante si passa alla deflagrazione di un’epica grottesca e ultraviolenta. Unico collante tra i due segmenti è la visionarietà irriverente di Cosmatos che, aiutato oltremodo dalla straordinaria fotografia di Benjamin Loeb, riesce a mantenere il giusto equilibrio tra gli ispirati vezzi autoriali e l’amore profondo per un sincero cinemaccio di genere. Alcune sequenze più deboli – la resa dei conti con i motociclisti “demoni” – si alternano ad altre davvero brillanti: l’esoterico faccia a faccia tra Mandy e Jeremiah – enfatizzato da un montaggio subliminale al servizio di un torbido meccanismo di rovesciamento tra angelico e demoniaco – o la tragicomica e delirante ira di Red che, seduto sul gabinetto, urla, beve e si versa l’alcool sulle ferite.
Ottimo il variegato cast, ma ad emergere più di tutti è uno spumeggiante Nicolas Cage, il quale azzecca uno dei migliori ruoli della sua carriera: misurato ed essenziale nella prima parte, invasato e fisicamente contagioso nella seconda. Un plauso va alla magnifica colonna sonora del compianto Jóhann Jóhannsson, che fonde sapientemente psichedelia ambient e violenza heavy metal. Particolarmente suggestivi sono, infine, i titoli di testa, che scorrono sulle note della celebre Starless dei King Crimson.

Punto di forza assoluto dell’opera è sicuramente l’improvviso cambio di registro: da un incedere catatonico e sognante si passa alla deflagrazione di un’epica grottesca e ultraviolenta.

Mandy è in definitiva un’opera coraggiosa e sincera, la cui originalità risiede anche e soprattutto nell’attraente, e talvolta stridente, contrasto tra le venature oniriche e quelle pulp. Non ci sono vie di mezzo: o lo si ama o lo si odia, come tutti i film destinati a dividere il pubblico e a far parlare a lungo di sé. In ogni caso Cosmatos ha dimostrato di essere un autore degno del suo nome, e pertanto non ci resta che attendere, con la consueta dedizione cinefila, la sua prossima mossa.

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