Ascolta il corvo: 45 secondi di rumore che diventano arte
Il 09/06/2025, di Fabio Magliano.
In: Arte, Vision Of Madness.

Certe cose non si progettano. Accadono. Come quando in una mattina qualsiasi, il tempo rallenta e i rumori di casa – una voce che grida, il rintocco di una pentola, un cane che abbaia lontano – si trasformano in qualcos’altro. Un suono strano, familiare e alieno insieme. Qualcosa che somiglia a una voce, ma non è una voce. Qualcosa che somiglia a un presagio. Così nasce ‘Syncretic Synthetic Raven’, un progetto che è prima di tutto un gesto. O forse un rito. Un atto artistico che unisce musica, visione, materia e simbolo. E al centro, lui: il corvo. Animale totemico, messaggero tra i mondi, spirito intelligente e oscuro che da secoli popola miti, racconti, superstizioni. Il corvo osserva, ricorda, parla. E nel progetto di Luca Giordana diventa guida, chiave e soglia. Tutto comincia da una traccia audio di 45 secondi. Ma quello che accade dopo è pura magia collettiva. Un invito lanciato ad amici, musicisti, creatori: “Fate quello che volete con questo suono”. E in risposta, un’ondata di idee. Più di trenta artisti hanno contribuito con brani, campionamenti, visioni. Alcuni nomi noti, altri nascosti nel sottobosco della musica sperimentale, tutti mossi dallo stesso impulso: trasformare un frammento in un’opera, un rumore in racconto. Ne è nato un doppio album, che è un viaggio frammentato e coerente, libero e rituale, rumoroso e silenzioso. Una creatura ibrida, piena di ali e artigli, dove elettronica, folk, rock, teatro e paesaggio sonoro si intrecciano come i rami secchi di un albero invernale. E in ogni traccia, in filigrana, ritorna la voce del corvo. A volte visibile, a volte nascosta. Ma sempre lì. Durante tutto il 2025, ‘Syncretic Synthetic Raven’ continuerà a trasformarsi: sarà anche mostra, installazione, performance, presenza. Non un progetto da chiudere, ma un seme da far fiorire. Perché il corvo, si sa, ritorna sempre. Incontriamo Luca Giordana in un rustico in Alta Langa, davanti a un bicchiere di vino rosso e a un paesaggio che sembra fermo nel tempo. Le parole sono nate così, tra il calore del legno, il silenzio delle colline e il battito d’ali che, anche se non si vedeva, sembrava attraversare l’aria.
Luca, il tuo viaggio è iniziato con i ragni… ora siamo arrivati ai corvi. Cosa ti ha spinto a cambiare animale, o meglio: a lasciare che il bestiario si evolvesse così?
“Avevo iniziato questo bestiario occupandomi dei ragni, poi il progetto si è allargato: sono arrivati i gipeti, i rinoceronti, e adesso i corvi. Il progetto iniziale si chiamava “Ti fracasso le ossa”, un titolo provocatorio che prendeva spunto da un comportamento particolare dei gipeti. Sono spesso considerati predatori, ma in realtà non lo sono: non uccidono, piuttosto raccolgono ossa di animali già morti, le portano in volo e le lasciano cadere da grandi altezze per frantumarle e nutrirsene. Questa dinamica mi ha colpito, perché è legata alla simbologia della morte e della trasformazione.
I corvi, in un certo senso, hanno un’intelligenza simile. Li si è osservati prendere le ghiande, portarle sulle strade e aspettare che passino le auto per schiacciarle: solo dopo tornano a mangiarle. È un animale capace di ragionamento, che mi affascina. In fondo, il centro del mio interesse è proprio questo: la simbologia legata agli animali”.
In che modo la simbologia del corvo ha preso il posto di quella del ragno? Cosa c’è di simile, ma anche di diverso, tra questi due animali nella tua visione artistica?
“Il corvo è una figura archetipica potentissima. Da sempre lo si considera un tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti, una creatura liminale. È questo aspetto che mi ha attratto, anche perché il progetto ha una forte componente magica, nel senso più istintivo e visionario del termine.
L’idea mi è venuta una mattina, intorno alle nove, mentre parlavo con Francesco Rista, chitarrista che vive a Copenaghen. Sto curando le illustrazioni per un suo lavoro e, mentre montavo un video per lui, ho rallentato le immagini e anche l’audio. In quel rallentamento, ho sentito qualcosa che mi ha colpito: suoni domestici, la voce di mia figlia, rumori casuali… tutto sembrava prendere una forma nuova. C’erano versi che sembravano umani, ma anche vicini a quelli dei corvi.
Glieli ho fatti sentire e lui ha detto che era materiale interessante. In quel momento ho pensato: “Con questi 45 secondi posso costruire un disco”.
Come si è evoluto il processo di collaborazione con gli altri musicisti? E qual è stato il ruolo che hai dato a chi ha partecipato?
“Ho chiesto a un amico fonico di pulire un po’ l’audio — pensavo solo a togliere il fruscio — ma lui mi ha restituito due versioni: una con gli alti in evidenza, l’altra più completa. Da lì ho iniziato a inviarle ad alcuni musicisti chiedendo se volevano lavorarci. Massima libertà: nessuna indicazione su durata, stile, struttura. Potevano campionarlo, rallentarlo, trasformarlo… quello che volevano.
La risposta è stata immediata. Già nel pomeriggio avevo la prima traccia. In circa due mesi ho raccolto 34 brani. Avevo in mente un disco singolo, ma alla fine ho deciso di fare un doppio album. Ho persino dovuto chiedere a qualcuno di fermarsi, perché stava diventando un progetto smisurato, anche economicamente: lo sto producendo da solo”.
Tra l’altro il concetto di morte e connessione torna anche nella tua arte visiva, come testimoniano le opere esposte nella tua ultima mostra…
“Sì, quella mostra aveva proprio questo percorso: iniziava con immagini legate alla vita, occhi spalancati, forti punti luce… e finiva con figure che avevano occhi quasi cancellati, sostituiti da macchie nere. Era un passaggio graduale verso l’oscurità. Sono tematiche che mi attraggono profondamente, anche se non so sempre spiegarle a parole: cerco di esplorarle attraverso la pittura, il suono, l’immagine”.
Ascoltando le tracce contenute in questo doppio album, la parola che subito salta alla mente è “libertà”…
“Direi piuttosto disordine fertile. Non ho imposto nulla, né in termini di tempi né di stile. Mi sono rivolto a musicisti che già apprezzo, quindi con certe affinità di base, ma il risultato è stato un insieme molto eterogeneo, anche pieno di contrasti. Io ho fornito una base — quei 45 secondi — e ho lasciato che ciascuno la reinterpretasse.
La mia traccia ricorre quasi sempre, magari nascosta, ma presente. Ho anche aggiunto qualche chitarra antica, arrangiata in modo da rimanere nascosta. Per me è importante che certi interventi siano invisibili, quasi segreti.
Il tuo intervento concreto nel disco qual è stato?
“Quei famosi 45 secondi, più qualche suono mio inserito in modo molto discreto, volutamente poco riconoscibile. È un gioco anche con l’ascoltatore”.
C’è qualcosa che ti ha particolarmente sorpreso nella realizzazione di questo progetto?
“Sì, la quantità e la qualità della partecipazione. In sole due ore avevo già le prime risposte. Musicisti che stimo da sempre hanno accettato con entusiasmo. Ne cito alcuni: Arlo Bigazzi, Flavio Ferri, Andrea Chimenti, Fabrizio Tavernelli, Stefano Risso, Ulrich Sandner. Ma anche tanti artisti underground incredibili: Alessandro Sgarito, Francesco Rista, Frank Priola… e altri amici dei tempi della New Wave a Cuneo. Gente che ha portato una grande energia creativa”.
Ci sono nomi in particolare che vuoi sottolineare per il loro contributo unico al progetto?
“Certo, i nomi che ho fatto sono significativi, ma ce ne sarebbero almeno altri 25 che meritano menzione. Anche Enomisossab, che lavora sulla voce in modo sperimentale: con lui avevo già collaborato, realizzando copertine per i suoi dischi. Tutti, in modi diversi, si sono confrontati con la figura del corvo, simbolo ricchissimo: saggezza, morte, resurrezione, messaggero tra mondi, spirito guida. Un animale carico di potenza simbolica”.
Come uscirà questo lavoro? Unicamente in formato digitale o avrà anche la sua versione fisica?
“Entrambi. Il disco uscirà su tutte le piattaforme digitali — YouTube, Spotify ecc. — ma farò anche una tiratura di 100 CD: 50 andranno agli artisti, 50 li metterò in vendita per coprire almeno le spese. È un doppio album, quindi i costi non sono banali. Il prezzo? Difficile stabilirlo: un disco singolo può stare a 10 euro, un doppio magari 20 o 25, ma bisogna anche considerare le spese postali. Non voglio guadagnarci, voglio solo rientrare delle spese”.
Cosa ti aspetti che succeda dopo l’uscita del disco? Hai già in mente altri progetti o collaborazioni?
“Il disco è disordinato, caotico, contraddittorio, e proprio per questo è profondamente sincretico, perché la realtà vissuta è così, come lo sono i sogni, che non seguono regole fisse. Questo è un aspetto che mi interessa molto. Adesso sto preparando alcuni eventi, cose che sto immaginando e progettando in questo momento, ma voglio anche godermi il riflesso. Questo significa che voglio che dal disco possano nascere altre opportunità, come eventi, mostre, installazioni, o nuovi progetti musicali. È un aspetto che riguarda il lato sincretico del progetto, come se da un nucleo iniziale si aprisse una spirale che generasse nuovi mondi. Se invece il disco non dovesse avere il successo che mi aspetto, nel senso che non attirerà l’attenzione di nessuno, al posto di godermi il riflesso, voglio fare l’opposto. Chiamerò questa fase l’”antiriflesso”, cioè l’esatto contrario. Per me questo vuol dire ritirarmi in silenzio, custodire questo prodotto, tenermelo per me, farlo rimanere un oggetto unico, senza seguito, senza eco visibile. Sarà un mistero, un segreto, un gesto magico da proteggere. Questa è l’altra idea.”
Che tipo di ascoltatore immagini per questo lavoro? È un’opera che chiede tempo, attenzione, forse anche silenzio prima e dopo. È pensata per chi ha ancora voglia di lasciarsi sorprendere?
“Il pubblico ideale è fatto di persone curiose, con un gusto per l’underground e la sperimentazione. Anche giovani, ma non solo. La casa discografica, Talìa, si occupa di musica legata alla medicina olistica, alla spiritualità, ma anche di recupero della musica popolare, soprattutto calabrese. Il fondatore, Biagio Accardi, è un musicista straordinario: ha contribuito al disco con un brano in cui, anziché imitare il corvo, imita l’umano che imita il corvo. Un ribaltamento meraviglioso”.
Il progetto non si ferma alla musica. C’è anche una parte visiva molto forte, tra video, installazioni e performance. Come si intrecciano questi linguaggi? E cosa ti spinge a non restare mai in un solo medium?
“Sì, abbiamo già quattro video online, ne stanno arrivando altri. Uno sarà lanciato in contemporanea con l’uscita del disco. Il progetto ha un’anima visiva molto forte, come il precedente. È un mix di musica elettronica, popolare, teatro. Alcuni testi sono tratti da Lorenzo Stecchetti, un poeta verista che declamava nelle bettole. Un linguaggio alto, ma sporcato dalla realtà”.
Uno dei brani contiene una poesia di Lorenzo Stecchetti, declamata con una forza quasi teatrale. Com’è arrivato questo testo nel progetto? E cosa vi ha colpito così tanto da volerlo includere?
“In questo passaggio è stato fondamentale Luca Occelli, attore con cui ho collaborato. Il testo scelto è Il canto dell’odio di Lorenzo Stecchetti, pseudonimo di Olindo Guerrini. In un primo momento avevamo pensato a qualcosa che richiamasse Poe, magari ‘Il Corvo’…avevo pensato soprattutto per la musica anche al film ‘Il Corvo’, avevo pensato a Lou Reed con ‘The Raven’ in cui i versi di Poe sono letti e recitati. Ma proprio per questo sarebbe stata una scelta quasi scontata, prevedibile. Luca Occelli ha voluto provocare. E nei miei confronti è stato, in un certo senso il provocatore del provocatore: ha scelto un testo del 1883, scritto a Lucca, un testo allo stesso tempo goliardico e amaro, che oggi alla luce di certi fatti di cronaca assume sempre di più sfumature cupe e orrende. È la voce di un uomo ferito dalla donna amata, che le promette di tornare, come un corvo, dopo la morte, per non lasciarla in pace: la vendetta di un cuore infranto, un contributo oscuro e potente. La sonorizzazione è a cura di Arturo Caldi, che ha saputo vestire il testo di un’atmosfera sonora intensa e coerente con il resto del disco.”.