La classifica dei dischi dei Korn secondo Metal Hammer Italia

Il 12/06/2020, di .

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La classifica dei dischi dei Korn secondo Metal Hammer Italia

Non conoscere i Korn (o KoЯn) è impossibile. Ventisette anni di carriera, ventisei dal primo full-length, e più di trenta milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Ma questi numeri non contano niente in confronto all’importanza che il gruppo capitanato da Jonathan Davis ha avuto per la musica, e non solo per il nostro amato metal. Sì, perché da molti (defender, soprattutto in passato) il contributo che i Korn hanno dato al metal è stato considerato più una colpa che un merito. Certo, questo non lo pensano i milioni di (oramai non più) giovani cresciuti con il celebre tanto famigerato Nu-Metal. Un genere che Korn, assieme a Deftones e altri nomi oggi importanti della scena internazionale, hanno contribuito a creare ed elevare. Tuttavia, se il successo del Nu-Metal ha avuto breve vita, i Korn non si sono fermati: sono cambiati, hanno sperimentato, facendo storcere il naso ai loro stessi fan. Eppure, dopo tutti questi anni, sono ancora qui e arrivano a stupirci con album come ‘The Nothing’. Abbiamo quindi tentato di tirare un po’ le somme, con una classifica che comprende le fatiche da studio della band, e a farlo è il nostro Gianfranco Monese, che va avanti a pane e Korn da più di vent’anni. Buona lettura e fateci sapere la vostra classifica!

FUORI CLASSIFICA. ‘The Path Of Totality’ (2011)


A dicembre del 2011, appena diciassette mesi dopo ‘III: Remember Who You Are’ la band dà alle stampe quello che, senza ombra di dubbio, è da considerarsi un album che o si ama o si odia. Davis invoglia Fieldy, Munky e Ray a seguirlo in un esperimento che mescola i classici suoni della band con la dubstep. Ogni brano presenta un dj come featuring, e alcune delle ospitate sono di rilievo (come Skrillex, esponente massimo del genere dubstep). Tuttavia, a conti fatti, se da un lato l’album accontenta i fan dall’ orecchio più “aperto”, dall’ altro scontenta non poco la vecchia guardia, i fedelissimi a quello che i Korn suonavano un tempo (diciamo fino a ‘Take A Look In The Mirror’), desiderosi di una conferma, magari di livello superiore, dopo l’ album precedente.
Il divario è netto, la via di mezzo non esiste, esistono solo due schieramenti. Alcuni fan, sentendosi traditi, non lo acquisteranno mai. Altri lo giudicheranno la giusta svolta dopo una timida ripresa con ‘III: Remember Who You Are’.
Data la troppa disparità constatata negli anni tra le varie opinioni, recensioni e quant’ altro, mi è sembrato giusto metterlo fuori classifica, sicuro che se dovessi dargli una posizione bassa scontenterei una parte di voi, se dovessi dargliene una alta passerei per ‘infedele’. Tuttavia, se volete la mia opinione, comprendendo come tutti noi, con il passare degli anni, crescendo e maturando possiamo aprire e cambiare i nostri orizzonti visivi e uditivi (e questo, nel caso di un musicista, non può che riflettersi nelle sue composizioni), l’esperimento è coraggioso, curioso e ben riuscito. Inoltre, fermandosi a un solo disco non rischia di stancare.
Guardando i fatti e le reazioni in Italia, c’è da constatare che l’ unica data italiana a supporto dell’album (del quale vennero eseguiti ben sei brani, evento raro per un nuovo album) presso l’Alcatraz di Milano del 18 marzo 2012 registrò un sold out (inatteso?) in quello che, ad oggi, è stato l’ unico tour della band con due dj ad esibirsi di spalla (il primo dei quali fu proprio Davis, o meglio JDevil).
Di sicuro c’è il fatto che, nonostante la band di Bakersfield abbia da sempre cercato di sperimentare, questo sia una mosca bianca all’interno della discografia la cui mossa migliore, forse, sarebbe stata che Davis lo pubblicasse più come album solita che come album della band. Ciò avrebbe appianato molte critiche. In risposta a queste, mi verrebbe da controbattere che anche quando la band ha cercato di riproporre quanto le riesce meglio (vedi in ‘III: Remember Who You Are’, ‘The Paradigm Shift’ e ‘The Serenity Of Suffering’) è stata comunque accusata di essere ripetitiva. Quindi, da che parte stare?

12. ’Untitled’ (2007)


Il giusto prosieguo del precedente ‘See You On The Other Side’, anche grazie alla produzione (affidata nuovamente ad Atticus Ross dei Nine Inch Nails). Se però l’album precedente poteva essere considerato di transizione, dato (anche) l’abbandono di Head, per molti fan qui la band era alla fatidica prova del nove.
L’elettronica, oltre agli echi industrial già presenti in minima parte nell’album precedente, qui prende piede. La chitarra di Munky, personalmente unica nota positiva dell’album, prova a graffiare, ma è mal supportata da un contorno che non le rende giustizia.
Le canzoni sono più dirette (‘Bitch We Got a Problem’, ‘Hold On’), lo stile e il suono più poveri e sobri. Ma, se in altri album questo sembra funzionare (‘III: Remember Who You Are’), qui, salvo rari episodi (‘Killing’, ‘I Will Protect You’, nel quale vale la pena citare un grande assolo da parte di Terry Bozzio), tutto risulta fiacco, complici anche parecchi brani veramente deboli nei quali difficilmente si riconoscono i veri Korn, o quelli che i fan vorrebbero ascoltare.
L’album sembra più una collaborazione tra la band e i Nine Inch Nails, e le canzoni potrebbero essere più utili a Marilyn Manson o ad un film di Tim Burton (‘Ever Be’). Di certo c’è che, a partire dalla rabbia domata di Davis, non suona da Korn.

11. ‘See You On The Other Side’ (2005)


Primo album della band senza Head, primo album della band con una nuova etichetta (Virgin Records): c’ è aria di svolta.
I produttori Atticus Ross e The Matrix aiutano i Korn a “snaturarsi” dal passato: laddove, nei primi due album e nel predecessore ‘Take A Look In The Mirror’ i nostri mostravano tutta la loro cupezza, cattiveria, rabbia, capeggiata da un Davis sull’orlo di una crisi di nervi, qui i ritmi, aiutati da una giusta dose di industrial o comunque di elettronica (che, a differenza del successivo ‘Untitled’, fortunatamente non è eccessiva e sembra voler andare a braccetto con i brani) sono più leggeri, più “ballerini”, “simpatici” diciamo. Esempio di questo sono brani come ‘Twisted Transistor’ e ‘Hypocrites’, anche se buona parte dell’ album sembra mostrare questo nuovo spirito.
La soluzione trovata da band e produttori potrebbe anche funzionare, e certi brani sono molto validi (‘Getting Off’, ‘Liar’, ‘For No One’ oppure ‘Coming Undone’ che può risultare sempliciotto, ma è un brano che ancora oggi dal vivo fa la sua bellissima figura), ma si tratta comunque di un mix di vari tentativi che portano ogni brano ad essere diverso dall’ altro, in una fusione che disorienta i fan, faticando nella riuscita di farsi piacere.
Un album che convince solo negli episodi dove si ‘intravedono’ i veri Korn. Il resto non sarebbe male, ma l’ elettronica questa volta non sembrerebbe funzionare, facendolo sembrare il fratello (molto) minore di ‘Untouchables’. Siamo abbastanza lontani da quanto ascoltato negli album precedenti: un esempio può essere il basso di Fieldy, che slappa di rado (‘Open Up’). Se con ‘Follow The Leader’ e ‘Issues’ i Korn avevano comunque inserito qualche brano più leggero rispetto ai primi due lavori, questa volta la sterzata è molto più netta.
Peccato: come ultimo album con Silveria alla batteria, si poteva fare meglio.
Una nota finale: se, a discapito di due brani deboli (a voi la scelta), fossero stati inseriti ‘Eaten Up Inside’ e ‘It’ s Me Again’, brani presenti nei b-sides, questo album avrebbe scalato questa classifica di almeno una posizione.

10. ‘III: Remember Who You Are’ (2010)


Il problema di questo album, il primo con Ray Luzier alla batteria e a parer mio da considerarsi in classifica a pari merito con ‘See You On The Other Side’, ruota attorno a una parola: aspettativa.
Già, perché quando nel titolo si da un chiaro segnale (le tre linee stanno a indicare che, dopo ‘Korn’ e ‘Life Is Peachy’, questo è il terzo album con, alla produzione, Ross Robinson: avrete quindi già capito il significato della frase che ne segue), come i seguiti di successi proposti da molte band in ambito Heavy Metal (ad esempio i Queensryche con ‘Operation: Mindcrime II’, gli Helloween con ‘Keeper Of The Seven Keys: The Legacy’ o, restando in Italia, il validissimo seguito di ‘Return To Heaven Denied’ dei Labyrinth, tra l’ altro pubblicato sempre nel 2010), le aspettative da parte di fan e stampa si alzano.
Ecco: se questo album avesse un altro titolo (sbizzarritevi pure), questo gli sarebbe valso almeno un punto in più. Invece, con un titolo così pesante sulle spalle e qualche riempitivo di troppo, è un album da sei e mezzo, ma voti a parte è senza dubbio quello più sottovalutato della band.
Cronologicamente parlando questo è il miglior album dai tempi di ‘Take A Look In The Mirror’, il migliore senza Head. Molti i brani che fanno gridare a un gran ritorno dopo due album non all’altezza (i due singoli ‘Oildale (Leave Me Alone)’ e ‘Let The Guilt Go’, oltre a ‘Pop A Pill’, ‘Fear Is A Place To Hide’, ‘The Past’, ‘Are You Ready To Live?’), ma più si va verso la fine del disco più le idee, e non la convinzione, sembrano terminare, e il calo diventa notevole. Le canzoni sembrano mescolarsi tra loro in una similitudine generale (sensazione opposta alla differenziazione dei brani di ‘See You On The Other Side’): nessuna emerge, ma nemmeno sprofonda.
In conclusione, se confrontato non solo con i primi due album della band, bensì con i primi sei, questo ritorno al passato appare timido; personalmente, prendendo spunto dai motori, lo ritengo un “giro di ricognizione” in vista del rientro di Head e, di conseguenza, del materiale che sarebbe arrivato da ‘The Paradigm Shift’ in poi. Un giro però da non sottovalutare, perchè garantisce una (ri)partenza a pieno ritmo!

9. ‘The Paradigm Shift’ (2013)


Dopo l’acclamato rientro nella band di Head e un tour estivo di rodaggio (in Italia i Korn suoneranno, verso fine giugno, a Milano, Roma e Padova), a ottobre ecco uscire il tanto atteso disco. Se le aspettative per ‘III:Remember Who You Are’ erano alte grazie al titolo, qui lo sono grazie al ritrovato chitarrista.
Da quest’album in avanti la band torna a fare quello che le riesce meglio, e infatti da questo punto della classifica a salire la qualità di quanto prodotto si alza notevolmente (sempre tralasciando il ‘fuori classifica’).
‘Prey For Me’ accoglie l’ascoltatore a schiaffi in faccia, delineando quelle che sono le intenzioni della band per buona parte del disco. Dopo l’esperimento ‘The Path Of Totality’ la parte elettronica fungerà, da quest’album sino all’ultimo ‘The Nothing’, da completamento del sound, senza sovrastarlo o snaturarlo (anche se va detto che qui, rispetto ai due dischi successivi, si fa sentire maggiormente, segno che il ricordo dell’ album precedente è ancora vivido nella mente di Davis).
L’album prosegue ad alti livelli (‘Love & Meth’ e ‘Spike In My Veins’ sono davvero notevoli), presentando un leggero calo nella parte centrale, udibile soprattutto in ‘Never Never’, primo singolo estratto, che personalmente ritengo il peggior brano di sempre scritto dai Korn, valido solo per un buon passaggio in radio, pur mettendo a dura prova la reputazione della band.
‘Punishment Time’ e soprattutto ‘Lullaby For a Sadist’ sembrerebbero mostrare i difetti di ‘III: Remember Who You Are’, ovvero un calo inesorabile fino al termine del disco, un fotocopiare (male) soluzioni vincenti di una quindicina di anni prima. Per fortuna ci pensano la sottovalutata ‘Victimized’ (alzi la mano chi la vorrebbe ascoltare dal vivo) e ‘It’ s All Wrong’ a chiudere degnamente quella che è una più che valida uscita, dopo anni che hanno visto più ombre che luci. Un album che, volendo dare un voto, oscillerebbe tra il sette e il sette e mezzo, sicuramente il migliore dai tempi di ‘Take a Look In The Mirror’ e, personalmente, l’ esatto seguito di ‘Untouchables’ (si ascolti ‘Mass Hysteria’ o una delle due bonus track ‘Wish I Wasn’ t Born Today’) per la ricerca di quella potenza che tanto ci era piaciuta in passato, pur strizzando l’ occhio al mainstream con trovate elettroniche, alle volte pop, e non facendo navigare sempre Davis nel suo mare di disperazione.
In Italia, il tour di supporto all’ album giungerà ‘solo’ sedici mesi dopo la sua pubblicazione, quando i primi due giorni di febbraio del 2015 la band suonerà rispettivamente a Milano e Roma eseguendo da quest’ ultima fatica ‘Love & Meth’, ‘Spike In My Veins’ e ‘Hater’, quest’ ultimo brano presente nella versione ‘World Tour Edition’ uscita il 15 luglio 2014; una versione contenente un disco aggiuntivo che include, oltre ad ‘Hater’ e ad altri due inediti, alcuni brani registrati dal vivo.

8. ‘The Serenity Of Suffering’ (2016)


Ci aveva visto bene chi riteneva i Korn di ‘The Paradigm Shift’ come una band in netta ripresa. In ‘The Serenity Of Suffering’, infatti, l’ asticella si alza ulteriormente.
Dopo un’ottima amuse-bouche come ‘Insane’, ‘Rotting In Vain’, primo singolo estratto, fa gridare al capolavoro. Personalmente, credo che i Korn non pubblicassero un singolo tanto convincente dai tempi di ‘Did My Time’: lo stile è quello classico della band, e nel ponte a metà canzone Davis riesuma pure lo scatting, ottenendo (credo) la felicità di tutti. ‘Black Is The Soul’, validissimo terzo singolo estratto, “oscura” l’ album, portando a certe sonorità che ricordano ‘III: Remember Who You Are’. ‘The Hating’ è il primo brano che abbassa leggermente i toni del disco, soprattutto nei ritornelli, ma assieme a ‘Die Yet Another Night’ è sorretto degnamente dalle strofe.
‘A Different World’ attira più per essere impreziosita dalla partecipazione di Corey Taylor che per la sua bellezza: senza la voce degli Slipknot, sarebbe un brano senza infamia e senza lode. ‘Take Me’, secondo singolo estratto, pur restando di gran lunga superiore rispetto ai colleghi ‘Never Never’ (dal precedente album) e ‘Can You Hear Me’ (dal successivo) odora più da ‘passaggio in radio’ che altro. Se le successive ‘Everything Falls Apart’, ‘Die Yet Another Night’ e ‘When You’ re Not There’ sono comunque interessanti, il disco termina con due brani (quattro, se si vogliono includere le bonus track) in sordina.
Sia la copertina (a cura di Ron English), con chiari richiami ad Issues, che l’ album sembrano non accontentare tutti, rappresentando un’ ‘operazione nostalgia’ ove la band sembra aver svolto il classico compitino, ripescando rabbia e suoni che ne avevano decretato il successo vent’ anni prima (questa volta con meno convinzione). Personalmente, pur condividendo, nelle critiche, una certa omogeneità presente su tutto il disco, se i risultati fossero sempre questi, ben vengano operazioni di questo calibro (anche i brani presenti su “III: Remember Who You Are’ risultano omogenei, ma qui il prodotto finale è di gran lunga superiore). Anche perché, se proprio questo disco non vi ha convinti e volete guardare “oltre”, c’ è sempre ‘The Path Of Totality’.
Una nota finale: dispiace per la scarsa promozione che l’album ebbe in quella che, al momento di scrittura di questa classifica, è stata l’ ultima calata italica della band, il 12 marzo 2017 a Milano. Da questo disco vennero eseguite solamente ‘Insane’ e ‘Rotting In Vain’.

7. ‘Take A Look In The Mirror’ (2003)


I nostri arrivano al sesto album dopo che, a essere onesti, la storia l’hanno già fatta e scritta. Coincidenza, dal 2003 il Nu-Metal sembrerebbe passare di moda. Primi segni di cedimento, quindi?
Assolutamente no. La band, nel tentativo (riuscito) di non produrre un album uguale ai precedenti, vira verso un suono più secco, deciso, rabbioso, cercando di riavvicinarsi più ai primi due lavori che agli ultimi due (forse le tiepide vendite di ‘Untouchables’ hanno portato i nostri a “guardarsi allo specchio”, riflettendo sulle prossime mosse) e affinando i propri strumenti (soprattutto le corde vocali) con una dose di Death Metal. I riff di chitarra sono tra i più cattivi e oscuri mai composti prima. Nonostante qualcuno non esiti nell’affermare, da quell’ anno, come il genere sia ormai sepolto, i Korn, fregandosene, con la qualità di questo disco (e non con il curriculum che li precede) dimostrano di guardare ancora una volta i “colleghi” dal gradino più alto del podio.
L’ inizio è tosto: tralasciando la validissima opener ‘Right Now’, che troverà spesso spazio nelle setlist della band negli anni a venire, ‘Break Some Off’ e ‘Deep Inside’ dimostrano come in nemmeno tre minuti si possa esibire una rabbia senza precedenti (a differenza di ‘Can You Hear Me’ presente su ‘The Nothing’, anch’ essa breve ma scadente). ‘Let’ s Do This Now’ è al limite dell’ascoltabile, la collaborazione con Nas in ‘Play Me’ è riuscitissima, ‘Alive’ è forse l’unico riempitivo (comunque un capolavoro se confrontato con quanto la band scriverà nei tre album successivi), ‘Everything I’ve Known’ uno dei (tanti) pezzi che la band potrebbe eseguire dal vivo, se solo variasse un po’ la scaletta ogni tanto.
Il tutto fa capire come i nostri riescano ancora, nonostante una formula che, dopo cinque album, potrebbe definirsi prevedibile o ciclica, ad abbinare alla consueta cattiveria (anche se qui sarebbe più corretto parlare di brutalità), funky e hip-pop con originalità e freschezza. L’album si chiude con una notevole ghost track, ovvero una cover di ‘One’ dei Metallica eseguita dal vivo davanti alla band agli MTV Icon: Metallica dello stesso anno (fu la prima apparizione televisiva dei Four Horsemen con Robert Trujillo al basso). A fine esibizione Ulrich, intervistato, ammetterà di considerare la band al pari della sua.
Tornando al disco, parecchia gente si esalterà per i due singoli estratti ‘Did My Time’ e ‘Right Now’, senza scavare in profondità e, quindi, sbagliando, in quanto trovare difetti qui dentro è, come per gli album successivi, solo pignoleria. L’unico difetto che potrebbe riguardare questo album è la sua locazione temporale: il 2003 vede pian piano il passare di moda del Nu-Metal. Questo ha, forse, portato molte persone a trovare ‘Take A Look In The Mirror’ portabandiera di un movimento ormai passato, quando invece bisognava guardare al nuovo (Metalcore). Un po’ come tutti gli ottimi album Heavy Metal usciti nei primi Novanta poco prima dell’ esplosione del Grunge e finiti quindi nel dimenticatoio. Se siete di questa opinione, rivalutatelo!
In conclusione, una considerazione personale (più una chiacchiera da bar che altro): due brani sembrerebbero farci capire, indirettamente, che il periodo d’ oro della band sta per finire (e riprenderà nel 2013 con ‘The Paradigm Shift’): ‘Y’ All Want a Single’, il cui stile sembra anticipare quello che accadrà due anni più tardi in ‘See You On The Other Side’, e ‘Did My Time’, solo traducendo il titolo (‘ho fatto il mio tempo’).

6. ‘The Nothing’ (2019)


L’ ultimo album, a oggi, della band fortunatamente prosegue quanto di buono si può ascoltare in ‘The Serenity Of Suffering’. Il genere è quello a cui i cinque di Bakersfield ci hanno da sempre abituato: chitarre e basso ribassati, una giusta dose di elettronica che, come ho scritto precedentemente, va ad amalgamarsi con il resto del suono senza risultare fuori luogo e quindi senza snaturarlo, bensì completandolo, il doppio canto alla paranoia ma soprattutto al dolore di Davis, pulito e sporco. Da non dimenticare il drumming di Luzier, abile in cinque album nel lasciare la sua firma che ben si differenzia da quella del precedente collega Silveria.
L’album si apre con ‘The End Begins’: delle cornamuse quasi a funerale, o forse a lode, introducono il pianto di Davis, il quale sembrerebbe chiedere alla sua ex moglie Deven, scomparsa l’ anno scorso, ‘Why Did You Leave Me’. Il brano successivo, ‘Cold’, pubblicato online prima dell’ uscita dell’ album, ci fa ritrovare una band nuovamente cattiva ed ispirata. Ottimo brano che non sfigurerebbe nei primi tre, immortali, album del gruppo. ‘You’ ll Never Find Me’, primo singolo estratto, prosegue quanto di buono detto con ‘Cold’. Anche qui Davis esprime tutto il dolore per la sua perdita, impaurito da quello che potrebbe accadergli (“this darkness is baiting me, down the road to my own death”), chiedendo verità, il motivo di quanto accaduto (“So come give me the truth you hide, feed the pain inside”).
L’album prosegue ad alti livelli al punto che per attendere il primo brano ‘normale’ (per non scrivere ‘riempitivo’) bisogna prima sentirne ben sette: ‘Can You Hear Me’, ottavo brano e terzo estratto fatto ascoltare dai Korn prima dell’ uscita dell’ album, risulta troppo lineare dall’ inizio alla fine, non morde come dovrebbe, tanto che al termine dei suoi tre minuti scarsi l’ ascoltatore è ancora lì che aspetta la sfuriata, il cambio di tempo, l’ esplosione da parte di Davis e compagni. Peccato che il brano sia finito.
Ci pensa ‘H@rd3r’, a detta di chi scrive il miglior pezzo dell’album, a prenderlo a schiaffi in faccia: aggressivo, cattivo, del quale non oso immaginare il caos che potrebbe crearsi tra il pubblico se la band dovesse riproporlo dal vivo. Come da titolo, Davis continua a chiedere (alla sua ex moglie?) come mai la sua vita stia diventando sempre più dura (“Tell me what to feel, this shit can’ t be real, tell me why my life keeps getting harder and harder and harder”).
In conclusione, ‘The Nothing’ ha più di quanto un fan stava aspettando, dopo anni di indecise virate o tiepide rimescolate. Un album che proprio perché intriso dal lutto di Davis (la musica della band è sempre stata “sofferta”, e proprio da lì ha sempre trovato il suo punto di forza), cresce ascolto dopo ascolto. Come il buon vino, più i Korn invecchiano, migliore è quanto pubblicano. Continuate così.

5. ‘Issues’ (1999)


A esclusione dei titoli presenti sul podio, posizionare al quinto posto ‘Issues’ e al quarto ‘Untouchables’, o viceversa, è solo questione di cuore. Trattasi di due album che sarebbe più opportuno mettere a pari merito, la cui qualità è appena sotto i primi tre, imperdibili, dischi della band.
Dal precedente ‘Follow The Leader’ la band capisce (e centra in pieno) quale sia il trucco per aprirsi a un pubblico più ampio. Non a caso ‘Falling Away From Me’, primo singolo estratto presente nella colonna sonora della (allora) nuova serie del cartone South Park, come i precedenti ‘Freak On a Leash’ e ‘Got The Life’ ci mostra una struttura più fluida, quasi melodica.
Ciò non deve però trarre in inganno nessuno: la musica ruota attorno al male di vivere di Davis il quale, nonostante al momento della pubblicazione del disco si trovi pulito da alcool e cocaina da poco più di un anno, è comunque un concentrato di infelicità, rabbia, pessimismo verso ciò che continuamente gli accade (non a caso in ‘Beg For Me’ ammette di essere felice solo quando si trova sul palco), e verso lo stile di vita americano, improntato su positività e ottimismo, il quale non sembra però riguardare tutti (“…You flirt with suicide, sometimes that’ s ok…”).
I testi sono quanto di più personale Davis abbia mai scritto, non a caso su questo disco non ci sono ospiti a duettare con il cantante. La produzione, affidata a Brendan O’ Brien, allontana la band dalla ‘positività’ funky e hip-hop del lavoro precedente, assecondando l’ansia del cantante. Una musica più psichedelica, malata, soprattutto nel lavoro delle chitarre, che sembra instabile, mutevole, proprio come lo stato d’animo di Davis. I ritmi sono rallentati, tutto asseconda la voce, per un album che non ha punti deboli, in quanto trattasi, dall’ inizio alla fine, di un viaggio all’ interno della mente del cantante, introdotto da un suo desiderio in ‘Dead’ (“All I want in life is to be happy…”) e chiuso in maniera solenne e riflessiva da ‘Dirty’. ‘Issues’, durante il suo ascolto, o viaggio, vi regalerà un costante stato di allucinazione. Accertatevi, prima di partire, di aver allacciato le cinture!

4. ‘Untouchables’ (2002)


Gli “intoccabili” sarebbero gli appartenenti alla casta minore dell’India, meglio definita Paria (e la traduzione corretta sarebbe “oppressi”), tuttavia come Davis ammette in un’ intervista per Metal Hammer Italia nel numero di luglio del 2002, “…il concetto che ricorre frequentemente (nell’ album) è quello della libertà, dell’ indipendenza delle proprie azioni, serenità nella scelta…” Cosa che non sempre in America è possibile fare, dato che “…chi controlla tutto è la televisione…” (da qui il concetto del video del primo singolo estratto ‘Here To Stay’).
Rispetto ai primi quattro lavori, in ‘Untouchables’ vi è un’ ulteriore, definitiva, virata verso la “forma canzone”, oltre a un’ apertura verso lidi elettronici (un esempio di questa operazione può essere la sottovalutata ‘Hating’, oppure ‘Bottled Up Inside’ o, se si cerca un qualcosa di più marcato, l’ emotiva ‘Hollow Life’ o il terzo singolo estratto ‘Alone I Break’). Chitarre, basso e batteria proseguono il cammino iniziato con ‘Issues’ nel voler sembrare più heavy e meno funky (‘Embrace’, ‘Blame’), lavoro che esploderà letteralmente nel disco successivo. ‘Thoughtless’, secondo singolo estratto (colpevolmente quasi mai eseguita dal vivo nell’ ultimo decennio, a eccezione di un medley nella setlist del tour estivo del 2011) prosegue la politica vincente della band, iniziata con ‘Follow The Leader’, di offrire ai fan singoli d’impatto, vincenti, capaci di restare in testa già dopo un ascolto (forse due), ma senza perdere un’ oncia della potenza e del trademark dei Korn.
Se quest’album, nonostante sperimentazioni azzardate rispetto al recente passato piace, è soprattutto grazie all’ azzeccata scelta di Michael Beinhorn in cabina di produzione. Grazie a lui, come ammette Davis sempre a Metal Hammer Italia, “…abbiamo lavorato molto sul sound e sui samples da usare, sperimentando con tutta una serie di macchinari che hanno dato una nuova potenza e forza alla nostra musica […] Quello che abbiamo ottenuto è superiore anche rispetto ai nostri precedenti album. Abbiamo innalzato il livello, riuscendo ad estrarre melodie strepitose dal caos…”
Tuttavia, anche se alcuni storceranno il naso soprattutto per gli inserti di elettronica, è fuori dubbio che il prodotto finale (costato, si vocifera, qualcosa come quattro milioni di Euro) è un signor disco, che elogia il saper sperimentare dei nostri pur mantenendo il loro trademark. All’allora sovraffollamento di band nel Nu-Metal, i Korn sapranno fare ancora la differenza restando fedeli alle loro radici; lo stesso non lo si potrà dire di altre band (senza fare nomi). “Intoccabili” e numeri uno del genere proprio perché capaci di sperimentare, mettendosi in discussione ogni volta? Secondo me si.
Una nota finale: Untouchables’ è l’album di cui Davis è più orgoglioso (il peggiore, invece, è ‘III:Remember Who You Are’).

3. ‘Life Is Peachy’ (1996)


Primo posto a parte, credo che posizionare ‘Life Is Peachy’ al terzo posto e ‘Follow The Leader’ al secondo, o viceversa, sia solo questione di cuore: quel che è certo è che, nonostante uno di noi sia più legato ad un lavoro rispetto ad un altro (anche uscendo da questi tre), non esiterà comunque a ritenere i primi tre lavori della band essenziali. Non solo per la band in questione, ma per il Nu-Metal in generale.
‘Life Is Peachy’ amplia quanto si può ascoltare nel suo predecessore, uscito due anni prima: i suoni sono ruvidi (soprattutto le chitarre), le canzoni abbinano fobia e psicosi (‘Lost’), schizofrenia (‘Good God’, personalmente il brano migliore dell’album) in continui cambi tempo, rallentamenti e ripartenze che sembrano confondere, scombussolare l’ ascoltatore, ma che altro non fanno che accompagnare magnificamente la voce di Davis. Mai come in questo album suoni e voce vanno a braccetto ballando una danza ‘psichiatrica’.
Come ‘Korn’, tutto l’album è impregnato d’oscurità oltre che da una paura innocente e fanciullesca (è chiaro che la band, e Davis in primis, siano vicini ai bambini “abusati”): il testo di ‘Kill You’ (che si chiude con una ghost-track di ‘Twist’ a cappella) pesca nei brutti ricordi, nei demoni del cantante, e la canzone sembra la sorella (di due anni più piccola) di ‘Daddy’, posta in chiusura dell’album di debutto.
La stessa copertina, come quella del debut album, presenta un’ombra: che sia quella dello stesso bambino il quale, vedendosi nello specchio, nel gesto di sistemarsi la cravatta (qualcosa che, comunque, non impariamo proprio da piccoli) si vede cresciuto e, quindi, pronto a sconfiggere i propri demoni? O essa è forse un’ombra che, senza mai staccarsi da noi, rappresenta i nostri demoni interiori, le nostre paure? Il bambino sembrerebbe notarla, sembrerebbe non notarla, o più semplicemente dovendo conviverci (con lei e con quello che rappresenta) si è rassegnato? A ognuno la propria rappresentazione.
‘A.D.I.D.A.S.’, secondo singolo estratto, è forse il primo tentativo di dare ai fan un brano ‘orecchiabile’ soprattutto nel testo (e ai nostri più visibilità): sicuramente uno dei cavalli di battaglia assieme all’ iniziale ‘Twist’ (cantata da Davis utilizzando dei versi scat), ‘Chi’, ‘No Place To Hide’ (primo singolo estratto), ‘Swallow’, oltre alle già citate ‘Lost’ e ‘Good God’. Tra gli episodi più deboli la strumentale ‘Porno Creep’ e le due cover ‘Wicked’ (di Ice Cube, qui impreziosita dalla presenza di Chino Moreno dei Deftones) e ‘Low Rider’ (dei War, qui con Head alla voce).

2. ‘Follow The Leader’ (1998)


Vorrei iniziare questa recensione con una riflessione: credo che ogni fan che si rispetti abbia notato, nel precedente ‘Life Is Peachy’, una somiglianza (almeno iniziale) tra ‘A.D.I.D.A.S.’ e ‘Ass Itch’. Il rischio di auto plagio, dato senza dubbio non dalla mancanza di idee, bensì dalle restrizioni del genere, molto probabilmente avrebbe portato i Korn a rischiare di produrre un qualcosa di ‘già sentito’ alle orecchie dei fan con la terza release.
Per fortuna tutto ciò non accade: la band decide che è giunta l’ora di affacciarsi al grande pubblico, e qui modella il suono (simile dei primi due album) con influenze più funky, rap e hip-pop. Sarà la prima sperimentazione dei nostri (la seconda avverrà con ‘Untouchables’). Un po’ come il ‘Black Album’ dei Metallica, questo è da considerarsi l’ apice della band in senso commerciale, ma a differenza di quello dei Four Horsemen, non presenta uno spartiacque: le soluzioni qui provate troveranno continuità in futuro (sicuramente fino a ‘Take A Look In The Mirror’ compreso).
‘Follow The Leader’ presenta, forse, un difetto, ovvero che a causa delle influenze sovra citate, rispetto ai due predecessori risulti “sconnesso”: ogni brano sembra viaggiare per conto suo, con sfumature diverse dagli altri. Troviamo infatti del rap nelle “ospitate” (Tre Hardson in ‘Cameltosis’, Ice Cube in ‘Children Of The Korn’ e Fred Durst in ‘All In The Family’). Troviamo i primi singoli dalla maggior accessibilità ma che ne decreteranno il successo definitivo come ‘Freak On a Leash’ (il cui video è prodotto da Todd McFarlane) e ‘Got The Life’, o episodi più ‘disturbati’ (dove forse si riconosce meglio quanto prodotto dalla band in passato) come ‘It’s On’, ‘Dead Bodies Everywhere’, ‘Pretty’ e ‘Justin’.
Saranno invece tutte queste influenze a funzionare nel 1998, facendo tramontare definitivamente quello che già era un ricordo del grunge e elevando il Nu-Metal a genere più in voga del momento. A questo va dato merito ai nostri di aver capitalizzato le idee dei due album precedenti e averle rese più accessibili, in una scalata alle classifiche che, discograficamente parlando, si chiuderà con il successivo ‘Issues’; i Korn post 1999 saranno, meritatamente, una band più che affermata, non più cinque ragazzi disperati promotori di un sotto genere che pone le sue attenzioni sui più deboli.
La voce di Davis è più controllata ma comunque attendibile, abile nel farsi seguire dai suoi fedeli compagni, in una soluzione che, nelle sue trame funky e hip-pop, pur funzionando non regala più il primo piano alle chitarre, abbinando melodia a schizofrenia a rabbia adolescenziale: chiaro, a partire dalla copertina, il riferimento e l’appoggio della band ai più disadattati, maltrattati, ignorati.
Piaccia o meno, questo album pone la band sul gradino più alto del Nu-Metal, posizione che non abbandonerà mai (ma che cadrà assieme al genere, ovvero poco dopo ‘Take a Look In The Mirror’). Un album la cui uscita (importante, sotto questo aspetto, la tempistica) porterà il Nu-Metal, già sull’ orlo di esplodere, a genere di punta.
Qualche curiosità: per quanto in America, e non solo, il numero 13 non porti bene, l’ album presenta tredici tracce; inoltre, ‘It’s On’, primo brano dell’album, è posizionata al numero 13 dopo dodici tracce silenziose (della durata di cinque secondi l’ una).
Come avviene in ‘Take A Look In The Mirror’, al termine dell’ultima traccia ‘My Gift To You’ (che, assieme a ‘Daddy’ e ‘Kill You’ chiude la trilogia di canzoni poste in chiusura che meglio descrivono tutti i sentimenti, sia di testi che di interpretazioni, di Davis) è presente una ghost track dal titolo ‘Earache My Eye’ (cover del duo Cheech & Chong). La curiosità di questo brano è che, chitarristi a parte, gli altri tre membri della band si alternano agli strumenti: Davis suona la batteria, Silveria il basso mentre a cantare è Fieldy.
Infine, permettetemi una battuta: doveste, un giorno, prendervela con qualcuno, ditegli/le: “sei inutile come le prime dodici tracce di ‘Follow The Leader’!”.

1. ‘Korn’ (1994)


Cosa aggiungere a quanto detto in ventisei anni, riguardo uno degli album più innovativi, originali e personali (testamento di un nuovo sotto genere dell’ Heavy Metal) di sempre? Poco o nulla.
L’album, le canzoni e i testi sono coerenti tra loro nel genere, fatto di chitarre ribassate, basso che slappa spesso ed è l’ elemento più funky, batteria che colpisce dritto sullo stomaco e Davis che sembra il giusto prosieguo di Kurt Cobain: un’anima tormentata, malata, che vuole raccontare e trasferire (urlando, sussurrando, blaterando (grazie allo scatting), affannandosi, disperandosi, attaccando chi gli ha rovinato l’ esistenza) all’ascoltare tutto il suo dolore, la sua lotta contro la felicità (e non contro l’infelicità), fatta di un passato burrascoso e di un presente che non conosce pace. I testi affrontano tematiche che diventeranno il trademark di Jonathan e che la band asseconderà strumentalmente, come la morte, la droga, ma soprattutto gli abusi subiti dallo stesso cantante (esempio eclatante è ‘Daddy’) in quella che è e sarà una presa di posizione dei nostri nei confronti dei bambini maltrattati e “abusati”, a partire dalla copertina (o meglio, dalle copertine dei primi tre album). In questo caso, se voltiamo l’album osservandone il retro, la bambina e quella persona, di cui vediamo solo l’ ombra, presenti nella copertina frontale non ci sono più, lasciandoci soli con l’ altalena e, come nei migliori romanzi di Stephen King, facendoci immagine quale crudele destino spetti alla piccola.
Data la coerenza di tutto ciò, è inutile parlare nello specifico di un singolo brano: si potrebbe dire, invece, che grazie a genere e testi proposti quest’album sia una sorta di “concept”, nonché la testimonianza dell’ inizio di un “nuovo Metal”: Nu Metal, per l’appunto. Un album (e un genere) aggressivo, un pugno in faccia, una ventata d’originalità e di freschezza port-Grunge, che mescola sapientemente Heavy Metal (soprattutto nelle chitarre, sature e ossute, che non regalano assoli ma riff semplici eppure efficaci), elementi di industrial, funky, rap ed hip-pop. Dopo il grunge, ecco un nuovo genere che, pur derivando dall’Heavy Metal, mescola le carte in tavola stravolgendone ogni traccia, ogni stereotipo. Come le chitarre, tutta la produzione si presenta ossuta, scheletrica, secca: un giusto connubio alle atmosfere sinistre, scure, malate che ogni canzone regala.
A proposito, le canzoni: devo citarle? A differenza di quanto si potrà sicuramente leggere in altre recensioni, come ho scritto l’intero album funge quasi da concept, data la coerenza della formula adottata dai nostri. Motivo per il quale ogni canzone è un capolavoro, da ‘Blind’ (divenuta non solo cavallo di battaglia, bensì inno della band), il cui lungo, sinistro, malato e graduale aumento d’intensità sfocia nell’urlo ‘Are You Ready’, alla conclusiva ‘Daddy’, o meglio alla ghost-track ‘Michael & Geri’. Qui non si tratta di episodi riusciti meglio o meno: qui si tratta di lasciarsi avvolgere, dalla prima all’ultima nota, da questo sinistro carillon, le cui note sprigionano “mal de vivre”, dolore, rabbia, in quella che è una nuova, innovativa, proposta di Heavy Metal. Sogni d’oro. O, meglio, incubi d’oro.

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