‘Born Again’ – l’ennesima rinascita dei Black Sabbath o l’inizio della fine?

Il 12/09/2023, di .

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‘Born Again’ – l’ennesima rinascita dei Black Sabbath o l’inizio della fine?

Quarant’anni di ‘Born Again’… sogno o son desto? Se penso che si tratta di uno dei primi album del Sabba Nero da me ascoltati per intero, se penso a quella cassetta da 46 con il logo inequivocabilmente goticheggiante che sparavamo a tutto volume nei radioloni fuori dalla sala prove degli altri, se penso che non avevo ancora neanche un album dei Deep Purple a casa e quella era l’unica traccia sonora di Ian Gillan presente nella mia risicata collezione a parte ‘Gipsy’s Kiss’ su una compilation miscellanea, inizio davvero a sentire il peso delle rughe.
Nel tempo la cassetta è stata sostituita da un CD trovato a prezzi stracciatissimi presso un negozio di Bari e poi anche da un vinile a quotazione altrettanto conveniente saltato fuori in quel di Roma, ma la sostanza non cambia: qualsiasi mia parola relativa a quel disco così divisivo nella carriera di Iommi e soci risente di quelle immagini sfocate, di quell’esaltazione giovanile per un’opera che appariva così maligna e oscura a dispetto degli intenti degli stessi protagonisti. La storia la conosciamo un po’ tutti: orfani di Dio e Appice e con il redivivo Ward al proprio fianco, Iommi e Butler incontrano Ian Gillan in un pub e dopo l’inevitabile valanga di pinte gli fanno una proposta così assurda da venire immediatamente accettata. Solo che il giorno dopo, con l’hungover ancora incipiente, la nostra ugola d’oro riceveva la telefonata del proprio manager che – tra il divertito e il preoccupato – gli faceva notare come avrebbe dovuto essere informato per primo di una mossa così importante. “Quale?” chiese il Nostro. “Beh, sei entrato nei Black Sabbath!”. Ebbe così inizio una delle collaborazioni più sbeffeggiate della Storia, una di quelle che ti fanno usare la definizione “due mondi che non dovrebbero mai incontrarsi” specie alla luce di quelle che sono le percezioni di rivalità tra i colossi degli anni ’70. Attenzione, quando uso il termine “sbeffeggiate” parlo della stampa, mai tenera con i nostri, e non certo del pubblico, ben felice come sempre di vedere all’azione i propri beniamini, pur in una veste inusuale.
“Deep Sabbath” fu il nickname dato dai critici alla famigerata combriccola autrice dell’undicesimo disco della band di Birmingham, laddove si tende a dimenticare come le presunte ostilità tra i vari gruppi erano frutto dell’immaginario collettivo con il beneplacito della solita stampa. Zeppelin e Sabbath, tanto per dirne una, venivano dagli stessi bassifondi e spesso si erano incontrati anche in sala prove. Più difficile immaginare un incontro tra Iommi e Blackmore, ma chi può dirlo? E in fondo, non è forse meglio godersi la musica che le cronache scandalistiche di un’epoca ormai così lontana dal nostro sentire?
Di ‘Born Again’ noi “specialisti” ricordiamo tante cose: dagli ingombranti monoliti di Stonehenge sul palco a ‘Trashed’ bannata da radio e TV per l’irriverente video e il testo oltraggioso per le giovani menti della nazione, a Ian Gillan che non si integrerà mai nell’immagine all-black dei suoi nuovi compari, preferendo il giubbotto di jeans d’ordinanza e ricordando a malapena i testi delle canzoni, specie quelle degli altri, al fatto che sia a tutti gli effetti l’ultimo full length dei Black Sabbath con Bill Ward dietro le pelli, che non andrà in tour per la ricomparsa dei suoi demoni e verrà sostituito dal fido Bev Bevan, fino alle reazioni dello stesso Gillan all’ascolto di un mix finale al di sotto delle aspettative nonché di una copertina proposta appositamente per essere scartata e invece divenuta una delle immagini più iconiche della galassia hard’n’heavy. E la musica?
Già, è tempo di parlare della vera magia di uno dei pochi dischi post anni ’70 che vede tre quarti della formazione originale all’opera, e si sente: dalla già citata opener al fulmicotone ‘Trashed’, purtroppo esclusa dalle setlist live e poi recuperata da Iommi e Gillan su ‘WhoCares’ assieme a Glover e Paice, alla terrificante ‘Stonehenge’ che fa da preludio a uno dei picchi assoluti dell’album, quella ‘Disturbing The Priest’ che ci regalerà l’urlatore di Houslow mai più così in forma come allora, qui assoluto protagonista assieme al basso pulsante di Geezer di una track guidata tra parlati, grida stentoree e atmosfere plumbee in realtà ispirate a un episodio comunissimo, quello del parroco di campagna che chiede ai Nostri di chiudere la porta della sala prove perché sono in corso le prove del suo coro…
Di ‘Zero The Hero’ e dei Guns N’ Roses che ne hanno gentilmente preso in prestito il riff portante per ‘Paradise City’ si è altresì parlato a profusione, così come della cover fatta dai Cannibal Corpse ai tempi che furono per l’EP ‘Hammer Smashed Face’; è dunque tempo di concentrarsi sul lato B, che si apre con la frenetica ‘Digital Bitch’, che anticipa la tematica dell’amabile Sharon Arden che sarà poi approfondita su ‘Devil and Daughter’, per proseguire con la visionaria title track che ci consegna un Gillan davvero e forse per l’ultima volta in forma smagliante, con il riff roccioso di ‘Hot Line’ (per chi scrive l’episodio meno memorabile del disco, non così per Iommi e soci che la collocarono in bella vista ai primissimi posti di tutte le scalette live) e con la conclusiva ‘Keep It Warm’, impreziosita dal solito testo dedicato da quel furbacchione di Ian alla propria donna e soprattutto da uno degli assoli di chitarra da antologia di cui è ampiamente disseminata la discografia dei Black Sabbath.
Quel che resta dopo tutti questi anni è un album che è un unicum nella discografia sabbathiana, caratterizzato com’è da un suono inimitabile nella sua imperfezione (nonostante da più parti si levino cori che ne invocano la rimasterizzazione immediata!) e da un’alchimia che è data proprio dal “connubio impossibile” tra le parti in causa: la fucina inarrestabile di riff del “solito” Iommi, l’ossatura imprescindibile delle quattro corde di Butler, il tocco pesante ma irripetibile di Ward e il ghigno beffardo e disincantato che aleggia sulle parti vocali di Gillan. Per non parlare del prezioso apporto di Geoff Nicholls, che si era già distinto dietro le quinte del precedente ‘Mob Rules’ e che dal capitolo successivo diverrà titolare effettivo della formazione di Birmingham.
Peccato che dopo questo lavoro la carovana dei Sabbath imboccherà una traversata nel deserto dovuta allo sfaldamento progressivo della formazione che lascerà per lungo tempo il solo Tony Iommi al timone, pressato dalle label al fine di mantenere il nome in copertina, ma ancora in grado di regalarci atmosfere senza tempo persino nei dischi considerati “minori” degli anni a venire. Ian Gillan veleggerà sicuro verso la reunion del Mark II che da allora lo vedrà quasi ininterrottamente in prima fila nella band madre, mentre Geezer Butler farà capolino qua e là, quando le circostanze garantiranno sufficiente continuità al monicker pesante da onorare: al Live Aid, in occasione delle due reunion con Ronnie James Dio (sulla coda della prima delle due parteciperà anche a ‘Cross Purposes’) per tornare saldamente a bordo sulla scia della reunion con Ozzy, prima con l’omonimo live e poi con ’13’. Lo stesso Bev Bevan tornerà brevemente nei ranghi per alcune tracce di percussioni su ‘The Eternal Idol’, salvo lasciare la combriccola in polemica con la discussa e famigerata decisione di Iommi di esibirsi a Sun City. Diverso il discorso per Bill Ward, che come già detto non avremo più il piacere di ascoltare sulla lunga distanza in un disco dei Black Sabbath: brevi e fugaci le sue apparizioni in occasione del Live Aid, della reunion del ’92 a Costa Mesa, del dimenticato tour sudamericano di due anni dopo e dei concerti immortalati da ‘Reunion’ nella città natale, con però la partecipazione a uno solo dei due inediti realizzati in studio, mentre faranno sicuramente più “rumore” le assenze e le incomprensioni, prima con gli Heaven And Hell, poi con i Black Sabbath dell’ultimo disco e dell’ultimo tour.

Hammer Fact:
– Track-by-track, che passione! A questo proposito, va detto che la versione remaster di ‘Born Again’ uscita nel 2011 (ma dal sound sempre e comunque identico a quello tanto odiato dai detrattori) contiene una versione estesa di ‘Stonehenge’ nonché l’inedita ‘The Fallen’. Sempre parlando di classici, va detto che il tour di ‘Born Again’ non toccò l’Italia ma vide i quattro approdare per la prima volta sul suolo spagnolo: oltre a ‘Neon Knights’ e ‘Heaven And Hell’ del periodo con Dio e alle arcinote ‘Paranoid’, ‘Iron Man’, ‘War Pigs’ e ‘Children of the Grave’, a Gillan toccò il ripescaggio del boogie ‘Supernaut’, incidentalmente uno dei pezzi del Sabba Nero più amati da John Bonham e Robert Plant. Il triangolo è completo, a quanto pare; e a proposito di curiosità, non perdetevi dai vari bootleg presenti in Rete una versione più nera che mai di ‘Smoke On The Water’, vero e proprio omaggio di Iommi e Butler alla Storia rappresentata dal loro nuovo frontman.
– Doveva essere una personcina davvero simpatica, il supermanager Don Arden: una volta fece dire a Ozzy da uno dei suoi roadie che il mostriciattolo della copertina di ‘Born Again’ gli ricordava nientepopodimeno che le piccole Aimee e Kelly Osbourne. Peccato che oltre a essere le figlie di Ozzy, le due fossero anche a tutti gli effetti le nipotine dell’amabile Don…
– Incredibilmente esiste il video di ‘Zero The Hero’, un trip tra l’allucinante e il nonsense. Se le autorità dell’epoca si erano premurate di limitare la trasmissione di ‘Trashed’, qui non si saranno affatto poste il problema. Chi mai avrebbe trasmesso una cosa simile nel 1983?

Line-Up:
Tony Iommi: guitars, guitar effects, flute
Geezer Butler: bass, bass effects
Ian Gillan: vocals
Bill Ward: drums, percussion

Tracklist:
01. Trashed
02. Stonehenge
03. Disturbing the Priest
04. The Dark
05. Zero The Hero
06. Digital Bitch
07. Born Again
08. Hot Line
09. Keep It Warm

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